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Autore: AnnabethJackson    01/03/2014    15 recensioni
| Percabeth | AU |
---------------------------TRAMA---------------------------
Annabeth ha 18 anni quando viene violentata. Subisce un trauma così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere,a vivere. Nessuno è in grado di aiutarla ad uscire da quella bolla di indifferenza in cui è intrappolata.
Due anni dopo Annabeth non è diversa da quella maledetta sera, e il padre, l'unico uomo di cui lei si fidi ancora, non riesce più a vederla riversa in quello stato. Così convince la figlia a partire per il Brasile in veste di insegnante, ed è così che la ragazza fa una promessa a sé stessa: nulla avrebbe dovuto rinvangare il suo passato.
Annabeth però non sa che la scintilla perduta è proprio dietro l'angolo della bella Rio, mascherata da un ragazzo da cui deve stare lontana, dei bambini che amano la vita, e un amore inaspettato, per nulla voluto, ma in grado di innescare il processo di rinascita inevitabile.
------------------------DAL TESTO------------------------
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta. È importante che tu ti prenda tutto il tempo necessario, ma ho l'urgenza di dirti che...» mormorò.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nico di Angelo, Percy/Annabeth
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love the way you live - La raccolta'
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Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.


Capitolo 5


Fattoria Ferreira, 21 Giugno 2012

Annabeth


La prima volta che ero tornata a casa mostrando il massimo dei voti nel test di matematica, mio papà, eccellente studioso e docente qualificato dell'Università di New York, mi aveva comprato un gelato come ricompensa, promettendomene un'altro la volta successiva.
Si era mostrato esplicitamente felice ed orgoglioso, perché era stato lui ad insegnarmi a leggere e scrivere prima ancora di iniziare la scuola. Mi aveva spronato fin da subito ad impegnarmi in tutto quello che facevo, che mi piacesse o meno.
Qualche anno dopo mi ero resa conto che senza di lui non sarei riuscita ad ottenere i risultati che avevo ottenuto. Vedevo sempre i miei compagni di classe dormire o cincischiare con il cellulare durante le lezioni, mentre il pomeriggio se ne uscivano con gli amici, ed allora mi chiedevo: dove erano i loro genitori nel momento di istruire i propri figli? Non potevo fare a meno che paragonare due genitori sposati e, tutto sommato, presenti, con il mio papà, solo ed impegnato anche la Domenica. Ed ogni volta mi stupivo del risultato che lui aveva ottenuto solo standomi accanto e motivandomi al meglio.
Al di fuori di Piper, che considerava come una figlia adottiva, papà era il mio migliore amico, quello che mi sosteneva in tutto quello che facevo, consigliandomi a seguire il mio istinto, le mie passioni.
E quando era arrivato il momento in cui avevo più bisogno della sua presenza, mi era stato accanto, facendo il possibile perché superassi quel trauma. Era diventato l'unico uomo di cui io mi fidassi, l'unico in grado di avvicinarmi senza che mi mettessi ad urlare nei primi tempi dopo l'accaduto. Non si era lamentato per tutte le notti insonni che aveva passato a causa degli incubi seguiti dalle urla isteriche. Non aveva fatto una piega davanti al conto dello psicologo cui si era ostinato a mandarmi. Non solo; mi aveva vista partire per un paese lontano nella sola speranza di vedermi nuovamente felice.
Non sarei mai riuscita a ripagarlo di tutto quell'amore nei miei confronti. Quell'amore così grande che non mi meritavo affatto.
Sopratutto perché la sera prima mi ero dimenticata di chiamarlo dopo essere atterrata in aeroporto. Ero una figlia ingrata, su quello non c'era dubbio. Non riuscivo neanche ad immaginare la sua preoccupazione nel non ricevere una mia chiamata.
Quella mattina, mentre finivo di fare colazione, quella dimenticanza prese padronanza dei miei pensieri all'improvviso, destandomi da altrettanti pensieri che di felice non avevano nulla.
Lasciai la presa sulla forchetta che tenevo in mano la quale, venendo a contatto con la superficie piana del piatto, proruppe in un rumore metallico.
-Oh, no!- picchiai il palmo della mia mano destra sulla fronte, dandomi mentalmente della stupida.
Attirai l'attenzione dei presenti; Chintia, che nel mentre era tornata ai fornelli, si girò di scatto sorpresa, mentre Grover e Jackson, rispettivamente seduti al tavolo della cucina e impegnati in una fitta conversazione su motori e quant'altro, mossero il capo nella mia direzione.
-Che succede, principessa?- chiese Chintia evidentemente preoccupata.
Nuova vita, nuovi cambiamenti. Continuavo a ripetermi quel mantra, ininterrottamente.
Nella mia vecchia vita avevo già fatto preoccupare a morte troppe persone, in primis papà, e, se volevo rispettare quel motto auto impostomi, non dovevo mostrarmi debole.
-Niente di importante, ho avuto un lapsus.- dissi minimizzando la cosa con un gesto della mano. -Ora scusatemi, ma devo fare una cosa prima di partire.- detto ciò uscii a grandi passi dalla porta sul retro e, appena ebbi sceso i pochi gradini che separavano la porta dal prato, misi mano sul cellulare, situato nella tasca anteriore dei miei jeans.
Mi allontanai di qualche metro, giusto per porre una certa distanza tra me ed eventuali orecchie indiscrete. Ovviamente non mi stavo riferendo a nessuno in particolare.
Mi appoggiai alla corteccia di un grande melo, postato in prossimità della casa e, freneticamente, schiacciai sui tasti del dispositivo elettronico, componendo il numero che conoscevo fin dalle prime raccomandazioni di papà sulla sicurezza.
Il bit bit regolare che indicava l'attesa di una risposta mi tenne occupato il cervello già fin troppo attivo per i miei gusti.
Un pensiero improvviso mi fece allontanare il dispositivo dall'orecchio un istante, per controllare l'ora locale. Commettendo lo stesso errore della mia amica la sera prima, non avevo tenuto conto del fuso orario.
Fortunatamente, per una coincidenza inspiegabile, constatai che a New York erano solo le 7 di mattina, e che papà si era svegliato già da un pezzo. Malgrado le lezioni dell'Università fossero sospese a causa delle vacanze estive, lui aveva l'abitudine di alzarsi presto la mattina e di andare a comprare del pane appena sfornato dal fornaio sotto casa.
Finché non sentii un fruscio indefinito uscire dall'altoparlante del cellulare, un peso di consapevolezza mi strinse lo stomaco.
-Annabeth!- la voce era allegra e spensierata, niente a che vedere con quello che avevo previsto io. -Allora come va nella bella Rio?-
Sorrisi sentendo che mio padre era felice. La sua felicità influenzava la mia, come sempre.
-Benissimo. Mi hanno portato in una casa bellissima al di fuori della città. E qui le persone sono gentilissime!- risposi sinceramente.
-Mi fa molto piacere, Annabeth. Sento che quando tornerai non sarai più la stessa.- l'ultima parte l'aveva solo sussurrata, forse non voleva neanche farsi sentire.
Non sapevo cosa rispondere, con quella frase mi aveva completamente spiazzata.
-Papà...- tutto ad un tratto quella felicità che mi aveva colpito appena avevo sentito la sua voce, sfumò come acqua l'asciata al sole di Agosto per troppo tempo.
-Ehi, Annabeth, ascolta. Ricordi quello che ti ho detto ieri?- cielo, era passato solo un giorno da quando l'avevo visto! Incredibile come quel tempo mi era sembrato infinito.
-Si, certo.-
-Bene, perché ho ancora quella convinzione.- fece una pausa che non seppi interpretare. -Comunque, tutto bene?-
Con quella domanda velata mi stava chiedendo sia se stavo bene a livello fisico che, sopratutto, a livello mentale.
E subito il mio pensiero corse a Jackson.
Non si poteva definire un'incontro bello, sopratutto perché con pochi gesti e poche frasi era riuscito a farmi perdere il controllo per un attimo. Ma, per qualche ragione a me estranea, non volevo far preoccupare papà per quella che era un'incognita. Jackson.
-Si, certo, va tutto alla grande.- risposi evasiva, spostando lo sguardo all'orizzonta dove, in lontananza, si poteva vedere il mare.
-Papà, scusa, ma ora devo andare. Tra poco dobbiamo partire per andare in città e devo finire di disfare i bagagli.-
-Certo, anch'io devo andare. Tra poco inizia la mia lezione di pilates. Passa una buona giornata, Annabeth. Ci sentiamo domani.-
Un attimo. Papà faceva... pilates? Da quando?
-Ti voglio bene.- chiuse la telefonata prima che io avessi il tempo di metabolizzare la cosa.
Okay, questo era assai strano.
Pilates. Papà. Non ne vedo il collegamento logico.
-Annabeth?- nel sentirmi chiamare, ritornai alla porta sul retro, dove mi aspettava Grover con un sorrisetto sul volto barbuto.
-È ora di andare. Ci aspettano per le 11 alla casa della comunità e, se non partiamo subito, rischiamo di inciampare nel traffico di punta. E ti posso assicurare che da lì non ne usciamo più.-
Rinfoderai il cellulare nella tasca dei jeans prima di rientrare e salutare Chintia, la quale mi strinse in una abbraccio e sussurrò qualcosa nell'orecchio in spagnolo. Non ne colsi il significato a causa della mia ignoranza in materia. Dopotutto non avevo mai studiato spagnolo.
Presi posto davanti e, con mia grande sorpresa, Jackson non obiettò.
La strada buia e irregolare che avevamo percorso il giorno prima, quella mattina mi si rivelò molto diversa da come l'avevo immaginata. Procedeva in discesa, anche se in alcuni punti compiva un'oscillazione in salita. Con la mia scarsa esperienza di guida, sicuramente, sarei finita fuori strada già alla prima curva.
E poi, in un battito di ciglia, il paesaggio, da boschivo qual'era, cambiò radicalmente la sua natura.
Stavo guardando Rio in tutto il suo splendore.
Forse la sera prima ero troppo stanca per avere anche solo la forza di guardare fuori dal finestrino. O, semplicemente, non avevo abbastanza voglia e interesse.
Ma quella mattina, con il sole alto nel cielo, mi era impossibile ignorare tutti quei colori.
I miei occhi saettavano a destra e manca, famelici come un senzatetto davanti ad una tavola calda a Natale. Non erano mai sazi di apprendere informazioni, cose, persone. Tutto.
La gente, che la sera prima mi era sembrata troppo lenta, in quel momento irradiava vita pura. Ognuno, uomo, donna, bambino, sorrideva al suo interlocutore, o anche solo al cane che passeggiava per la strada in cerca di cibo.
Quello che avevo visto all'aeroporto non era niente in confronto a quello che vedevo in quel momento.
Con la stessa rapidità con cui il paesaggio si era fatto variopinto e vivace, lo sfondo si fece nettamente più povero.
Procedendo lungo quella strada che stavamo costeggiando, ci lasciammo alle spalle i grandi palazzoni di vetro e i grattacieli costosi per entrare in quello che, supponevo, fosse una delle tante favelas di Rio.
-Siamo quasi arrivati, vero?- Grover distolse per un attimo gli occhi sulla strada, e mi sorrise tristemente.
-Si.-
La parte posteriore del furgoncino era così silenziosa che quasi mi ero dimenticata della presenza di Jackson, seduto compostamente e con il capo rivolto verso il finestrino.
Dallo specchietto retrovisore lo studiai, cercando di capire perché aveva quell'espressione così... pensierosa. Sembrava vivere in un mondo tutto suo, come se si fosse estraniato dalla realtà. Quello che capita spesso anche a me, dopotutto.
Uno sbalzo improvviso mi fece distogliere lo sguardo dallo specchietto, mentre la cintura mi strattonava ancora una volta nella sua ferrea morsa.
Grover aveva parcheggiato sul ciglio di una strada deserta. Sul lato destro era costeggiato da una staccionata color mattone, mentre il lato sinistro dava su alcune casette modeste.
-Siamo arrivati.-
Sul cancelletto che dava l'accesso al di là della staccionata, era stanziato un uomo barbuto che, presumibilmente, stava aspettando il nostro arrivo.
Camminai dietro a Grover con Jackson al mio fianco. Forse involontariamente, Jackson mi sfiorò il braccio nudo con il proprio e quel contatto, seppur breve, mi mise i brividi. Non volevo fargli capire che qualsiasi tocco maschile che non fosse quello di mio padre mi terrorizzava, così mi allontanai di qualche passo, incrociando le braccia al petto e incassando il collo.
Grover allungò la mano prima ancora di essersi fermato, sorridendo cordiale.
-Ehi, come te la passi, bello?- non conoscevo Grover abbastanza per poterlo giudicare, ma quel suo modo di salutare non sembrò piacere all'uomo.
Più o meno sembrava essere sulla quarantina, ma la barba bruna e folta nascondevano una buona parte del viso. La camicia a fantasia hawaiana non mi sorprese più di tanto, ma i semplici pantaloni kaki sì. Forse avevo sopravvalutato i brasiliani, ma quello mi sembrava completamente fuori standard. Inoltre, a differenza degli altri uomini che avevo visto in giro, lui era nettamente più in carne. L'espressione burbera faceva a pungi con l'abbigliamento allegro.
-Grosvenor quante volte ti ho detto di non chiamarmi bello? Io per te sono Doniso e basta.- malgrado il suo tono fosse di rimprovero, allungò la mano per stringere quella abbronzata di Grover.
-E io le ho detto un sacco di volte che mi chiamo Grover, signor Dioniso, ricorda?- rispose a tono Grover, sogghignando.
L'uomo minimizzò la cosa con un gesto frettoloso della mano.
-Non ne vedo la differenza. Dunque voi due dovreste essere i nuovi volontari.- disse rivolgendosi con disinteresse verso di noi.
-Si signore, io sono Annabeth Chase.- feci un passo in avanti porgendogli la mano che lui si affrettò a stringere brevemente.
-E io sono Percy Jackson.- lui invece si limitò a fare un cenno di saluto. Il che non sembrò piacere molto al signor Dioniso che fece una smorfia in risposta.
Ecco il solito maleducato.
-Bene; signorina Chase, giovanotto, seguitemi. Abbiamo molte cose da fare e poco tempo per portarle a termine. E io sono un uomo molto impegnato.-
Guardai Grover che se ne stava lì fisso, sorridendo divertito a Jackson che, invece, era evidentemente perplesso in relazione al nomignolo affibbiatogli dal signor Dioniso. Ben gli stava. Così avrebbe imparato una buona volta le buone maniere.
Mi avviai lungo la stradina che portava ad una porta, seguendo le orme del signor Dioniso. Alle mie spalle, il suono sordo delle scarpe di Jackson a contatto con la ghiaia mi irritarono parecchio.
Un tappetino con la scritta “Welcome” e un cane marrone con la lingua a penzoloni, mi diedero il benvenuto all'interno della struttura.
Un corridoio in linea retta si prolungava per una ventina di metri, e dava l'accesso a quattro porte color blu notte. Le pareti erano decorate da disegni infantili che mi ricordavano tanto l'asilo dove andavo prima che la mamma se ne andasse.
Appoggiai il palmo della mano aperta sopra quella gialla di un bambino disegnata con la tempera. Accanto, a lettere cubitali, vi era scritto un nome, ma era stroppo sbavato perché potessi decifrarlo.
Le impronte tappezzavano tutta la parete di destra, dando vitalità a quel corridoio che, altrimenti, sarebbe somigliato spaventosamente ad un ospedale psichiatrico.
Ero così persa nei miei pensieri che non mi accorsi della mano appoggiata a pochi centimetri dalla mia, sopra ad un'altra impronta, finché quella non parlò.
-Sono piccolissime.- poco più di un sussurro, ma abbastanza forte da farmi trasalire.
Il suo mignolo era ad un paio di centimetri dal mio, sarebbe bastato poco per farli venire a contatto.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma una voce burbera ci obbligò a distogliere lo sguardo dalla parete.
-Venite o no? Ve l'ho già detto. Ho molti impegni da rispettare e voi non siete la priorità.-
Calò il silenzio mentre seguivamo il signor Dioniso lungo quel corridoio colorato.
Si fermò davanti alla seconda porta e l'aprì esortandoci ad entrare.
-Gestisco questo posto da quasi vent'anni. Prima che l'associazione lo ritirasse, l'edifico era una piccola fabbrica locale. Dopo averla ristrutturata, divenne una sorta di pronto soccorso per gli abitanti della favelas locale. Poi, in seguito un'ulteriore ad impoverimento della popolazione locale, aprì anche la mensa dei poveri. E alla fine, un paio di anni fa, partì anche questo progetto per quei marmocchi analfabeti.- disse con un leggero astio nella voce.
Con la mano fece un largo gesto indicando la stanza in cui ci trovavamo e, guardandomi attorno, mi accorsi che eravamo entrati in quella che sembrava... un'aula?
A mezzo metro da me partiva una serie di banchi di piccola taglia, grandi abbastanza per ospitare un paio di bambini, ma troppo piccoli perché potessi infilarci le mie gambe.
Ogni tavolino era accompagnato da due sedie, alcune di legno altre di plastica colorata. Quelle di legno erano pasticciate da scritte e tratti di correttore bianco.
Praticamente erano tutti gli scarti ancora utilizzabili.
Opposta alla serie di banchi, vi era una lavagna nera, ancorata alla parete, di quelle vecchio stampo divisa in quadrati bianchi come un quaderno.
-Questa è la classe.- commentò il signor Dioniso anche se era ovvio. -Ora seguitemi nel mio ufficio. Vi devo consegnare tutto il materiale e darvi le ultime informazioni.- e senza attendere oltre uscì dall'aula sicuro che noi lo seguissimo, cosa che, in effetti, facemmo. Ma vidi Jackson muovere un passo con riluttanza verso quell'uomo. Per il resto la sua faccia era una maschera.
Percorrendo ancora quel corridoio variopinto entrammo nell'ultima porta e, con mia grande sorpresa, mi trovai davanti ad un padellone di metallo. Usciva del fumo biancastro, come quella nebbia perlata che si poteva vedere nelle notti estive prima di un temporale.
Un forte odore di cavolo e cipolla raggiunse le mie narici, facendomi storcere il naso per la troppo intensità.
-Si usted lo desea también un poco de tienes que hacer cola.*- disse una donna indicando con un mestolo qualcosa al di là del bancone che separava il grande pentolone dal resto della sala.
Alle superiori avevo studiato spagnolo e, malgrado in precedenza l'avessi trovato inutile, in quel momento ringraziai la mia tutor per avermi obbligato in quella scelta.
La donna che mi aveva parlato indossava una cuffietta bianca a rete, simile a quelle che indossavano le crocerossine, e un grembiule che in origine doveva essere bianco.
Guardai al di là del bancone e rimasi a bocca aperta.
Una lunghissima fila di persone di tutte le età serpeggiava nella sala mentre la coda non si vedeva neppure dato che proseguiva oltre la porta principale d'entrata.
Il capofila era un uomo dalla folta barba incolta che indossava vestiti così unti e consunti da farmi venire i brividi pensando di sentirli sulla mia pelle. I senzatetto di New York non erano così. Non che ne avessi visti molti comunque.
Mi sentii sfiorare leggermente un braccio scoperto e, istintivamente, mi ritrassi come se scottata. Da quella notte un qualsiasi tocco estraneo mi faceva accelerare il battito del cuore, e lo stomaco mi si stringeva in una piccola morsa.
-Ehi, tranquilla. Sono solo io.- Jackson ritirò il braccio con cui mi aveva sfiorato, alzando le mani in segno di pace. -Non volevo spaventarti.- disse serio.
Mi strinsi le braccia al petto, incurvando le spalle e incassando il collo. Lo guardai dal basso, attraverso le ciglia, consapevole che la mia reazione era stata sbagliata.
-Non fa niente, solo non... non toccarmi più.- vidi la sua fronte aggrottarsi naturalmente perplesso ma, prima che potesse dire altro, lo superai, varcando la soglia dell'unica porta aperta oltre a quella che mi ero lasciata alle spalle. Sperai che il signor Dioniso fosse andato da quella parte visto che era sparito.
Ero stata troppo avventata, lo sapevo, ma mi aveva preso di sorpresa.
Entrai in un ufficio, dove il signor Dioniso era seduto su una sedia, al di là di una scrivania in mogano. Stava scribacchiando qualcosa su un foglio, ma accanto a lui un bicchiere pieno di un liquido marroncino richiamava la sua attenzione ogni cinque secondi.
Però, doveva essere piuttosto assetato.
-Oh, signorina Chase finalmente si è decisa a raggiungermi. Dov'è l'altro ragazzo?- chiese quando finalmente si accorse della mia presenza.
-Sono qui.- disse una voce alla mie spalle.
-Alla buon'ora giovanotto. Ho un sacco di cose di cui occuparmi e il tempo è quel che è, quindi prendete questi fogli e andate.- sorseggiò ancora dal bicchiere in cristallo, indicando a due documenti bianchi completamente uguali con il capo.
Ne presi uno lasciando l'altro a Jackson, poi cominciai a sfogliarlo.
-Lei signorina Chase si occuperà della classe più piccola. Insegnerà ad un totale di venti bambini che hanno un'eta compresa tra i 5 e i 10 anni. Sono sicuro che riuscirà a gestirli al meglio ma la devo avvertire che c'è un bambino che lo scorso semestre ha creato non pochi problemi alla precedente insegnante. Alla fine dei sei mesi è quasi scappata a gambe levate.- borbottò. -Se fossi in lei non esiterei ad usare, ehm, le maniere cattive. Ma è libera di scegliere lei.-
Ma di che diavolo stava parlando?
-Comunque questo è il succo. In quanto a lei, giovanotto, insegnerà ai ragazzacci più grandi. Le servirà non poca fortuna.- sbagliavo o il signor Dioniso stava sogghignando?
-Tutto quello che vi serve è sul foglio che avete in mano. Le lezioni iniziano alle 9 e terminano alle 15, con la pausa pranzo di mezzo.- disse facendo un vago gesto con la mano che non teneva il bicchiere quasi vuoto. -Bene, credo di avervi detto tutto. Ah, no! Credo sia bene informarmi che le condizioni in cui versano i bambini non sono proprio, ehm, lussuose. Provengono dalla favelas di Rocinha che, se non lo sapete, è la più grande di Rio e anche quella più povera.- il suo tono di voce si era nettamente abbassato, divenendo più serio di quello che già era.
Calò il silenzio, mentre io ondeggiavo sui talloni con lo sguardo puntato a terra. Non mi piacevano i silenzi.
Il signor Dioniso si schiarì la gola poi ci rivolse un cenno del capo.
-Beh, potete andare.- non aspettai oltre; uscii dall'ufficio velocemente ripercorrendo la mensa e il corridoio da cui eravamo arrivati. Non aspettai Jackson temendo una domanda sul perché prima mi fossi comportata così.
Quando finalmente appoggiai una braccio alla portiera, dopo aver allacciato la cintura di sicurezza, mi decisi a puntare gli occhi al di fuori del finestrino sentendomi lo sguardo penetrante di Jackson alle mie spalle. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che mi stava guardando.
-Prossima fermata: favelas di Rocinha.- disse allegramente Grover premendo sull'acceleratore del furgoncino.
Durante il breve tragitto passai da un pensiero all'altro senza che essi lasciassero una traccia significativa del loro passaggio nella mia testa. Quello era l'unico modo con cui tenevo la testa impegnata nei momenti più brutti.
Grover e Jackson cominciarono a parlare di motori e altre cose che non destarono il mio interesse finché il veicolo non si fermò sul ciglio di una strada sterrata. Aprii la portiera e le parole si bloccarono in gola.
Prima avevo pensato di essere entrata nel quartiere di una favelas? Beh, qualsiasi fossero state le mie convinzioni prima, in quel momento dovetti ricredermi radicalmente.
Non poteva esistere veramente un simile luogo in quel mondo crudele.
Alle superiori avevo studiato la Seconda Guerra Mondiale sul libri di testo ma il professore aveva deciso di approfondire l'argomento assegnandoci un progetto. Io e Piper avevamo deciso di parlare dei disastri delle bombe nucleari. Tutte le immagini che avevamo trovato in Internet erano così cruente e irreali che la mia memoria le aveva subito sostituite con altro.
Ma quando i miei occhi videro quel posto non riuscii a fare a meno che paragonarlo con le foto.
Le abitazioni, se così si potevano chiamare, erano su un'unico piano rettangolare con qualche finestra con il vetro rotto o completamente assente qua e là. Era costruite con vari materiali; cartone, mattoni rossi, rifiuti... qualsiasi cosa che potesse tornare utile per creare un tetto sopra la propria testa. Ma il tutto dava l'impressione di poter crollare da un momento all'altro.
Inoltre si estendeva per centinaia di metri, se non chilometri.
-Oh, mio, Dio.- sussurrò qualcuno accanto a me.
Girai lentamente il capo, osservando un Jackson a bocca aperta e gli occhi sgranati davanti a sé.
-Incredibile, vero?- commentò Grover alzando un angolo della bocca nell'accenno di un presunto sorriso di scherno.
-Tranquilli, tutti quelli che vengono qui hanno la stessa reazione... presumo che sia normale.- alzò le spalle. -Comunque, seguitemi. Vi faccio conoscere qualcuno.- detto ciò si voltò e in pochi passi sparì al di là di una recinzione verde malridotta.
Mi sentii afferrare un polso da due dita incredibilmente calde, per venire poi trascinata nella direzione di Grover.
Il mio sguardo percorse la lunghezza dalla mano che mi stringeva il polso fino ai capelli corvini di Jackson davanti a me. Ero così basita che mi lasciai trascinare. Che diavolo stava facendo?
Un calore che partiva dalla stretta si propagò lungo i nervi del braccio, diffondendosi ovunque. Ero io il ghiacciolo o lui la stufa?
-Ehi, ci passate quel pallone?- gridò una voce bianca da lontano. O almeno, mi sembrava lontana ma quando voltai il capo, vidi un bambino a piedi nudi correrci incontro.
I riccioli castani gli arrivavano fin sotto gli zigomi, incorniciandogli il volto e facendolo assomigliare ad un angioletto abbronzato. Quando ci sorrise, la splendida dentatura candida mostrò una finestrella, che gli conferiva un'aria tenerissima. Non doveva avere più di 10 anni.
Allungò un braccio per indicare una palla scucita ai miei piedi.
-Me lo puoi dare?- disse sempre sorridendo.
Mi chinai lentamente prendendo tra le mani quella sfera di pelle che presentava cuciture un tempo regolari.
-Pepito sei sempre in giro a combinare guai?- lo rimproverò Grover scompigliandogli quei fantastici capelli che divennero ancor più spettinati.
Il bambino lo guardò dal basso sogghignando come un vero delinquente. Un piccolo e carinissimo delinquente.
-Dovresti saperlo Grover, non avrai un momento di tranquillità finché ci sarò io.- che linguetta!
Grover rise divertito, avvolgendo il bambino con un braccio per avvicinarlo a sé.
-Pepito ti presento Annabeth Chase, la tua maestra da domani.-
Gli porsi la mano, mentre lui spostava lo sguardo da me a Jackson. La strinse, accompagnando la stretta con un sorriso radioso.
-E chi è questa mozzarella?- chiese poi accennando a Jackson accanto a me.
Non riuscii a trattenermi nello scoppiare a ridere di cuore davanti alla faccia prima perplessa e poi indignata di Jackson.
-Ehi, pulcino, io avrei un nome!- brontolò infastidito, incrociando le braccia al petto e imbronciandosi.
-Pure io, mozzarella, ed è Pepito.- rispose a tono il bambino, sogghignando.
Anche Grover stava facendo fatica a trattenersi, così mascherò l'eccesso di risa facendo un colpo di tosse.
-Lui è Percy Jackson, l'altro maestro.-
-Ehi, Pepito, la palla!- gridò un'altra voce bianca dal campo in cui ci aveva portato Grover.
Solo in quel momento mi accorsi dei bambini disposti in modo casuale in quel campetto d'erba. Ai vertici c'erano quattro mucchi di vestiti, due per parte, per improvvisare una porta da calcio.
-Ragazzi venite!- li chiamò Pepito, sbracciandosi nella loro direzione.
Quelli ci corsero incontro. La prima cosa che mi saltò all'occhio erano i vestiti -stracci- rattoppati che indossavano e la completa assenza di calzature ai piedi della gran parte dei bambini.
Chi più abbronzato di un'altro, tutti avevano un'età non ben definibile ma che variava.
-Ragazzi vi presento Annabeth e Mozzarella, i nostri nuovi insegnanti.- disse Pepito entusiasta, indicandoci.
-Ehi! Ti ho detto che il mio nome è Percy!- si lamentò quello.
-Dettagli...- sghignazzò il bambino, sorridendomi complice mentre anch'io ridacchiavo.
Si girò verso Grover porgendogli il pallone.
-Fai una partitella?- gli chiese, provocando il completo assenso dei compagni.
-Certo.- sorrise Grover prendendogli di mano la palla e avviandosi verso il campo improvvisato.
Pepito si girò lentamente ma poi si fermò, rivolgendosi a Jackson con un ghigno di scherno.
-Vieni o no?- Jackson lo guardò prima sorpreso e poi diffidente.
-Va bene.-
-Preparati Mozzarella perché non ti renderò affatto facile la tua permanenza qui.- quella frase mezza sussurrata, mezza no, scatenò ancora le mie risa, il ghigno di Pepito e il broncio di Jackson. I due se ne andarono ma prima che si allontanasse troppo, Jackson si fermò e dalla sua bocca uscì l'unica parola che non mi sarei mai aspettata di sentire da lui.
-Scusa.-



Un grazie a Poseidon97 a cui dedico il capitolo.
Grazie per la tua supplica disperata.
Grazie per seguire questa storia.
Grazie per l'incoraggiamento.
Grazie e basta.










*Si usted lo desea también un poco de tienes que hacer cola. → Se anche tu ne vuoi un po' devi fare la fila.






Spazio fine capitolo:
Non ci sono parole per dire quanto mi dispiace. Lo so, questo capitolo doveva essere postato una settimana fa, e avete tutte le ragioni del mondo per linciarmi/uccidermi/pestarmi/sgozzarmi/quello che volete, ma, in mia discolpa, posso solo dire che me ne sono capitate di tutti i colori e i problemi si sono accumulati, impedendomi di finire di scrivere il capitolo e postarvelo.
Le scuse di Percy alla fine del capitolo sono rivolte ad Annabeth, ovvio, ma è come se fossi io a parlare attraverso Jackson. Quindi mettetevi nei panni di Annabeth e, se volete, accettate le mie scuse sincere.
Non sto qua a elencarvi tutti i miei problemi perché non avrebbe senso.
Vi posso solo dire che da oggi in poi aggiornerò una volta ogni due settimane ma vi prometto che i capitoli arriveranno.
Non so mai come ringraziarvi per le fantastiche recensioni che mi lasciate... e sopratutto un grazie a chi sa aspettare.
Oggi non ho molto altro da dirvi... spero che il capitolo vi sia piaciuto (anche se a me non convince affatto). Si può notare un certo movimento nei bassifondi del rapporto Annabeth-Percy, e, incredibilmente, Percy si è scusato. Come reagirà Annabeth?
Spero vivamente di non aver fatto un casino nel descrivere la favelas e il resto...
Tutto qui.
Un grandissimo bacione miei angeli custodi <3
Annie
  
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