15 Febbraio IL BLOG PERSONALE DEL DR. JOHN H. WATSON
San
Valentino è arrivato e – pioggia e fulmini – è già passato.
Troppo
teatrale? Volete più dettagli? Si alzi il sipario e che le puntate inizino,
prego. Tutto è cominciato il giorno in cui Voi-sapete-chi, L’Uomo delle
Calamità, esatto proprio Sherlock-Sono-Un-Tormento-Vivente-Holmes ha deciso di
organizzare una cena. E non una qualunque, badate bene.
Non fiori e
candele e vino a profusione, ma un inverosimile arrangiamento di una cena elegante
in casa Addams. Credete che enfatizzi? Povere anime innocenti.
Lasciate
ogni speranza, voi che entrate. (“John, sono d’accordo sul vendicarsi, ma
questa è un’esagerazione.”
John smise
di scrivere – martellare i tasti del laptop con brutale ferocia – per riservare
a Mary uno sguardo da invasato. “Il cibo era avariato e lui lo sapeva! Il ristorante
è stato chiuso perché non in regola con le normative igienico-sanitarie e lui
lo sapeva! E per Dio, tu sei incinta! Devo ricordarti la splendida serata di Tete-a-tete
con il bagno?”
Solenni e indigeribili
attimi di silenzio. Poi Mary sorrise, di un sorriso minaccioso e sinistro.
“Fallo a pezzi, tigre.”)
La serata
per John Watson era cominciata con un lieve formicolio ai piedi, una sensazione
di soffocamento, malefica sudorazione e una nausea capillare. Non un attacco di
panico. Dannazione, no. Per la miseria, non lo aveva avuto il giorno del suo
matrimonio. Non ne avrebbe sofferto ora.
John Watson
aveva riso di se stesso. La risata era suonata stridula,
ma ci aveva sorvolato con invidiabile aplomb.
“È normale
che io sia terrorizzato da una cena?” aveva chiesto al se stesso nello
specchio. Non aveva ottenuto altra risposta all’infuori di una smorfia
incoraggiante.
Mary volteggiava
nel suo vestito lilla con la grazia di una libellula, piena di energie. Gli
aveva raddrizzato il nodo della cravatta e gli aveva spolverato lo sparato
della giacca, le spalline. “Andrà bene, John.”
Lui aveva
scosso la testa con l’aria più sconsolata del mondo. “Una vita che me lo dicono
e ancora non è mai successo.”
Raggiungete
Baker Street. -SH
Vuoi provare a respirare in un
sacchetto?
Mary aveva avanzato
la proposta con una scintilla d’ironia assolutamente inedita.
John non
aveva fiatato. La serata doveva ancora iniziare e già un messaggio aveva annunciato
l’ennesimo, imperscrutabile cambio di rotta.
Si diceva
che i primi ad abbandonare la nave che affondava fossero i topi; ma il capitano
che affondava con la nave era un onorevole imbecille.
Tipico di
Sherlock voler smentire un modo di pensare globale. Vanaglorioso megalomane.
Il 221 di Baker
Street era nel caos. E non del tipo di caos che Sherlock ambiva a far passare
come pianificato.
Il ritmo
incalzante della musica elettronica – Techno? – creava un muro di rumore contro
i timpani; qualcuno saltava e qualcun altro rideva e urlava sconcezze.
John ebbe la
visione fugace della coda e del posteriore di Toby prima che il gatto trovasse
asilo politico nell’appartamento di Mrs. Hudson.
Mrs. Hudson
lo seguì a breve, con un portavivande ricoperto di bicchieri di carta. Di
sicuro non riempiti con gazzosa.
Quando li
vide, ringraziò il Buon Dio. “Benedetti ragazzi”, li salutò, giusto per
rimanere in lidi consacrati. “I vicini hanno già chiamato la polizia, ma quel
ragazzo testardo non si lascia convincere a-”
“Quindi Sherlock
è di sopra?” s’informò Mary, spicciola, la mano davanti alla bocca a proteggere
le parole.
Mrs. Hudson
annuì, svigorita, urlando per sovrastare il baccano che proveniva dal piano
superiore. “Non da solo!”
Se la
notizia sconcertò John non poco, Mary reagì con maggiore filosofia.
Aveva una
borsetta elegante appesa al polso, le braccia intrecciate contro la sporgenza
pronunciata dell’addome e l’espressione di un cecchino. “John, togli
quell’affare dalle mani di Mrs. Hudson prima che ruzzoli giù. ” Cominciò a
salire la rampa di scalini a due a due, a testa bassa, come un ariete che sfondi
le ultime difese nemiche.
John poggiò
il vassoio dove capitava sul pianerottolo (intimò a Mrs. Hudson: “Non si muova
di qui”) e si affrettò a seguirla.
Nell’appartamento
era in corso un rave party. O fu quello che pensò John in un impeto di
insensatezza.
Riverberi
bluastri erano creati da un’enorme palla a specchi, del modello da discoteca,
issata al centro del soffitto al posto del lampadario; le poltrone erano
scomparse, rimpiazzate da una marea di fantasmi che si agitavano come meccani
scoordinati e le cui facce entusiaste
venivano dipinte a distacchi di tempo irregolari dai riflessi indemoniati dei
giochi di luce.
“Mi vuoi prendere
per il culo.”
Mary si fece
largo a gomitate, spintonò di malagrazia qualche ragazzo strafatto mentre John,
in preda a una furia cieca, andava a staccare la spina del sintetizzatore dopo
una colluttazione col dj.
Ci fu una
momentanea sospensione di rumori e poi la ripresa del frastuono quando un boato
di voci cominciò a gridare, facendo a gara a chi ingiuriasse più forte e con
maggiore veemenza.
Mary si
portò due dita alle labbra e fischiò come in una caserma.
John riaccese
le luci. “La festa è finita”, annunciò in tono sepolcrale, contenendo a
malapena la rabbia. “La polizia sarà qui a momenti. Vi consiglio di non farvi
trovare quando arriveranno, sempre che una notte al fresco non rientri nei
vostri piani per la serata.”
Di Sherlock nessuna
traccia visibile.
Si mise di
fianco alla porta spalancata mentre la folla di sconosciuti sfilava via, in
gruppi di quattro, sei o in fila indiana, giù per le scale. (“Di’ al tipo che
l’ha organizzata che è stata una festa da sballo”, si raccomandò l’ultimo a
uscire, il ragazzo dai capelli blu e rossi con cui aveva dovuto lottare per
spegnere la musica. John si trattenne dallo strozzarlo o dallo sbattergli la
porta in faccia.)
L’aspetto
dell’appartamento, una volta svuotato della moltitudine di ospiti vocianti, era
desolante.
Mary andò ad
aprire le finestre per disperdere l’aria guasta: un misto disgustoso di fumo e
alcool e – temeva John – sostanze illegali.
John diede
un calcio a una bottiglia vuota di vodka.
Il pavimento
era disseminato di cocci – la vetreria da laboratorio di Sherlock? -, lattine
di birra, un paio di cuscini sventrati, il teschio usato come portacenere, una
lampada rotta, coste strappate ai loro volumi, una libreria ribaltata e
utilizzata come bancone dei superalcolici. Messaggi osceni scritti con un
rossetto ciliegia sullo specchio. “Bella tonalità di colore, pessima scelta di
parole”, commentò Mary.
John non lo
trovò divertente. “Tu resta qui.”
Si vedeva lontano
un miglio che la prospettiva non le andasse a genio, ma lo lasciò libero di agire
come meglio credeva.
Forte di
quel pensiero, John si diresse verso la camera da letto di Sherlock. La trovò
chiusa a chiave. Con una spallata la mandò giù.
Fottuto, machiavellico
idiota.
Sherlock era
sdraiato sul letto, vestito di tutto punto. Le poltrone erano state addossate
contro il muro, di fianco all’armadio.
L’idiota aveva
sentito la porta sbattere. Si portò le mani alle tempie, poi le premette contro
le orecchie. “Sshh”, disse con voce arrochita.
John si
avvicinò, lo scrollò con forza. “Cosa diavolo hai fatto?”
Sherlock si
voltò sulla schiena. Si coprì il viso, irritato. “Nel caso non lo avessi
notato, ho dato una festa.”
“Difficile non
accorgersene. Begli ospiti, tra parentesi. Dove li hai trovati? Nel tuo covo di
drogati?”
John ebbe lo
spiraglio di un occhio azzurro quando Sherlock aprì leggermente le dita che
teneva ancora premute contro la faccia, nel saluto dei vulcaniani. “Sono la mia
rete di senzatetto. Ogni tanto devo ricompensarli.”
Perché avere a che fare con te è
un lavoro ingrato?
“Distruggendo
il salotto?” ritorse John. Inspirò a fondo, si impose una calma che era ben
lontano dal provare. “Spiegami perché non capisco. Avevamo un programma, avevamo
preso degli accordi. Cosa è cambiato?”
Una pausa di
silenzio. Sherlock ingoiò a vuoto, rimosse le mani e le incrociò sul petto,
nella posizione di un morto nella bara. “Molly non verrà”, disse, alla fine,
atono, osservando il soffitto con le sopracciglia aggrottate. “Avevo bisogno di
non pensare.”
“E hai
deciso di organizzare un free party? Bel modo maturo di reagire al rifiuto di
una donna.”
Sherlock curvò
le labbra in una smorfia d’insofferenza. “Non è una donna. È Molly”, puntualizzò. “E non mi ha rifiutato. Ha
disdetto l’appuntamento perché doveva lavorare.”
John scosse
la testa. “Nessuno lavora la notte di San Valentino.”
“Ha
sostituito un collega.”
“E lei hai
creduto?”
“È Molly.”
Certo che le aveva creduto.
“Ecco una notizia
dell’ultima ora, Sherlock. Anche Molly ha i suoi scheletri nell’armadio e all’occorrenza
è capace di mentire.” Era una sua impressione o si era adombrato? “Ecco quello che faremo.
Non ti barricherai in camera tua e affronterai la questione con lei.
Possibilmente di fronte a una bottiglia di buon vino e non nel salotto
devastato di casa.”
John si
tolse il cappotto e lo buttò sulla propria poltrona, poi si affacciò nel
corridoio. Mary era in cucina e stava svuotando nell’acquaio le bottiglie di
liquore. Vestita di lilla e seta, era una visione fuori contesto.
“Mary,
saresti così gentile? Caffè, bello forte. E un paio di aspirine”, pregò mentre
si
Mary non
cambiò espressione. Doveva aver ascoltato la conversazione. Non che ci fosse
nulla di male al riguardo. Non aveva nessun motivo che lei non lo facesse.
Inoltre gli risparmiava l’impegno di spiegarle la situazione.
Tornò da
Sherlock con una tazza di caffè bollente e un bicchiere d’acqua.
Lo trovò con
le spalle appoggiate contro la testiera del letto. Aveva le gambe incrociate in
una posizione tipicamente sua, i gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate
sotto il mento. Riaprì gli occhi e voltò la testa verso di lui. John gli diede
la tazza di caffè. Non gli passò le pillole.
“Queste sono
per me”, chiarì di fronte al suo sguardo da deduzioni
in corso. Le ingoiò con un sorso d’acqua. “Hai bisogno di darti una
ripulita mentre rimettiamo in ordine. Molly non merita di trovare
l’appartamento in questo stato. Non oggi.”
La testa di
Mary fece capolino nella stanza. “John, è arrivato Greg.”
John
sospirò, si sfregò il mento. “Perfetto. Ci mancava solo questa.”
Quando le
passò accanto, Mary gli strinse il braccio in un gesto d’incoraggiamento. “Lascia
fare a me.”
John scambiò
uno sguardo d’intesa con sua moglie – carismatica e perspicace – e poi lanciò
un’occhiata al suo migliore amico – facile all’involuzione fino a uno stato di regresso
puerile. “Ti affido il resto.”
*
“Una cosa
non mi è chiara. Che fine ha fatto Wiggins?”
“Sherlock
dice che ha messo in salvo le poltrone e se ne è andato.”
“Lasciando
Mrs. Hudson a gestirlo da sola?”
Leggere il
fastidio di John era sempre stato più che facile. Gli rendeva la voce greve,
ruvida nel rimprovero come certe note scordate.
“Non è un
santo e neppure un demonio”, lo stava difendendo Mary. “Come hai detto, oggi è
San Valentino. Probabilmente aveva un appuntamento.”
John
sospirò. “Buon pro gli faccia.”
Sherlock si
spostò in salotto. Calcolò i danni alle tende e ai
mobili. Il divano era stato mosso di quaranta gradi verso destra e
– aggrottò la fronte. “Anderson? Chi
ti ha chiamato?”
“Sono stato
io.”
John gli si
mise al fianco, guardò i presenti con espressione autorevole. “Bene, la
situazione è quella che vedete. Potete immaginare il resto. Ciò che conta è che
abbiamo tre ore prima che Molly rientri. Cosa fai?”
Anderson
aveva preso il cellulare dalla tasca del giubbotto. Sollevò a malapena lo
sguardo. “Vista la mole di lavoro mi sembra abbastanza ovvio, no? Cerco
rinforzi.”
*
I rinforzi –
una decina di ragazzi e ragazze di età compresa tra i venti e i trent’anni - arrivarono
un quarto d’ora dopo, scortati da una Mrs. Hudson molto provata e molto grata,
che li attrezzò dell’equipaggiamento necessario. Alla fine erano tutti armati
fino ai denti di sacchi della spazzatura, scope e stracci.
John inarcò
le sopracciglia, impressionato. “Amici tuoi?”
Anderson
annuì. “Ma devo avvertirti. Non lo fanno gratis.”
Fu così che
Sherlock si ritrovò seduto al tavolo della cucina, ad impugnare una penna
stilografica e con una risma di fogli, sotto la supervisione di Mary, pronta a
prendersi gioco della sua scrittura a zampe di gallina.
“Autografi”,
aveva detto John, categorico. “Incomincia a firmare.”
*
Le
tempistiche erano fondamentali. Per questo John avrebbe molto apprezzato che
Lestrade si decidesse a tenere la bocca chiusa per due minuti. Ci sarebbe stato
luogo e modo di ridere dell’intera faccenda, ma una volta che l’intera faccenda
fosse stata archiviata come conclusa.
Greg, però, non
demordeva. Seduto sul bracciolo del divano, non sembrava trovare pace. Chiese
che gli venisse spiegata la situazione da Mrs. Hudson che, dal canto suo, dopo
le prime rimostranze nell’avere tanti sconosciuti a gironzolare per il 221B,
aveva reagito con tutta la diplomazia di cui era capace: offrendo tè, biscotti
e chiacchiere di conforto ai “cari
ragazzi” che si erano sobbarcati il disturbo.
Alla fine
del racconto, Lestrade fischiò e la pazienza di John andò a farsi benedire.
“Lestrade”,
lo richiamò, perentorio.
Greg si
ricompose. “È solo che…” Scosse la testa, incredulo; abbassò la voce di due
toni, dopo aver lanciato uno sguardo di verifica in direzione della cucina. “Davvero
aveva organizzato una cena? E Molly gli ha dato buca?”
John fece
per rispondere abbastanza sgarbatamente, ma Sherlock lo prevenne, formale e
grave. “Molly ha dovuto sostituire un collega.”
Ed eccolo,
nella marea di disinfestatori, a sovrastare la situazione come se la
supervisionasse. Certo, aveva una presenza scenica indiscutibile e l’aura
altezzosa di un accademico. John sbuffò.
“Continua a
ripeterlo e potrei convincermi che credi a questa fesseria. Andiamo. Che
problema ha Molly? Forse temeva che facessi qualcosa di molto stupido.” Greg
sollevò una mano per proteggersi dall’occhiata perforante di Sherlock. “Scusa. Di
molto poco romantico.”
“Candele e
musica d’orchestra”, elencò la signora Hudson per dimostrare i propositi lodevoli
di Sherlock. “Si era impegnato, povero caro.”
“Mi dispiace
interrompere.” Anderson si avvicinò loro, seguito dai suoi commilitoni. Si
sfilò i guanti di lattice. “Noi abbiamo finito.”
“Se ti
aspetti un grazie, Anderson”, cominciò Sherlock in tono annoiato.
“Non si aspetta
un bel niente. Grazie.” A prendere la
parola, avendo l’ardire di interrompere la lingua mordace di Sherlock, era
stata una ragazza bassa, con ricci capelli scuri e occhi neri. Indossava una gonna
di jeans, un cardigan verde e una maglietta viola. Nel leggere la scritta
stampata (ROSES ARE RED, VIOLETS ARE BLUE, VODKA IS CHEAPER THAN A DINNER FOR
TWO), John occultò una risata con un colpo di tosse.
“Ora dà loro
quello per cui sono venuti: una stretta di mano e quel fottuto autografo e ci
toglieremo dalle –”
“Marcy.”
Anderson la interruppe con un sospiro, appiattendosi la barba sul mento.
Marcy tacque,
stringendo le labbra e intanto continuando a incenerire Sherlock con lo sguardo,
come se fosse l’individuo più riprovevole sulla faccia della Terra.
Sherlock non
batté ciglio.
Dio, sapeva essere così esasperante quando voleva.
John,
piantato al suo fianco, si piegò per sibilargli: “Ti costerebbe davvero molto
contenere quel lato di te? Mostrati un padrone di casa degno di questo nome e
ringraziali come si deve. Ti hanno salvato il culo.”
Sherlock inspirò rumorosamente, le narici allargate. Fronteggiò lo sguardo della ragazza –
Marcy e poi quelli del gruppetto di persone dietro di lei. Trasse un sospiro,
come se dovesse armarsi di pazienza. “In quanto affittuario dell’appartamento
che avete avuto modo di rendere presentabile (cenni consenzienti e teste che
annuivano. Una donna si chinò per borbottare parole indistinte e un’altra disse
qualcosa di pericolosamente udibile: “Un vero porcile.”), mi è stato fatto
notare che sarebbe opportuno offrirvi quantomeno il bicchiere della staffa, in
segno di ringraziamento per aver rinunciato alle vostre rispettive serate che,
non c’era ragione di dedurlo, è semplice logica, dovevano essere altamente
avvilenti per convincervi che trascorrerle a ripulire l’appartamento di un
perfetto estraneo sarebbe stato un balzo di qualità. Per citare le parole di un
famoso logico che molti di voi non riconosceranno: il fatto che un’opinione sia
ampiamente condivisa non è affatto una prova che non sia completamente assurda.
Quindi, avete visto il salotto. Se volete arrischiarvi ad accettare un drink, a
vostro rischio e pericolo, ma non toccate il frigo. Sto conducendo un
esperimento sulle muffe.”
Il fuggifuggi
fu collettivo e istantaneo. Alla fine rimasero solo Marcy e Anderson.
John si
sfregò l’attaccatura del naso, chiedendosi per quale sacrosanta ragione con
Sherlock si finisse sempre a parlare di organi o muffe, in un modo o
nell’altro.
“Come sono
andato?” Sherlock si sistemò i risvolti della giacca e poi i polsini.
“Villano”,
rispose Marcy a favore generale.
“È
arrabbiata con me per un motivo particolare o cerca di sfogare la rabbia perché
il suo ragazzo ha preferito venire qui piuttosto che festeggiare con lei?”
Marcy
incrociò le braccia sul petto. “Phil mi aveva detto che era un geniale idiota.
Ora mi accorgo che aveva ragione solo a metà.”
“E Phil
sarebbe…”disse John, interrogativo.
Anderson
alzò il braccio.
“Cosa?”
proruppe Lestrade, sconcertato. “È questa la tua fidanzata? Me l’aspettavo…”
“Ispettore”,
esplosero contemporaneamente Sherlock e la fidanzata di Anderson.
Quando se ne
accorsero, si fissarono con un’identica espressione di repulsione.
John la
trovò una scena esilarante.
“Diversa”,
completò Lestrade in tono abbacchiato.
Marcy
sembrava sul punto di fare un commento offensivo. Grazie alla vita con
Sherlock, John sapeva riconoscerne l’intenzione dall’espressione.
“Un’illustratrice
di libri”, affermò Sherlock, attirandosi l’attenzione di tutti.
Marcy
aggrottò le sopracciglia.
“Vuole
sapere come”, aggiunse Sherlock.
Lei roteò
gli occhi. “È piuttosto ovvio che io voglia saperlo. Conoscendo la sua fama di
sicuro avrà a che fare con i miei vestiti o con il mio odore – l’odore dei
colori acrilici, forse? Ho sentito dire che ha il naso di un segugio. Oppure
con le mie mani, ma sono sicura di aver lavato via la china prima di uscire,
quando ho ripulito i pennelli. Quindi come? Da cosa l’ha capito?”
Sherlock
aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. “Non è stata
altrettanto accurata nel ripulire la tela”, ribatté e indicò Anderson. Il petto di Anderson.
Le
implicazioni accesero diverse reazioni. John ebbe di che rallegrarsi nell’assenza
di Mrs. Hudson, scesa nel suo appartamento per offrire un piccolo spuntino a
Mary e per dare la cena a Toby.
Lestrade
imprecò e così Marcy.
Anderson
decise che era arrivato il momento di andare. “Sempre a disposizione”,
bofonchiò, uscendo. “Magari la prossima volta, cerca di non sbandierare la mia
vita sentimentale ai quattro venti, eh.”
“Sarà
fatto”, promise John a nome di Sherlock. “Grazie di tutto, davvero. Buon
proseguo di serata.”
“Bene e ora animo!”
Sherlock si sfregò le mani. “Fuori anche tu, Lestrade.”
“Cosa?”
Lestrade scosse la testa. “Non mi convinceresti ad andarmene neanche se-”
“Dirò alla
Donovan del rendez vous in corso con la tua ex moglie.”
Lestrade si
rabbuiò. “Non oseresti.”
“Mettimi
alla prova”, disse Sherlock quietamente, gli occhi resi luminosi dal monito che
contenevano.
Greg si
colpì il ginocchio con un pugno, incamminandosi verso la porta. “Dannazione
alla tua anima nera, Sherlock.”
“Preservo
solo i miei interessi. In questo caso la mia intimità con Molly.”
Lestrade era
uscito da pochi minuti e John stava ancora cercando di raccapezzarsi con quello
che era successo tra quando la serata era al suo inizio e aveva ancora tutto da
offrire e adesso, con la realtà definitiva di quello che l’aveva riempita.
Scoppiò a ridere. “Dio.” Non riusciva a smettere. Sapeva di suonare isterico,
ma non riusciva a controllarsi. Quando finalmente raggiunse una parvenza di
compostezza, Sherlock lo guardava con un misto di commiserazione e moderata
curiosità.
“Dio. Il tuo
primo San Valentino con Molly. Il mio primo da sposato. Avresti mai immaginato
una conclusione peggiore?”
E in quel
momento accadde il miracolo.
Un cameriere
in livrea con un vassoio d’argento comparve sulla soglia e poi un altro e un
altro ancora. Una lunga trafila di personaggi bianco vestiti veleggiarono
nell’appartamento, trasportando rose rosse e piatti da portata, nello
sbalordimento di John e di Mrs. Hudson che salì di corsa insieme a Mary per
osservare la scena.
Mary scoccò
un sorriso a Sherlock. “Vecchia volpe.”
“Piano di
riserva.”
John doveva
avere uno sguardo allucinato. “Come?”
Sherlock
fece una smorfia. “Sei anni, John e ancora ti sorprendi? Ho sempre un asso
nella manica.”
I camerieri
sapevano esattamente cosa fare e dove andare. John non ebbe il tempo materiale
di stupirsene. Wiggins strepitò dal fondo delle scale: “Tutti i vassoi in
cucina, i fiori e il resto in salotto! Ehi, tu, bello! Terzo della fila, sì!
Cosa ho appena detto? I fiori in salotto! Quello ti sembra il salotto?
Buonasera, Shezza.”
Wiggins
osservò il salotto e sembrò catalogare i danni allo stesso modo in cui aveva
fatto Sherlock.
“Shezza?”
ripeté John. “Credevo fosse Mr Holmes ormai.”
“Non quando
mi rompe le uova nel paniere nell’unica sera libera della mia ragazza. Non mi
ringrazi per averle salvato la poltrona, Dottor Watson. Dovere. La sua poltrona
è davvero comoda.” Si voltò verso Sherlock. “Il Maitre non era contento. Ha
cambiato faccia quando gli ho consegnato il biglietto. Non la smetteva più di
sorridere untuosamente e di raccomandarmi di portare i suoi ossequi a Mr Holmes.”
La fila di
camerieri sembrava non avere fine. Cominciarono a decorare il salotto riordinato,
ad apparecchiare il tavolo in cucina con funzionale efficienza.
John batté
le palpebre. “Wow. Okay, sono colpito. Cosa gli hai fatto?”
“Ho evitato
la chiusura del locale in seguito a un’inchiesta.”
“Notevole”,
riconobbe John, “e anche abbastanza prevedibile.”
Sherlock
schioccò la lingua. “Sono diventato prevedibile. Quando?”
“Più o meno la
sera in cui ci siamo conosciuti. Da lì ho iniziato ad aspettarmi sempre il
peggio.”
Sherlock sembrava
pronto a prendere in mano la gestione di tutto e John gli lasciò le redini di
comando con piacere.
Se la montagna non va da Maometto,
Maometto va alla montagna.
*
Se Molly
fosse stata meno stanca, avrebbe notato l’insolita assenza di rumori
nell’appartamento di Mrs. Hudson – Certo era tardi, ma non così tardi. O avrebbe notato l’innaturale scia di pulito che arrivava
dal piano superiore magicamente. Avrebbe notato gli accenni di musica - bassa e
piacevole, una carezza nel buio. Avrebbe notato tante altre sottigliezze:
l’odore inconfondibile della cera, l’intensità vaporosa e fragrante dei fiori,
il silenzio astratto che precede i grandi avvenimenti, di caratteristica
attesa.
Malgrado la
stanchezza le avesse fatto sorvolare i dettagli di cui detto sopra, Molly non
poté trascurare la verità schiacciante nel profilo slanciato di Sherlock, in
piedi al centro della stanza, immerso in una cornice da fiaba surrealistica. Indossava
uno dei suoi completi di alta sartoria e la camicia rosso vino, che era la sua
preferita.
Molly prese
atto delle candele sulla trave del caminetto – la luce creava un’aureola di
riverberi dorati contro lo specchio, dava a Willy il teschio un aspetto inquietante,
tipico di uno dei romanzi di Ann Radcliffe. Poi si accorse dei fiori. Rose
dappertutto, ovunque: sulla scrivania sgombra delle carte che solitamente la
occupavano; sul rientro della finestra, sopra i libri; sul tavolino e sul
baule. In effetti l’appartamento non aveva mai avuto un aspetto migliore.
Molly mise giù
la borsa, studiò la stanza in un crescendo di meraviglia. “Cosa è successo qui
dentro?”
Sherlock considerò
l’ambiente che lo circondava come se fosse la prima volta che lo vedeva, come
se stesse prendendo atto delle sue novità solo perché lei le aveva osservate.
Alzò le spalle, liquidando l’eleganza dello scenario in un gesto di assoluta
noncuranza. “Hanno insistito.”
Sherlock trovò
superfluo aggiungere altro sull’argomento e Molly trovò superfluo chiedere. Scosse
la testa, ancora sbalordita. “Non avresti dovuto, non era necessario.”
Sherlock corrugò
la fronte. “È appropriato.”
Molly si
tolse il giaccone. “Da quando in qua ti preoccupi di ciò che lo è?”
“Evidentemente
da quando tu hai smesso di farlo.”
Molly captò
un accenno di scontento nella sua voce.
Click, fece allora
la sua mente e i comportamenti dei giorni precedenti, atipici anche per lui, il
suo umore altalenante, la luna storta, tutto acquisì un senso.
“La cena”,
disse, incrociando gli occhi seri di lui con i suoi stupiti. “Era per
festeggiare San Valentino. Avrei dovuto capirlo.”
Sherlock
fece un cenno con la testa, seccato. Sì,
non era difficile. “Hai mentito?”
“Cosa?”
Molly si accigliò, impiegò un istante a comprendere a cosa si riferisse. “No,
ho davvero sostituito Eric e sì, è stata una cosa dell’ultimo minuto. Non è
riuscito a trovare una baby-sitter per la figlia. Forse non ricordi la moglie.
Una craniotomia di sei anni fa. In effetti, è naturale che tu non la ricordi,
perché dovresti?”
“La ricordo”,
ribatté Sherlock, prendendola alla sprovvista. Al chiarore delle candele, i
suoi occhi e così il contorno del suo viso erano caricati da una gamma di ombre
guizzanti, materiali. Anche la sua voce aveva una nota pericolosamente morbida.
“Ricordo perfettamente ogni procedura che abbiamo svolto insieme. E ciò
nonostante, Molly, avresti potuto dire di no.”
“Sì, avrei
potuto. Non ho voluto”, disse Molly con fermezza. “Eric è un bravo padre e sa
che in casi del genere può contare su di me perché ho orari domestici più
flessibili dei suoi. Ti è sfuggito un punto, Sherlock. Io speravo che ti passasse inosservato. Contavo sulla tua dimenticanza.”
Sherlock
storse il naso. “Perché? Sei una donna. Tendi al sentimentalismo come John,
anche se sei più controllata di lui.”
Molly si
concesse un breve sorriso, prima di tornare seria. “Di nuovo, ti sfugge il
punto. È che sono stata sola, Sherlock. Negli ultimi anni e anche prima,
soltanto in modo diverso.”
“Mi
dispiace. Ancora non vedo il punto.”
“Ci sto
arrivando. Dammi un attimo.” Molly chiuse gli occhi, cercò con cura le parole e
le raggruppò ordinatamente, come tessere in un mosaico. “Sono stata sola e non
è mai stato un problema. Il cancro, l’alcolismo, la dipendenza da droghe, Half
the Sky, quelli sono problemi reali. La solitudine è okay. Sono sola e mi sta
bene e sta bene a tutti perché al giorno d'oggi è sinonimo di emancipazione e
libertà espressiva. Una volta all’anno, però, diventa una delle dieci piaghe
d’Egitto, un handicap, qualcosa di insormontabile come la miseria.”
“O il
degrado dell’istituzione scolastica e l’inefficienza della polizia”, intervenne
Sherlock con inaspettata partecipazione. “Afferrato.”
“Il giorno
di San Valentino non mi è mai pesato.” Molly si passò una mano tra i capelli,
frustrata. “È il fatto che gli altri pensino che mi pesi e i loro sguardi di
compatimento ad innervosirmi.”
“Tu odi San
Valentino”, intuì Sherlock con calma straordinaria. Aveva tirato le fila del
discorso e questo era quello che ne era venuto fuori.
“Avrei
dovuto dirlo apertamente”, disse Molly, colpevole e con accento di scuse, “ma
non avrei mai pensato che tu-”
“Che io me
ne ricordassi”, concluse Sherlock e c’era qualcosa di amaro nel modo in cui lo
aveva detto, di spiacevole e penoso, che le asserragliò lo stomaco. Rimasero in
silenzio. Molly strinse le mani, pressò le labbra tra loro. Si guardò ancora
una volta attorno e la grandezza di quello che Sherlock aveva fatto, che fosse
stato aiutato o meno, la trapassò da parte a parte, come una spada di calore. “È
colpa mia, tu non hai sbagliato nulla.”
Nessuna
risposta. Molly azzardò un’occhiata. Lo trovò nella stessa identica posizione,
gli occhi vacui, l’espressione raccolta. “Sherlock?”
Sherlock
batté le palpebre. “Ho archiviato l’informazione in vista di prospettive
future.”
“Quindi non
sei… arrabbiato?”
L’idea lo lasciò
perplesso. Molly indicò la stanza nella sua interezza. “Chiunque altro lo
sarebbe.”
Sherlock
roteò gli occhi. “Dei fiori e delle candele, per quanto aiutino a creare
un’atmosfera d’effetto, non rendono minimamente l’idea del nostro rapporto,
Molly.”
“Perché è
strano?”
“Perché
siamo individui che non rientrano in schemi predefiniti. Sciocco da parte mia
dimenticarmene. Non avrei dovuto dare credito a John. Prima di Mary la sua vita
sentimentale è stata una deprimente costellazione di fallimenti.”
“Non
prendertela con John. Siamo noi gli eccentrici. Tu risolvi casi e io disseziono
cadaveri.”
“La
normalità è noiosa.”
“Così mi
hanno detto.”
Nel
frattempo si erano avvicinati, con lentezza studiata e progressiva, l’una all’altro.
Molly aveva questo stupido, enorme sorriso che le faceva dolere i muscoli delle
guance. Gli zigomi di Sherlock erano tesi in uno simile, meno sgargiante; aveva
rughe d’espressione ai lati della bocca e degli occhi, un bagliore soffuso nello
sguardo.
John li aveva
lasciati fare, ma quando i minuti trascorsero inesorabilmente senza che la
situazione subisse mutamenti – appoggiata al bancone della cucina, Mary
sogghignava -, si era fatto sentire.
“Perfetto,
vi siete chiariti. Ora potremmo cenare? Molly, se preferisci fingeremo che sia
un giorno qualunque, ma se Mary non mangia qualcosa nella prossima mezz’ora, ho
il fondato sospetto che il prossimo corpo sul tuo tavolo sarà il mio.”
A giudicare dalla voce
non sembrava disposto ad ascoltare o tollerare ragioni.
Molly si scostò
a malincuore da Sherlock. Gli sfiorò un’ultima volta i capelli. “Non ho il
vestito adatto”, mormorò, a corto di altre parole. “Dovrei andare a cambiarmi.”
Lui le posò
un rapido bacio sulla tempia. Molly percepì il sorriso nella sua voce, sulle
labbra premute contro la sua pelle.
“Hai te
stessa.” Le offrì il braccio come un gentiluomo d’altri tempi e
Molly lo accettò con un sorriso disarmante, brillante.
Fine
“Sherlock,
puoi spiegarmi cosa ci fa una palla a specchi nel salotto?”
N/a :
Sono
imperdonabile nel mio ritardo. Avrei dovuto pubblicare questo capitolo una
settimana fa, ma non riuscivo a scriverlo. C’era sempre qualche pezzo che non
collimava con gli altri – nella mente suonava logico, ma scritto? Per niente -
e nella prima scrittura (la prima di quattro) suonava terribilmente pesante.
Nella seconda non scorreva. Nella terza ho calcato la mano sul lato umoristico.
Nella quarta ho cercato l’equilibrio.
Scrivere
spesso non dipende dalla volontà o dai desideri che si hanno in merito, ma
dalle occasioni, dalle qualità di pensiero e dalle sfumature di sentimenti.
Spero che il
risultato sia valso l’attesa :)
Half the
sky, per maggiori informazioni http://www.laeffe.tv/76,Programma.html