Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Ruta    02/03/2014    3 recensioni
C’era chi non aveva esitato ad attribuire ogni colpa a John Watson.
John Watson aveva messo una pulce nell’orecchio di Sherlock e si sa cosa si dice delle pulci in generale, no?
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
epilogo

15 Febbraio IL BLOG PERSONALE DEL DR. JOHN H. WATSON

San Valentino è arrivato e – pioggia e fulmini – è già passato.
Troppo teatrale? Volete più dettagli? Si alzi il sipario e che le puntate inizino, prego. Tutto è cominciato il giorno in cui Voi-sapete-chi, L’Uomo delle Calamità, esatto proprio Sherlock-Sono-Un-Tormento-Vivente-Holmes ha deciso di organizzare una cena. E non una qualunque, badate bene.
Non fiori e candele e vino a profusione, ma un inverosimile arrangiamento di una cena elegante in casa Addams. Credete che enfatizzi? Povere anime innocenti.
Lasciate ogni speranza, voi che entrate. (“John, sono d’accordo sul vendicarsi, ma questa è un’esagerazione.”
John smise di scrivere – martellare i tasti del laptop con brutale ferocia – per riservare a Mary uno sguardo da invasato. “Il cibo era avariato e lui lo sapeva! Il ristorante è stato chiuso perché non in regola con le normative igienico-sanitarie e lui lo sapeva! E per Dio, tu sei incinta! Devo ricordarti la splendida serata di Tete-a-tete con il bagno?”
Solenni e indigeribili attimi di silenzio. Poi Mary sorrise, di un sorriso minaccioso e sinistro. “Fallo a pezzi, tigre.”)

  

 

La serata per John Watson era cominciata con un lieve formicolio ai piedi, una sensazione di soffocamento, malefica sudorazione e una nausea capillare. Non un attacco di panico. Dannazione, no. Per la miseria, non lo aveva avuto il giorno del suo matrimonio. Non ne avrebbe sofferto ora.
John Watson aveva riso di se stesso. La risata era suonata stridula, ma ci aveva sorvolato con invidiabile aplomb.
“È normale che io sia terrorizzato da una cena?” aveva chiesto al se stesso nello specchio. Non aveva ottenuto altra risposta all’infuori di una smorfia incoraggiante.
Mary volteggiava nel suo vestito lilla con la grazia di una libellula, piena di energie. Gli aveva raddrizzato il nodo della cravatta e gli aveva spolverato lo sparato della giacca, le spalline. “Andrà bene, John.”
Lui aveva scosso la testa con l’aria più sconsolata del mondo. “Una vita che me lo dicono e ancora non è mai successo.”

 

Raggiungete Baker Street. -SH

 

Vuoi provare a respirare in un sacchetto?
Mary aveva avanzato la proposta con una scintilla d’ironia assolutamente inedita. 
John non aveva fiatato. La serata doveva ancora iniziare e già un messaggio aveva annunciato l’ennesimo, imperscrutabile cambio di rotta.
Si diceva che i primi ad abbandonare la nave che affondava fossero i topi; ma il capitano che affondava con la nave era un onorevole imbecille.
Tipico di Sherlock voler smentire un modo di pensare globale. Vanaglorioso megalomane.

 

 

Il 221 di Baker Street era nel caos. E non del tipo di caos che Sherlock ambiva a far passare come pianificato.
Il ritmo incalzante della musica elettronica – Techno? – creava un muro di rumore contro i timpani; qualcuno saltava e qualcun altro rideva e urlava sconcezze.
John ebbe la visione fugace della coda e del posteriore di Toby prima che il gatto trovasse asilo politico nell’appartamento di Mrs. Hudson.
Mrs. Hudson lo seguì a breve, con un portavivande ricoperto di bicchieri di carta. Di sicuro non riempiti con gazzosa.  
Quando li vide, ringraziò il Buon Dio. “Benedetti ragazzi”, li salutò, giusto per rimanere in lidi consacrati. “I vicini hanno già chiamato la polizia, ma quel ragazzo testardo non si lascia convincere a-”
“Quindi Sherlock è di sopra?” s’informò Mary, spicciola, la mano davanti alla bocca a proteggere le parole.
Mrs. Hudson annuì, svigorita, urlando per sovrastare il baccano che proveniva dal piano superiore. “Non da solo!”
Se la notizia sconcertò John non poco, Mary reagì con maggiore filosofia.
Aveva una borsetta elegante appesa al polso, le braccia intrecciate contro la sporgenza pronunciata dell’addome e l’espressione di un cecchino. “John, togli quell’affare dalle mani di Mrs. Hudson prima che ruzzoli giù. ” Cominciò a salire la rampa di scalini a due a due, a testa bassa, come un ariete che sfondi le ultime difese nemiche.
John poggiò il vassoio dove capitava sul pianerottolo (intimò a Mrs. Hudson: “Non si muova di qui”) e si affrettò a seguirla.
Nell’appartamento era in corso un rave party. O fu quello che pensò John in un impeto di insensatezza.
Riverberi bluastri erano creati da un’enorme palla a specchi, del modello da discoteca, issata al centro del soffitto al posto del lampadario; le poltrone erano scomparse, rimpiazzate da una marea di fantasmi che si agitavano come meccani scoordinati e le cui facce entusiaste venivano dipinte a distacchi di tempo irregolari dai riflessi indemoniati dei giochi di luce.
“Mi vuoi prendere per il culo.”
Mary si fece largo a gomitate, spintonò di malagrazia qualche ragazzo strafatto mentre John, in preda a una furia cieca, andava a staccare la spina del sintetizzatore dopo una colluttazione col dj.
Ci fu una momentanea sospensione di rumori e poi la ripresa del frastuono quando un boato di voci cominciò a gridare, facendo a gara a chi ingiuriasse più forte e con maggiore veemenza.
Mary si portò due dita alle labbra e fischiò come in una caserma.
John riaccese le luci. “La festa è finita”, annunciò in tono sepolcrale, contenendo a malapena la rabbia. “La polizia sarà qui a momenti. Vi consiglio di non farvi trovare quando arriveranno, sempre che una notte al fresco non rientri nei vostri piani per la serata.”
Di Sherlock nessuna traccia visibile.
Si mise di fianco alla porta spalancata mentre la folla di sconosciuti sfilava via, in gruppi di quattro, sei o in fila indiana, giù per le scale. (“Di’ al tipo che l’ha organizzata che è stata una festa da sballo”, si raccomandò l’ultimo a uscire, il ragazzo dai capelli blu e rossi con cui aveva dovuto lottare per spegnere la musica. John si trattenne dallo strozzarlo o dallo sbattergli la porta in faccia.)
L’aspetto dell’appartamento, una volta svuotato della moltitudine di ospiti vocianti, era desolante.
Mary andò ad aprire le finestre per disperdere l’aria guasta: un misto disgustoso di fumo e alcool e – temeva John – sostanze illegali.
John diede un calcio a una bottiglia vuota di vodka.
Il pavimento era disseminato di cocci – la vetreria da laboratorio di Sherlock? -, lattine di birra, un paio di cuscini sventrati, il teschio usato come portacenere, una lampada rotta, coste strappate ai loro volumi, una libreria ribaltata e utilizzata come bancone dei superalcolici. Messaggi osceni scritti con un rossetto ciliegia sullo specchio. “Bella tonalità di colore, pessima scelta di parole”, commentò Mary.
John non lo trovò divertente. “Tu resta qui.”
Si vedeva lontano un miglio che la prospettiva non le andasse a genio, ma lo lasciò libero di agire come meglio credeva.
Forte di quel pensiero, John si diresse verso la camera da letto di Sherlock. La trovò chiusa a chiave. Con una spallata la mandò giù.

Fottuto, machiavellico idiota. 
Sherlock era sdraiato sul letto, vestito di tutto punto. Le poltrone erano state addossate contro il muro, di fianco all’armadio.
L’idiota aveva sentito la porta sbattere. Si portò le mani alle tempie, poi le premette contro le orecchie. “Sshh”, disse con voce arrochita.
John si avvicinò, lo scrollò con forza. “Cosa diavolo hai fatto?”
Sherlock si voltò sulla schiena. Si coprì il viso, irritato. “Nel caso non lo avessi notato, ho dato una festa.”
“Difficile non accorgersene. Begli ospiti, tra parentesi. Dove li hai trovati? Nel tuo covo di drogati?”
John ebbe lo spiraglio di un occhio azzurro quando Sherlock aprì leggermente le dita che teneva ancora premute contro la faccia, nel saluto dei vulcaniani. “Sono la mia rete di senzatetto. Ogni tanto devo ricompensarli.”

Perché avere a che fare con te è un lavoro ingrato?
“Distruggendo il salotto?” ritorse John. Inspirò a fondo, si impose una calma che era ben lontano dal provare. “Spiegami perché non capisco. Avevamo un programma, avevamo preso degli accordi. Cosa è cambiato?”
Una pausa di silenzio. Sherlock ingoiò a vuoto, rimosse le mani e le incrociò sul petto, nella posizione di un morto nella bara. “Molly non verrà”, disse, alla fine, atono, osservando il soffitto con le sopracciglia aggrottate. “Avevo bisogno di non pensare.”
“E hai deciso di organizzare un free party? Bel modo maturo di reagire al rifiuto di una donna.”
Sherlock curvò le labbra in una smorfia d’insofferenza. “Non è una donna. È Molly”, puntualizzò. “E non mi ha rifiutato. Ha disdetto l’appuntamento perché doveva lavorare.”
John scosse la testa. “Nessuno lavora la notte di San Valentino.”
“Ha sostituito un collega.”
“E lei hai creduto?”
“È Molly.”

Certo che le aveva creduto.
“Ecco una notizia dell’ultima ora, Sherlock. Anche Molly ha i suoi scheletri nell’armadio e all’occorrenza è capace di mentire.” Era una sua impressione o si era adombrato? “Ecco quello che faremo. Non ti barricherai in camera tua e affronterai la questione con lei. Possibilmente di fronte a una bottiglia di buon vino e non nel salotto devastato di casa.”
John si tolse il cappotto e lo buttò sulla propria poltrona, poi si affacciò nel corridoio. Mary era in cucina e stava svuotando nell’acquaio le bottiglie di liquore. Vestita di lilla e seta, era una visione fuori contesto.   
“Mary, saresti così gentile? Caffè, bello forte. E un paio di aspirine”, pregò mentre si sfilava anche la giacca e rimaneva in maniche di camicia.
Mary non cambiò espressione. Doveva aver ascoltato la conversazione. Non che ci fosse nulla di male al riguardo. Non aveva nessun motivo che lei non lo facesse. Inoltre gli risparmiava l’impegno di spiegarle la situazione.

 

 

Tornò da Sherlock con una tazza di caffè bollente e un bicchiere d’acqua.
Lo trovò con le spalle appoggiate contro la testiera del letto. Aveva le gambe incrociate in una posizione tipicamente sua, i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate sotto il mento. Riaprì gli occhi e voltò la testa verso di lui. John gli diede la tazza di caffè. Non gli passò le pillole.
“Queste sono per me”, chiarì di fronte al suo sguardo da deduzioni in corso. Le ingoiò con un sorso d’acqua. “Hai bisogno di darti una ripulita mentre rimettiamo in ordine. Molly non merita di trovare l’appartamento in questo stato. Non oggi.”
La testa di Mary fece capolino nella stanza. “John, è arrivato Greg.”
John sospirò, si sfregò il mento. “Perfetto. Ci mancava solo questa.”
Quando le passò accanto, Mary gli strinse il braccio in un gesto d’incoraggiamento. “Lascia fare a me.”
John scambiò uno sguardo d’intesa con sua moglie – carismatica e perspicace – e poi lanciò un’occhiata al suo migliore amico – facile all’involuzione fino a uno stato di regresso puerile. “Ti affido il resto.”

 

 

*

 

 

“Una cosa non mi è chiara. Che fine ha fatto Wiggins?”
“Sherlock dice che ha messo in salvo le poltrone e se ne è andato.”
“Lasciando Mrs. Hudson a gestirlo da sola?”
Leggere il fastidio di John era sempre stato più che facile. Gli rendeva la voce greve, ruvida nel rimprovero come certe note scordate. 
“Non è un santo e neppure un demonio”, lo stava difendendo Mary. “Come hai detto, oggi è San Valentino. Probabilmente aveva un appuntamento.”
John sospirò. “Buon pro gli faccia.”
Sherlock si spostò in salotto. Calcolò i danni alle tende e ai mobili. Il divano era stato mosso di quaranta gradi verso destra e – aggrottò la fronte. “Anderson? Chi ti ha chiamato?”
“Sono stato io.”
John gli si mise al fianco, guardò i presenti con espressione autorevole. “Bene, la situazione è quella che vedete. Potete immaginare il resto. Ciò che conta è che abbiamo tre ore prima che Molly rientri. Cosa fai?”
Anderson aveva preso il cellulare dalla tasca del giubbotto. Sollevò a malapena lo sguardo. “Vista la mole di lavoro mi sembra abbastanza ovvio, no? Cerco rinforzi.”

 

 

*

 

 

I rinforzi – una decina di ragazzi e ragazze di età compresa tra i venti e i trent’anni - arrivarono un quarto d’ora dopo, scortati da una Mrs. Hudson molto provata e molto grata, che li attrezzò dell’equipaggiamento necessario. Alla fine erano tutti armati fino ai denti di sacchi della spazzatura, scope e stracci.   
John inarcò le sopracciglia, impressionato. “Amici tuoi?”
Anderson annuì. “Ma devo avvertirti. Non lo fanno gratis.”
Fu così che Sherlock si ritrovò seduto al tavolo della cucina, ad impugnare una penna stilografica e con una risma di fogli, sotto la supervisione di Mary, pronta a prendersi gioco della sua scrittura a zampe di gallina.
“Autografi”, aveva detto John, categorico. “Incomincia a firmare.”

 

 

*

 

 

Le tempistiche erano fondamentali. Per questo John avrebbe molto apprezzato che Lestrade si decidesse a tenere la bocca chiusa per due minuti. Ci sarebbe stato luogo e modo di ridere dell’intera faccenda, ma una volta che l’intera faccenda fosse stata archiviata come conclusa.
Greg, però, non demordeva. Seduto sul bracciolo del divano, non sembrava trovare pace. Chiese che gli venisse spiegata la situazione da Mrs. Hudson che, dal canto suo, dopo le prime rimostranze nell’avere tanti sconosciuti a gironzolare per il 221B, aveva reagito con tutta la diplomazia di cui era capace: offrendo tè, biscotti e chiacchiere di conforto ai “cari ragazzi” che si erano sobbarcati il disturbo.    
Alla fine del racconto, Lestrade fischiò e la pazienza di John andò a farsi benedire.
“Lestrade”, lo richiamò, perentorio.
Greg si ricompose. “È solo che…” Scosse la testa, incredulo; abbassò la voce di due toni, dopo aver lanciato uno sguardo di verifica in direzione della cucina. “Davvero aveva organizzato una cena? E Molly gli ha dato buca?”
John fece per rispondere abbastanza sgarbatamente, ma Sherlock lo prevenne, formale e grave. “Molly ha dovuto sostituire un collega.”
Ed eccolo, nella marea di disinfestatori, a sovrastare la situazione come se la supervisionasse. Certo, aveva una presenza scenica indiscutibile e l’aura altezzosa di un accademico. John sbuffò.
“Continua a ripeterlo e potrei convincermi che credi a questa fesseria. Andiamo. Che problema ha Molly? Forse temeva che facessi qualcosa di molto stupido.” Greg sollevò una mano per proteggersi dall’occhiata perforante di Sherlock. “Scusa. Di molto poco romantico.”
“Candele e musica d’orchestra”, elencò la signora Hudson per dimostrare i propositi lodevoli di Sherlock. “Si era impegnato, povero caro.”
“Mi dispiace interrompere.” Anderson si avvicinò loro, seguito dai suoi commilitoni. Si sfilò i guanti di lattice. “Noi abbiamo finito.”
“Se ti aspetti un grazie, Anderson”, cominciò Sherlock in tono annoiato.
“Non si aspetta un bel niente. Grazie.” A prendere la parola, avendo l’ardire di interrompere la lingua mordace di Sherlock, era stata una ragazza bassa, con ricci capelli scuri e occhi neri. Indossava una gonna di jeans, un cardigan verde e una maglietta viola. Nel leggere la scritta stampata (ROSES ARE RED, VIOLETS ARE BLUE, VODKA IS CHEAPER THAN A DINNER FOR TWO), John occultò una risata con un colpo di tosse.
“Ora dà loro quello per cui sono venuti: una stretta di mano e quel fottuto autografo e ci toglieremo dalle –”
“Marcy.” Anderson la interruppe con un sospiro, appiattendosi la barba sul mento.
Marcy tacque, stringendo le labbra e intanto continuando a incenerire Sherlock con lo sguardo, come se fosse l’individuo più riprovevole sulla faccia della Terra.
Sherlock non batté ciglio.

Dio, sapeva essere così esasperante quando voleva. 
John, piantato al suo fianco, si piegò per sibilargli: “Ti costerebbe davvero molto contenere quel lato di te? Mostrati un padrone di casa degno di questo nome e ringraziali come si deve. Ti hanno salvato il culo.”
Sherlock inspirò rumorosamente, le narici allargate. Fronteggiò lo sguardo della ragazza – Marcy e poi quelli del gruppetto di persone dietro di lei. Trasse un sospiro, come se dovesse armarsi di pazienza. “In quanto affittuario dell’appartamento che avete avuto modo di rendere presentabile (cenni consenzienti e teste che annuivano. Una donna si chinò per borbottare parole indistinte e un’altra disse qualcosa di pericolosamente udibile: “Un vero porcile.”), mi è stato fatto notare che sarebbe opportuno offrirvi quantomeno il bicchiere della staffa, in segno di ringraziamento per aver rinunciato alle vostre rispettive serate che, non c’era ragione di dedurlo, è semplice logica, dovevano essere altamente avvilenti per convincervi che trascorrerle a ripulire l’appartamento di un perfetto estraneo sarebbe stato un balzo di qualità. Per citare le parole di un famoso logico che molti di voi non riconosceranno: il fatto che un’opinione sia ampiamente condivisa non è affatto una prova che non sia completamente assurda. Quindi, avete visto il salotto. Se volete arrischiarvi ad accettare un drink, a vostro rischio e pericolo, ma non toccate il frigo. Sto conducendo un esperimento sulle muffe.”
Il fuggifuggi fu collettivo e istantaneo. Alla fine rimasero solo Marcy e Anderson.
John si sfregò l’attaccatura del naso, chiedendosi per quale sacrosanta ragione con Sherlock si finisse sempre a parlare di organi o muffe, in un modo o nell’altro.
“Come sono andato?” Sherlock si sistemò i risvolti della giacca e poi i polsini.
“Villano”, rispose Marcy a favore generale.
“È arrabbiata con me per un motivo particolare o cerca di sfogare la rabbia perché il suo ragazzo ha preferito venire qui piuttosto che festeggiare con lei?”
Marcy incrociò le braccia sul petto. “Phil mi aveva detto che era un geniale idiota. Ora mi accorgo che aveva ragione solo a metà.”
“E Phil sarebbe…”disse John, interrogativo.
Anderson alzò il braccio.
“Cosa?” proruppe Lestrade, sconcertato. “È questa la tua fidanzata? Me l’aspettavo…”
“Ispettore”, esplosero contemporaneamente Sherlock e la fidanzata di Anderson.
Quando se ne accorsero, si fissarono con un’identica espressione di repulsione.
John la trovò una scena esilarante.
“Diversa”, completò Lestrade in tono abbacchiato.
Marcy sembrava sul punto di fare un commento offensivo. Grazie alla vita con Sherlock, John sapeva riconoscerne l’intenzione dall’espressione.
“Un’illustratrice di libri”, affermò Sherlock, attirandosi l’attenzione di tutti.
Marcy aggrottò le sopracciglia.
“Vuole sapere come”, aggiunse Sherlock.
Lei roteò gli occhi. “È piuttosto ovvio che io voglia saperlo. Conoscendo la sua fama di sicuro avrà a che fare con i miei vestiti o con il mio odore – l’odore dei colori acrilici, forse? Ho sentito dire che ha il naso di un segugio. Oppure con le mie mani, ma sono sicura di aver lavato via la china prima di uscire, quando ho ripulito i pennelli. Quindi come? Da cosa l’ha capito?”
Sherlock aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. “Non è stata altrettanto accurata nel ripulire la tela”, ribatté e indicò Anderson. Il petto di Anderson.
Le implicazioni accesero diverse reazioni. John ebbe di che rallegrarsi nell’assenza di Mrs. Hudson, scesa nel suo appartamento per offrire un piccolo spuntino a Mary e per dare la cena a Toby.
Lestrade imprecò e così Marcy.
Anderson decise che era arrivato il momento di andare. “Sempre a disposizione”, bofonchiò, uscendo. “Magari la prossima volta, cerca di non sbandierare la mia vita sentimentale ai quattro venti, eh.”
“Sarà fatto”, promise John a nome di Sherlock. “Grazie di tutto, davvero. Buon proseguo di serata.”
“Bene e ora animo!” Sherlock si sfregò le mani. “Fuori anche tu, Lestrade.”
“Cosa?” Lestrade scosse la testa. “Non mi convinceresti ad andarmene neanche se-”
“Dirò alla Donovan del rendez vous in corso con la tua ex moglie.”
Lestrade si rabbuiò. “Non oseresti.”
“Mettimi alla prova”, disse Sherlock quietamente, gli occhi resi luminosi dal monito che contenevano.
Greg si colpì il ginocchio con un pugno, incamminandosi verso la porta. “Dannazione alla tua anima nera, Sherlock.”
“Preservo solo i miei interessi. In questo caso la mia intimità con Molly.”

 

 

Lestrade era uscito da pochi minuti e John stava ancora cercando di raccapezzarsi con quello che era successo tra quando la serata era al suo inizio e aveva ancora tutto da offrire e adesso, con la realtà definitiva di quello che l’aveva riempita. Scoppiò a ridere. “Dio.” Non riusciva a smettere. Sapeva di suonare isterico, ma non riusciva a controllarsi. Quando finalmente raggiunse una parvenza di compostezza, Sherlock lo guardava con un misto di commiserazione e moderata curiosità.
“Dio. Il tuo primo San Valentino con Molly. Il mio primo da sposato. Avresti mai immaginato una conclusione peggiore?”
E in quel momento accadde il miracolo.
Un cameriere in livrea con un vassoio d’argento comparve sulla soglia e poi un altro e un altro ancora. Una lunga trafila di personaggi bianco vestiti veleggiarono nell’appartamento, trasportando rose rosse e piatti da portata, nello sbalordimento di John e di Mrs. Hudson che salì di corsa insieme a Mary per osservare la scena.
Mary scoccò un sorriso a Sherlock. “Vecchia volpe.”
“Piano di riserva.”
John doveva avere uno sguardo allucinato. “Come?”
Sherlock fece una smorfia. “Sei anni, John e ancora ti sorprendi? Ho sempre un asso nella manica.”
I camerieri sapevano esattamente cosa fare e dove andare. John non ebbe il tempo materiale di stupirsene. Wiggins strepitò dal fondo delle scale: “Tutti i vassoi in cucina, i fiori e il resto in salotto! Ehi, tu, bello! Terzo della fila, sì! Cosa ho appena detto? I fiori in salotto! Quello ti sembra il salotto? Buonasera, Shezza.”
Wiggins osservò il salotto e sembrò catalogare i danni allo stesso modo in cui aveva fatto Sherlock.
“Shezza?” ripeté John. “Credevo fosse Mr Holmes ormai.”
“Non quando mi rompe le uova nel paniere nell’unica sera libera della mia ragazza. Non mi ringrazi per averle salvato la poltrona, Dottor Watson. Dovere. La sua poltrona è davvero comoda.” Si voltò verso Sherlock. “Il Maitre non era contento. Ha cambiato faccia quando gli ho consegnato il biglietto. Non la smetteva più di sorridere untuosamente e di raccomandarmi di portare i suoi ossequi a Mr Holmes.”
La fila di camerieri sembrava non avere fine. Cominciarono a decorare il salotto riordinato, ad apparecchiare il tavolo in cucina con funzionale efficienza.
John batté le palpebre. “Wow. Okay, sono colpito. Cosa gli hai fatto?”
“Ho evitato la chiusura del locale in seguito a un’inchiesta.”
“Notevole”, riconobbe John, “e anche abbastanza prevedibile.”
Sherlock schioccò la lingua. “Sono diventato prevedibile. Quando?”
“Più o meno la sera in cui ci siamo conosciuti. Da lì ho iniziato ad aspettarmi sempre il peggio.”
Sherlock sembrava pronto a prendere in mano la gestione di tutto e John gli lasciò le redini di comando con piacere.    

Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna.

 

 

*

 

 

Se Molly fosse stata meno stanca, avrebbe notato l’insolita assenza di rumori nell’appartamento di Mrs. Hudson – Certo era tardi, ma non così tardi. O avrebbe notato l’innaturale scia di pulito che arrivava dal piano superiore magicamente. Avrebbe notato gli accenni di musica - bassa e piacevole, una carezza nel buio. Avrebbe notato tante altre sottigliezze: l’odore inconfondibile della cera, l’intensità vaporosa e fragrante dei fiori, il silenzio astratto che precede i grandi avvenimenti, di caratteristica attesa.
Malgrado la stanchezza le avesse fatto sorvolare i dettagli di cui detto sopra, Molly non poté trascurare la verità schiacciante nel profilo slanciato di Sherlock, in piedi al centro della stanza, immerso in una cornice da fiaba surrealistica. Indossava uno dei suoi completi di alta sartoria e la camicia rosso vino, che era la sua preferita.
Molly prese atto delle candele sulla trave del caminetto – la luce creava un’aureola di riverberi dorati contro lo specchio, dava a Willy il teschio un aspetto inquietante, tipico di uno dei romanzi di Ann Radcliffe. Poi si accorse dei fiori. Rose dappertutto, ovunque: sulla scrivania sgombra delle carte che solitamente la occupavano; sul rientro della finestra, sopra i libri; sul tavolino e sul baule. In effetti l’appartamento non aveva mai avuto un aspetto migliore.    
Molly mise giù la borsa, studiò la stanza in un crescendo di meraviglia. “Cosa è successo qui dentro?”
Sherlock considerò l’ambiente che lo circondava come se fosse la prima volta che lo vedeva, come se stesse prendendo atto delle sue novità solo perché lei le aveva osservate. Alzò le spalle, liquidando l’eleganza dello scenario in un gesto di assoluta noncuranza. “Hanno insistito.”
Sherlock trovò superfluo aggiungere altro sull’argomento e Molly trovò superfluo chiedere. Scosse la testa, ancora sbalordita. “Non avresti dovuto, non era necessario.”
Sherlock corrugò la fronte. “È appropriato.”
Molly si tolse il giaccone. “Da quando in qua ti preoccupi di ciò che lo è?”
“Evidentemente da quando tu hai smesso di farlo.”
Molly captò un accenno di scontento nella sua voce.
Click, fece allora la sua mente e i comportamenti dei giorni precedenti, atipici anche per lui, il suo umore altalenante, la luna storta, tutto acquisì un senso.
“La cena”, disse, incrociando gli occhi seri di lui con i suoi stupiti. “Era per festeggiare San Valentino. Avrei dovuto capirlo.”
Sherlock fece un cenno con la testa, seccato. Sì, non era difficile. “Hai mentito?”
“Cosa?” Molly si accigliò, impiegò un istante a comprendere a cosa si riferisse. “No, ho davvero sostituito Eric e sì, è stata una cosa dell’ultimo minuto. Non è riuscito a trovare una baby-sitter per la figlia. Forse non ricordi la moglie. Una craniotomia di sei anni fa. In effetti, è naturale che tu non la ricordi, perché dovresti?”
“La ricordo”, ribatté Sherlock, prendendola alla sprovvista. Al chiarore delle candele, i suoi occhi e così il contorno del suo viso erano caricati da una gamma di ombre guizzanti, materiali. Anche la sua voce aveva una nota pericolosamente morbida. “Ricordo perfettamente ogni procedura che abbiamo svolto insieme. E ciò nonostante, Molly, avresti potuto dire di no.”
“Sì, avrei potuto. Non ho voluto”, disse Molly con fermezza. “Eric è un bravo padre e sa che in casi del genere può contare su di me perché ho orari domestici più flessibili dei suoi. Ti è sfuggito un punto, Sherlock. Io speravo che ti passasse inosservato. Contavo sulla tua dimenticanza.”
Sherlock storse il naso. “Perché? Sei una donna. Tendi al sentimentalismo come John, anche se sei più controllata di lui.”
Molly si concesse un breve sorriso, prima di tornare seria. “Di nuovo, ti sfugge il punto. È che sono stata sola, Sherlock. Negli ultimi anni e anche prima, soltanto in modo diverso.”
“Mi dispiace. Ancora non vedo il punto.”
“Ci sto arrivando. Dammi un attimo.” Molly chiuse gli occhi, cercò con cura le parole e le raggruppò ordinatamente, come tessere in un mosaico. “Sono stata sola e non è mai stato un problema. Il cancro, l’alcolismo, la dipendenza da droghe, Half the Sky, quelli sono problemi reali. La solitudine è okay. Sono sola e mi sta bene e sta bene a tutti perché al giorno d'oggi è sinonimo di emancipazione e libertà espressiva. Una volta all’anno, però, diventa una delle dieci piaghe d’Egitto, un handicap, qualcosa di insormontabile come la miseria.”
“O il degrado dell’istituzione scolastica e l’inefficienza della polizia”, intervenne Sherlock con inaspettata partecipazione. “Afferrato.”
“Il giorno di San Valentino non mi è mai pesato.” Molly si passò una mano tra i capelli, frustrata. “È il fatto che gli altri pensino che mi pesi e i loro sguardi di compatimento ad innervosirmi.”
“Tu odi San Valentino”, intuì Sherlock con calma straordinaria. Aveva tirato le fila del discorso e questo era quello che ne era venuto fuori.
“Avrei dovuto dirlo apertamente”, disse Molly, colpevole e con accento di scuse, “ma non avrei mai pensato che tu-”
“Che io me ne ricordassi”, concluse Sherlock e c’era qualcosa di amaro nel modo in cui lo aveva detto, di spiacevole e penoso, che le asserragliò lo stomaco. Rimasero in silenzio. Molly strinse le mani, pressò le labbra tra loro. Si guardò ancora una volta attorno e la grandezza di quello che Sherlock aveva fatto, che fosse stato aiutato o meno, la trapassò da parte a parte, come una spada di calore. “È colpa mia, tu non hai sbagliato nulla.”
Nessuna risposta. Molly azzardò un’occhiata. Lo trovò nella stessa identica posizione, gli occhi vacui, l’espressione raccolta. “Sherlock?”
Sherlock batté le palpebre. “Ho archiviato l’informazione in vista di prospettive future.”
“Quindi non sei… arrabbiato?”
L’idea lo lasciò perplesso. Molly indicò la stanza nella sua interezza. “Chiunque altro lo sarebbe.”
Sherlock roteò gli occhi. “Dei fiori e delle candele, per quanto aiutino a creare un’atmosfera d’effetto, non rendono minimamente l’idea del nostro rapporto, Molly.”
“Perché è strano?”
“Perché siamo individui che non rientrano in schemi predefiniti. Sciocco da parte mia dimenticarmene. Non avrei dovuto dare credito a John. Prima di Mary la sua vita sentimentale è stata una deprimente costellazione di fallimenti.”
“Non prendertela con John. Siamo noi gli eccentrici. Tu risolvi casi e io disseziono cadaveri.”
“La normalità è noiosa.”
“Così mi hanno detto.”
Nel frattempo si erano avvicinati, con lentezza studiata e progressiva, l’una all’altro. Molly aveva questo stupido, enorme sorriso che le faceva dolere i muscoli delle guance. Gli zigomi di Sherlock erano tesi in uno simile, meno sgargiante; aveva rughe d’espressione ai lati della bocca e degli occhi, un bagliore soffuso nello sguardo.

   

   

 

 

 

John li aveva lasciati fare, ma quando i minuti trascorsero inesorabilmente senza che la situazione subisse mutamenti – appoggiata al bancone della cucina, Mary sogghignava -, si era fatto sentire.
“Perfetto, vi siete chiariti. Ora potremmo cenare? Molly, se preferisci fingeremo che sia un giorno qualunque, ma se Mary non mangia qualcosa nella prossima mezz’ora, ho il fondato sospetto che il prossimo corpo sul tuo tavolo sarà il mio.”
A giudicare dalla voce non sembrava disposto ad ascoltare o tollerare ragioni.
Molly si scostò a malincuore da Sherlock. Gli sfiorò un’ultima volta i capelli. “Non ho il vestito adatto”, mormorò, a corto di altre parole. “Dovrei andare a cambiarmi.”
Lui le posò un rapido bacio sulla tempia. Molly percepì il sorriso nella sua voce, sulle labbra premute contro la sua pelle.  
“Hai te stessa.” Le offrì il braccio come un gentiluomo d’altri tempi e Molly lo accettò con un sorriso disarmante, brillante.

 

 

 

 

 

 

 

Fine

 

 

 

 

 

 

“Sherlock, puoi spiegarmi cosa ci fa una palla a specchi nel salotto?”

 

 

 



N/a :

Sono imperdonabile nel mio ritardo. Avrei dovuto pubblicare questo capitolo una settimana fa, ma non riuscivo a scriverlo. C’era sempre qualche pezzo che non collimava con gli altri – nella mente suonava logico, ma scritto? Per niente - e nella prima scrittura (la prima di quattro) suonava terribilmente pesante. Nella seconda non scorreva. Nella terza ho calcato la mano sul lato umoristico. Nella quarta ho cercato l’equilibrio. 
Scrivere spesso non dipende dalla volontà o dai desideri che si hanno in merito, ma dalle occasioni, dalle qualità di pensiero e dalle sfumature di sentimenti.
Spero che il risultato sia valso l’attesa
:)

 
Half the sky, per maggiori informazioni http://www.laeffe.tv/76,Programma.html 

  

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Ruta