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Autore: vannagio    03/03/2014    9 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 5




Il viaggio in auto era stato uno strazio. Honey non aveva aperto bocca, perché era troppo incazzata. Zachariasz non aveva aperto bocca, perché era troppo incazzato. E così, per tutto il tragitto, nessuno dei due aveva aperto bocca, perché erano entrambi troppo incazzati.
Almeno lui aveva un buon motivo, però.
Impedirsi di picchiare a sangue quel bastardo di un capellone pervertito era stata un’impresa titanica. Che era riuscito a portare a termine solo perché beccarsi una denuncia non era una mossa intelligente con l’aria che tirava in quel periodo. Così, quando Honey era uscita da quella specie di sgabuzzino, si era limitato ad afferrarla per un braccio e a trascinarla fuori dal negozio di tatuaggi fin dentro alla sua auto. Non prima, però, di aver ringhiato al pervertito un “Se ti becco di nuovo con MIA figlia, ti ammazzo”. Va bene essere prudenti, ma non era mica fatto di plastica. E quel bastardo si era imboscato con SUA figlia dietro a una tenda. Serrò le dita intorno al volante. Il solo pensiero gli faceva venire voglia di inserire il freno a mano, sterzare e tornare indietro, per suonargliele di santa ragione.
Maledetto figlio di puttana!
Giunti davanti al vialetto di casa, Honey non gli diede il tempo di spegnere il motore, aprì la portiera e sfrecciò dentro casa nemmeno avesse il diavolo alle calcagna. Zachariasz non si preoccupò di posteggiare per bene (per quanto gliene fotteva in quel momento potevano ridurgliela a un cubetto di metallo, l’auto) e le corse dietro.
«Cosa sta succedendo?», chiese Isa, vedendoseli schizzare davanti uno dopo l’altro.
Non le rispose. Salì le scale tre gradini alla volta. La porta della stanza di sua figlia era già chiusa. A chiave. Bussò. Anche se era più corretto dire che cercò di farsi strada a spallate.
«Ragazzina, apri immediatamente questa porta. Dobbiamo fare quattro chiacchiere, tu ed io».
«Non ho niente da dirti!», urlò Honey.
Isa arrivò tutta trafelata.
«Qualcuno vuole spiegarmi, per favore?».
«Il ragazzo con cui è uscita l’altra sera? Non è un ragazzo. È un trentenne. E quando sono entrato in quel maledetto negozio di tatuaggi, perché il bastardo fa il tatuatore (come se non fosse abbastanza, maledizione!), stava cercando di metterle le mani addosso».
Isa sgranò gli occhi, attonita.
La porta si aprì. Honey apparve sulla soglia. I capelli gonfi di rabbia. I pugni puntellati sui fianchi. Gli occhi che lampeggiavano.
«Veramente sono stata io a mettergli le mani addosso per prima».
«Questo perché ti ha plagiato. Scommetto che è stato lui a convincerti a mentirci, l’altra sera».
«Sbagliato di nuovo. È stata una mia idea. Perché sapevo che avresti reagito così. Ho diciannove anni, papà! Ho scoperto da un pezzo che i bambini non li porta la cicogna, non puoi più trattarmi come una bambina!».
«Ti tratterò da bambina fin quando TU ti comporterai da bambina! Scordati di uscire, scordati la band, scordati la tua moto».
«E come ci vado a scuola?».
«Ti ci accompagno io. E ti vengo a riprendere, anche. E dopo scuola vieni in palestra con me, così ti tengo d’occhio».
«Per fortuna non puoi costringermi a rivolgerti la parola!».
Gli chiuse la porta in faccia.
Quando Zachariasz si voltò, si ritrovò a tu per tu con l’espressione eloquente di Isa.
«Non dirlo», disse lui, scendendo rapidamente le scale.
«E invece lo dico, perché non è così che si affrontano i problemi», replicò Isa, seguendolo attraverso il soggiorno. «Murarla in casa non è la soluzione. In questo modo si impunterà e basta. Non ti ricordi com’eri alla sua età?».
Stai a vedere che adesso il cattivo sono io.
«Certo che me lo ricordo. E mi ricordo anche com’ero a trent’anni. Per questo motivo preferisco prevenire che curare».
«Finirà per fare qualche sciocchezza, Zachariasz. Proprio come ho fatto io, tanti anni fa, per stare con te».
«Non è la stessa cosa, perché io ci tenevo veramente a te. Non ero un uomo di trent’anni che voleva farsi passare il prurito alla palle scopandosi una ragazzina».
Isa lo trattenne per una spalla, lo fece voltare e gli prese il viso tra le mani, guardandolo dritto negli occhi.
«Capisco che tu sia preoccupato, lo sono anche io, ma…».
Zachariasz si ritrasse da lei e scosse la testa.
«No, Isa. L'altro giorno gliel'ho fatta passare liscia perché mi hai convinto che si trattava di un caso isolato, che in fondo era colpa nostra che non dimostravamo di fidarci abbastanza, che dovevano cominciare a vedere Honey come un'adulta. Be', guarda dove ci ha portati, la tua fiducia!».
Isa puntellò i pugni sui fianchi. La somiglianza con Honey, in quel frangente, fu un pugno allo stomaco per Zachariasz.
«Ah, quindi sarebbe colpa mia, adesso?».
«Non ho detto questo».
«Sì che l’hai detto, invece. Sai, cosa? Vado a prenderti qualche cuscino e il piumone. Non vorrei ti venisse il mal di schiena sul divano, stanotte».
Cazzo, cazzo, cazzo!



Porca puttana, ti ho innaffiato regolarmente proprio come ha detto Martìnez, si può sapere cosa c’è che non va in te? Non sarai un tantino viziatella, forse?
La piccola edera se ne stava mogia mogia dentro al suo vasetto, al centro della scrivania di Benedetta, e ovviamente non rispondeva. Di sicuro aveva visto giorni migliori, nella sua breve vita di piantina. Le foglie erano tutte raggrinzite e in punta avevano cominciato ad appassire. Sembrava che qualcuno si fosse divertito ad accartocciarle nel pugno una per volta.
Lo avevo detto, io, che non ci so fare con le cose vive. Adesso questa disgraziata creperà ed io dovrò fare i conti con i sensi di colpa. Come se qui al Goldfinger non avessi già grane a sufficienza a cui pensare.
Un toc toc leggero interruppe le sue elucubrazioni.
«Entra, Marie Louise».
«Come facevi a sapere che ero io?».
Benedetta fece spallucce.
«Ho tirato a indovinare».
Non era vero. Non aveva un talento speciale solo per far morire le cose. Benedetta sapeva anche riconoscere le persone dal rumore dei loro passi o dal modo in cui bussavano alla porta. E quella era una capacità molto utile, soprattutto se dall’altro lato della porta c’era un tizio con una pistola e tante cattive intenzioni. Il bussare di Marie Louise era sempre delicato ma deciso. Abbastanza forte da essere percepito fin dal primo colpetto, ma allo stesso tempo abbastanza leggero da non causare infarti o capriole con avvitamenti sulla sedia per lo spavento.
«Cercavo il Cardinale», disse lei, sedendosi davanti alla scrivania. «Nel suo ufficio non c’è, speravo di trovarlo qua».
«È via per un impegno d’affari. Sarà qui a momenti». Benedetta assottigliò lo sguardo. «Avevi bisogno di qualcosa? Ci sono stati altri problemi?».
Marie Louise scosse la testa.
«No, niente del genere. In realtà, forse puoi rispondermi tu. È da un po’ che non vedo Honey al Goldfinger. Di là ci sono i ragazzi della band che stanno provando e quella di stasera sarà la loro terza esibizione senza di lei. So che non sono affari miei, ma volevo soltanto sapere se sta bene. Dopo quello che mi è successo nel vicolo… insomma, con quello che si sente in giro, non c'è da stare tranquilli e mi sono preoccupata».
Erano trascorse quasi due settimane, la slogatura alla caviglia era guarita nel giro di tre giorni, l’occhio nero e i lividi avevano richiesto più tempo per sparire del tutto ma alla fine anche loro erano scomparsi, del taglio sulla guancia non c’era più traccia, eppure il pestaggio aveva lasciato ancora qualche segno su Marie Louise.
«Sta bene. Suo padre le impedisce di uscire di casa, per via di quel tipo che frequentava. Li ha scoperti ed è successo un casino. Meno male che Honey ha tenuto la bocca chiusa. Se le fosse sfuggito che ero a conoscenza di tutta la faccenda… cazzo, non voglio proprio pensarci. Meno ho a che fare con Zachariasz, meglio è».
«Accidenti, mi spiace. Non deve essere una bella situazione».
«Già».
Tacquero per un po’, ognuna persa nei suoi pensieri. Poi lo sguardo di Marie Louise si posò sulla piccola edera e si fece perplesso.
«Che è successo a questa povera piantina?».
«Non ne ho idea. La innaffio regolarmente come mi è stato detto, ma si ammoscia ogni giorno di più».
Marie Louise si sporse in avanti sopra alla scrivania e sollevò il vasetto, che cominciò a sgocciolare come una spugna imbevuta.
«Chi ti ha detto regolarmente intendeva una volta al giorno, non ogni ora».
«Questo spiega molte cose, in effetti».
«Devi subito metterla in un altro vaso, con della terra asciutta. Fai passare ventiquattro ore e poi riprendi ad innaffiarla. Ma solo una volta al giorno, mi raccomando. Il terriccio deve mantenersi umido, non annacquato. E non sarebbe male se mettessi il vaso vicino alla finestra, così le foglioline prenderebbero un po’ di sole».
Benedetta sospirò e si passò le mani tra i capelli.
«Senti, ho un’idea migliore. Prendila tu».
«Come? Perché?».
«Non sono in grado di occuparmene. È piuttosto evidente, mi pare. E poi mi è stata regalata da un tizio che…».
«Se è un regalo, allora non puoi darla via. Non sta bene».
«Sì, però…».
«…il tizio non ti piace?».
«Non ne sono sicura».
«Ma la piantina sì, giusto?».
Benedetta fissò l'edera. Bella, senza fronzoli.
«Sembra fatta a posta per me».
Marie Louise sorrise, intenerita.
«Allora dovresti tenerla e basta».
Come il suo bussare, anche i consigli di Marie Louise erano delicati ma decisi. Abbastanza mirati da farti capire che aveva intuito più del necessario, ma allo stesso tempo abbastanza discreti da non farti sentire un’idiota.



Marie Louise fissava la porta sul retro, tenendola a distanza. Quasi temesse che potesse spalancarsi da sola e risucchiarla fuori. È solo una porta, pensò, rigirandosi una sigaretta tra le dita. Una porta sul retro che si affaccia su un vicolo. Un vicolo nel quale era stata picchiata. Tra tutte le cose che le erano capitate negli ultimi anni, di certo quella non era la peggiore, eppure eccola lì, sera dopo sera, a fissare la stramaledetta porta sul retro, incapace di allungare la mano e afferrare la maniglia. Le dava fastidio avere paura, quel vicolo era stato suo per tanto tempo, un angolino in cui stare da sola per il tempo di una sigaretta, una piccola coccola che si concedeva tra un cliente e l’altro. E adesso le avevano portato via anche quello. Rivolse un’occhiata nostalgica alla sigaretta che teneva tra indice e medio. Nemmeno il tabacco aveva più lo stesso sapore.
«Marie Louise!». Sussultò e la sigaretta cadde per terra. Si piegò sulle ginocchia per raccoglierla, ma nonostante il bastone e la gamba zoppa il Cardinale fu più veloce. «Mi spiace, non volevo spaventarti», disse poi lui, porgendogliela.
«Non ti preoccupare, ero solo sovrappensiero».
Il Cardinale lanciò un’occhiata alla porta sul retro e aggrottò la fronte.
«Cattivi pensieri?».
«Più o meno. Stavo decidendo se concedermi o meno una pausa sigaretta».
Ciò che aveva sempre apprezzato del Cardinale, oltre al buon gusto nel vestire e al fatto che trattava le sue prostitute come dipendenti e non come schiave, era che capiva sempre quando non insistere. Difatti, nemmeno quella volta la deluse. Si limitò a tirare fuori dalla tasca interna del cappotto bordato di zibellino un sigaro e uno zippo.
«Be’, mentre tu decidi, ti spiace se mi porto avanti?».
Marie Louise rise.
«Cardinale, questo posto è tuo. Puoi fare quello che vuoi!».
«Hai ragione», convenne lui. Spalancò la porta sul retro, scese il gradino e si voltò. «Ti va di farmi compagnia? Un sigaro così non si può fumare in solitudine».
La sagoma massiccia del Cardinale si stagliava contro il vicolo, che sembrava un grosso buco nero pronto a inghiottirla. Marie Louise si strinse la pochette di perline al petto e avanzò a passo incerto. Quando poggiò il primo piede sul gradino, ebbe l’impressione di trovarsi su una zattera traballante. Si sedette subito, per non rischiare di cadere, senza smettere di guardarsi intorno. Nel frattempo il Cardinale si stava accendendo il sigaro, con la mano davanti allo zippo per proteggere la fiamma dalla brezza notturna.
«Benedetta ha detto che mi stavi cercando», disse, mettendo via l’accendino.
«Cosa? Ah, sì. Volevo chiederti notizie di Honey, ma Benedetta mi ha spiegato cosa le è successo. Sono un po’ preoccupata».
«Perché? Dovrebbe essere al sicuro, adesso».
«Perché mi ricorda un po’ me, quando avevo la sua età».
Il Cardinale si tolse il sigaro dalla bocca e sbuffò fumo come una locomotiva.
«E com’eri alla sua età?».
«Testarda. Impulsiva. E un po’ ingenua. Una volta, avevo diciassette anni, volevo andare a tutti i costi al concerto della mia band preferita. Mio padre però non mi diede il permesso. Così mi accordai col mio ragazzo. Sarei sgattaiolata via dalla finestra della mia stanza, mentre i miei guardavano la tv al piano di sotto».
«Com'è finita?».
«Ho fatto un volo di due metri e mi sono rotta una gamba».
La punta bruciacchiata del sigaro si staccò, sgretolandosi in una polvere sottile che si disperse in una folata di vento prima ancora di toccare terra.
«Mi stai chiedendo di far ragionare Zachariasz, quindi».
Maria Luise annuì.
«Ho parlato con Honey, è molto presa da questo ragazzo. Sono sicura che se suo padre continuerà a non farla uscire, proverà a scappare. Pensa a quello che c’è per strada, ultimamente. Una gamba rotta è il meno che può capitarle».
Per un po’ il Cardinale fissò in silenzio il cielo stellato, mentre Marie Louise giocherellava distrattamente con la sigaretta.
«Non hai ancora deciso se fumarla o meno?».
«È che dovrei togliermi il vizio. Di solito venivo qui per fumare da sola, come se dovessi nascondermi. Il piacere non è lo stesso se c’è qualcuno che mi guarda. Penso sia una specie di gusto ancestrale per il proibito».
«Vuoi che vada via, allora?».
Marie Louise lanciò un’occhiata nervosa al vicolo.
«No, se rientri, rientro anche io».
Altra pausa. Altre nuvole di fumo che salivano su. L’odore del sigaro era intenso, le faceva pizzicare la gola e le sarebbe rimasto addosso, sui vestiti. Come una specie di marchio. Ai clienti non sarebbe piaciuto. Ma Marie Louise decise che non le importava. Per una volta se ne sarebbe fregata di quello che ai clienti piaceva o non piaceva.
«Sai, in realtà anch’io dovrei smettere», disse il Cardinale improvvisamente. «Il mio medico dice che ho i polmoni ridotti a un grumo di catrame. Se Benedetta mi vede fumare, mi ammazza». Tirò fuori l’accendino e glielo accese di fronte. «Il tuo silenzio in cambio del mio?».
Sorridere fu automatico. Per accettare l’accordo, invece, le bastò infilare la sigaretta tra le labbra e farsela accendere con lo zippo.



«Mamma, non ce la faccio più. Tu devi fare qualcosa».
«Sto già facendo tutto il possibile. Il problema è che siete peggio di due muli cocciuti. Se non vi parlate, non è che io possa fare i miracoli!».
Honey sbuffò e si mise a giochicchiare con dei rametti secchi, abbandonati sul piano di lavoro. Sua madre trascorreva tutto il tempo libero che aveva a disposizione (Che con te e tuo padre che mi ronzate continuamente intorno non è mai abbastanza) nella piccola serra che lo zio Carlisle aveva fatto costruire in giardino come regalo di nozze.
«Che stai facendo?».
Sul ripiano da lavoro, sua madre aveva allineato dieci vasetti. In ciascuno di essi aveva piantato un rametto spoglio e nodoso. E adesso li stava spuntando ad uno ad uno con un paio di forbici da giardinaggio.
«A settembre avevo fatto degli innesti a gemma dormiente sulle rose canine. Vedi? Questo è l’innesto». Indicò una specie di cicatrice a forma di T su uno dei rametti, dal quale fuoriusciva una piccolissima gemma verde». Con una sforbiciata eliminò la parte superiore del ramo. «La porzione che sta sopra all’innesto va eliminata».
«Mamma, parla come mangi, non so nemmeno cosa sia un innesto».
Sua madre scosse la testa, mentre zac zac un altro rametto veniva spuntato.
«L’innesto è una tecnica che permette di dare vita a una nuova pianta, attraverso l’unione delle parti di due piante diverse. Di solito si sceglie una pianta dalle radici robuste per il portinnesto, come la rosa canina. Fai un taglietto sulla corteccia». Prese uno dei rametti che aveva tagliato via e con un coltellino fece un’incisione a T sulla corteccia. «Ecco, qui va applicata la gemma dell’altra pianta. Se l’innesto è fatto bene, il risultato sarà una pianta completamente nuova».
Honey storse il naso. Si chinò sul ripiano da lavoro, in modo da studiare più da vicino uno dei vasi.
«In sostanza, non ti piace la pianta che hai, così la costringi ad accettare un corpo estraneo alla sua natura, qualcosa che non tiene conto delle sue caratteristiche, per ottenere una pianta che soddisfa le tue aspettative. Sai, penso che a papà piacerebbe usare l’innesto su di me. Potrebbe incidere la mia scatola cranica, metterci dentro un pezzo di cervello di qualcun altro e vedere cosa succede. Forse in questo modo potrei diventare la figlia modello che desidera».
Lo scappellotto sulla nuca arrivò all’improvviso e fece un male cane.
«Ahia, mamma!».
«Lo vedi che non hai capito niente? I corpi estranei non c’entrano niente. L’innesto è… prendere il meglio delle due piante e sperare che da quelle due parti cresca qualcosa di nuovo, che sia simile alle due piante originarie, ma al tempo stesso che possa distinguersi e sviluppare una sua individualità. Il punto è che non puoi prevedere come diventerà, alla fine è sempre la pianta a decidere, tu puoi solo cercare di indirizzarla».
Honey inarcò un sopracciglio.
«Scusa, ma io cosa ho detto?».
Sua madre sospirò e tornò a concentrarsi sui rametti.
«Un giorno forse capirai».



«Che figata, fate la grigliata domenicale come Dominic Toretto e la sua banda! Scommetto che anche voi prima di cominciare a mangiare, vi riunite intorno alla tavola con le bottiglie di birra in mano e rendete grazie al Signore per la famiglia che vi ha donato».
JD rise, lanciando un’occhiata al gruppetto di persone poco più in là. Big D si occupava del barbecue. Tiffany apparecchiava la tavola. Patti stava alle calcagna di sua madre con il cestino del pane, come un pulcino che segue mamma oca in lungo e largo. Gregory e Nathan, gli ex-coinquilini di Big D, ci provavano a turno (ma a volte anche contemporaneamente) con Darla.
«Qualcosa del genere».
«Mi spiace non poter essere lì con voi».
«Ci saranno tante altre grigliate, Honey».
Gli sembrava di essere tornato adolescente, quando usciva con la figlia del preside e dovevano vedersi di nascosto perché non era esattamente il ragazzo di buona famiglia che i genitori di lei si aspettavano. Accidenti, in effetti era esattamente la stessa identica situazione. JD si tirò i capelli indietro e sospirò.
«Come va con tuo padre?».
«Parliamo lo stretto indispensabile».
«Così non va, dovete chiarirvi. Forse se ci parlassi io…».
La sola idea gli faceva venire la pelle d’oca, ma ci sono momenti in cui un uomo è costretto a fare una scelta: tirare fuori le palle o continuare a comportarsi da codardo. E lui ne aveva le palle gonfie di quella situazione. Cazzo, non aveva più quindici anni. E nemmeno Honey.
«JD, per caso hai voglia di morire? Mio padre come ti vede ti ammazza. Non ci provare nemmeno ad avvicinarti a lui».
«Meglio morire nel tentativo, piuttosto che sentirci per due minuti se e quando riesci a fregargli il cellulare dalla tasca».
Dall’altro capo del telefono calò il silenzio.
«Ehi, guarda che stavo scherzando».
«No, invece hai ragione. Prima o poi ti stancherai di aspettare che i genitori diano il permesso alla bambina di uscire. Incontrerai una donna vera e mi manderai a ‘fanculo».
«Honey, senti, già tuo padre mi crede un porco interessato solo a scoparti, per favore, non ti ci mettere anche tu. Altrimenti mi spieghi che cazzo di senso ha tutto questo?».
«Non ti arrabbiare…».
«Non sono arrabbiato, ma questa situazione è da risolvere, non può andare avanti per sempre».
«La fai facile, tu. Non hai idea di quanto sia dura la testa di mio padre».
«Ce l’ho, invece, perché conosco te. Adesso, però, scusa, ma devo andare. La grigliata è pronta».
«JD, aspetta…».
«A presto, Honey».
Cacciò il cellullare in tasca e quando sollevò lo sguardo, si ritrovò con gli occhi azzurri di Tiffany addosso. L’espressione sul suo viso era seria.
«Conosco un sacco di brave ragazze, JD. Ex colleghe, ragazze adulte, con tanta esperienza. Se sei interessato, non devi far altro che chiedere».
«Io!». Gregory stava sventolando la mano in aria. «Io sono interessatissimo!».



Come e dove ti vedi tra dieci anni? Adesso è facilissimo rispondere: murata viva in casa di mio padre, zitella e vergine.
Honey sbuffò e chiuse con stizza la cartelletta delle domande di ammissione al college che ormai si portava dietro ovunque, ficcata nella tracolla in mezzo ai libri di scuola. Se mai l’ispirazione l’avesse colta nel momento meno opportuno, lei sarebbe stata pronta, penna alla mano, e non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di rispondere all’odiatissimo quesito numero dieci.
Lanciò un’occhiata di sbieco all’orologio e sbuffò di nuovo. Mancava un quarto d’ora alle ventuno e alla chiusura della palestra. Passava tutti i pomeriggi lì, adesso. Sua madre dopo pranzo faceva volontariato all’ospedale, suo padre andava in palestra e a casa non c’era nessuno disponibile a fare da babysitter alla mocciosa. Perciò, suo padre, dopo averla prelevata da scuola, la posteggiava alla reception. Se non doveva studiare o compilare le domande di ammissione, le ordinava di occuparsi degli abbonamenti, di incassare le quote mensili degli iscritti e di stampare le schede di allenamento.
Come se tutto ciò non fosse abbastanza, era anche in ansia per JD.
Non si erano più sentiti, dopo l’ultima conversazione al telefono. E quel discorso rimasto in sospeso la spaventava. Aveva bisogno di chiarire con lui, immediatamente. Più facile a dirsi che a farsi, purtroppo. Anche uscendo di nascosto da casa, mentre i suoi genitori dormivano, come avrebbe fatto a raggiungere l’appartamento di JD a Williamsburg? Lei viveva in una zona residenziale di Midwood, non poteva farsi dieci chilometri a piedi nel cuore della notte. E passate le undici di sera, c’era solo un pullman ogni ora. La sua moto era in garage, le chiavi nascoste chissà dove. Era letteralmente fottuta. No, non letteralmente. Magari lo fosse stata letteralmente!
La porta si aprì, lasciando entrare due tizi. Uno alto e magro, l’altro basso e massiccio. Honey serrò le labbra. Ci mancavano solo gli scocciatori dell’ultimo minuto.
«Scusate, ma stiamo per chiudere».
«Non siamo qui per allenarci. Volevamo parlare con Zachariasz. Dov’è?», disse quello alto.
Che cazzo hai da sogghignare, stronzo?
In realtà non è che stesse sogghignando per davvero, ma aveva un modo di parlare bizzarro, come se fosse sempre sul punto di scoppiare a ridere e riuscisse a stento a trattenere le risate. In ogni caso non le ispirava molta fiducia. Né lui, né il suo amico basso e silenzioso.
«Stanlio, Ollio. Vi ho pensato giusto qualche settimana fa!».
Suo padre era entrato nella reception, subito seguito dal suo dipendente Kip.
«Anche tu ci hai dato molti pensieri in questo ultimo periodo. Soprattutto al nostro capo».
Zachariasz si rivolse a Kip.
«Tu puoi andare».
Kip non sembrava convinto, ma come Honey sapeva fin troppo bene che gli ordini di Zachariasz non andavano messi in discussione. Soprattutto quando ti guardava come ora stava guardando Kip. Che perciò si limitò ad annuire.
«Accompagna Honey a casa, per piacere», aggiunse suo padre. «Mi raccomando, a casa».



«Certo che è proprio uno schianto, tua figlia», disse Stanlio, col sorriso sulle labbra. «Chissà quanti problemi ti dà con i ragazzi! Se mi imbattessi in lei in un locale, non esiterei un’istante a rimorchiarla. A quella una bottarella non gliela leva nessuno, direi proprio così. Vero, Ollio?».
Ollio non rispose. Passeggiava per la palestra con sguardo distrattamente interessato, mentre contemplava ad uno ad uno gli attrezzi per la pesistica. Si fermò davanti a un sacco da boxe, lo fissò per qualche istante, poi prese a girargli intorno, come un pugile esperto che studia l’avversario. Infine mandò a segno una rapida sequenza di pugni, che fece dondolare il sacco avanti e indietro, avanti e indietro. Come un pendolo. Erano passati vent’anni, ma seguivano ancora lo stesso copione.
Zachariasz incrociò le braccia al petto.
«Stanlio, con me questi trucchetti non funzionano. Facevo anch’io parte della squadra di persuasione, ricordi? A proposito, che fine hanno fatto gli altri? Siete rimasti solo in due?».
Il sorrisetto di Stanlio lo aveva sempre mandato in bestia. Non si capiva mai se il suo fosse un vero sorriso o se si trattasse semplicemente dell’espressione di default della sua faccia. Gli ultimi ricordi che Zachariasz aveva di Stanlio erano l’accendino acceso in una mano e le ombre sinistre che le fiamme dell’incendio proiettavano intorno al fottuto sorrisetto.
«Della vecchia squadra sì. Ma in compenso c’è tanta gente nuova e volenterosa. Hanno mandato noi da te perché eravamo amici. Anche se adesso te ne vergogni, a quanto vedo. Il dolcevita non ti dona, ti preferivo con le fasce rosse in bella vista. Ti ricordi come si spaventava la gente, quando le vedeva?».
«La gente che sa si spaventa ancora quando le vede».
«Per questo le nascondi? Per non spaventare la gente? Eppure prima ti piaceva».
«A cosa devo questa visita?», tagliò corto Zachariasz.
Il sorrisetto si accentuò sugli angoli della bocca di Stanlio. Ecco, forse adesso stava sorridendo per davvero.
«Il nostro nuovo capo ha saputo che uno sbirro sta ficcando il naso nel tuo passato e nei nostri affari. Ed è preoccupato che tu possa spifferare qualcosa. Accidentalmente, ovvio, nessuno pensa che tu sia un infame. Però i poliziotti sono dei fottuti bastardi, riescono a spillare informazioni anche ai più taciturni. Ollio lo sa bene, dico bene?».
I tonfi sordi dei pugni di Ollio contro il sacco furono l’unica risposta che ottenne.
«Povero, Ollio. Ti ricordi, vero, perché non ha più tanta voglia di parlare? Era così chiacchierone, un tempo. Poi si è lasciato scappare qualcosa con un sbirro. Il capo non l’ha presa tanto bene, a lui le spie non piacciono molto… Da quel giorno Ollio la bocca non l’ha aperta più».
Zachariasz ne aveva abbastanza di tutte quelle stronzate.
«Avevamo fatto un accordo, con il capo di allora. E non ho intenzione di mandarlo a puttane. Se spifferassi qualcosa, ci andrei di mezzo anch’io. Non sono così stupido».
«Be’, ma la polizia tende a essere clemente con i pentiti. E tu hai un sacco di cui pentirti, no? Com’è che si chiamava quel tizio che è bruciato vivo nell’incendio? Jones o Smith? Mi confondo sempre».
«Smith».
«Smith, giusto. Poveretto, chi poteva immaginare che fosse ancora dentro al suo negozio? A quell’ora di notte, poi. Secondo me ci portava le puttane. Sua moglie era un cesso».
Zachariasz serrò i pugni.
«Tu lo sapevi che era lì. Mi hai detto di spargere la benzina e nel frattempo Smith era dentro, imbavagliato e legato a una sedia come un salame».
Ollio smise di tirare pugni e con gesti lenti e calmi sguainò un coltellaccio a serramanico.
«Lo vedi?», disse Stanlio. «Poi ti stupisci se siamo preoccupati. Tu ci riservi ancora del rancore. E il rancore è pericoloso».
Ollio infilzò il coltellaccio nel sacco, sventrandolo come se fosse un maiale. Il taglio vomitò sabbia sul pavimento. Stanlio annuì compiaciuto.
«Però è più pericoloso per te, che per noi. Per te e per quella sventola di figlia che ti ritrovi».



«E tu cosa hai fatto?».
«Secondo te? Li ho ringraziati e poi li ho accompagnati alla porta».
Carlisle sgranò gli occhi.
«Sei proprio invecchiato, Zachariasz. Una volta li avresti ammazzati di botte entrambi senza pesarci due volte».
«Non credere che non mi sarebbe piaciuto o che non ci abbia fatto un pensierino, ma sarebbe stata una mossa stupida, che sarebbe servita solo a mettere in pericolo Honey e Isa. Senza contare che erano due contro uno. E che si trattava di due parecchio tosti».
Ecco, aveva nominato Honey, era l’occasione giusta per introdurre l’argomento. Carlisle si accese un sigaro, con finta nonchalance.
«Uhm, a proposito di Honey, cosa hai intenzione di fare con lei?».
Zachariasz aggrottò la fronte.
«Che intendi?».
Carlisle fece spallucce ed espirò una boccata di fumo.
«Non puoi tenerla segretata in casa a vita. Non credi che…».
«Non cominciare pure tu, okay? Pensavo fossi dalla mia parte. A parte il fatto che quel porco ha dieci anni più di lei ed è tatuato dalla testa ai piedi… si guadagna da vivere facendo il tatuatore, che cazzo di avvenire potrebbe garantirle?».
«Be’, innanzitutto, Honey se lo deve creare da sola il suo avvenire. E poi quello del tatuatore è sempre un lavoro onesto, no? Non è un criminale. Devo ricordarti cosa facevi tu, invece, quando hai conosciuto Isa? Credi che io non preferissi un partito migliore per mia sorella? Qualcuno che non avesse a che fare col mio ambiente, magari? Cazzo, Zachariasz. Non dico di prendere la cosa alla leggera, ma almeno vedi di capire che tipo è, prima. Che so… parlaci, conoscilo. Se vuoi dico a Thresh di chiedere in giro. Così l’unico risultato che ottieni è spingere Honey a fare qualche cazzata. E in questo periodo nessuno di noi può permettersi cazzate».
Come sempre, quando gli rinfacciava il suo passato, gli occhi di Zachariasz si trasformavano in due pozzi neri senza fondo.
«Perché non vedi di parlare col capo dei Polacchi, invece? E risolvere questa merda di situazione?».
«L’ho fatto, testa di cazzo! Pensi che passi il tempo a grattarmi le palle, per caso? Ma quello mi ha riso in faccia. Sì, mi ha offerto cibo squisito, un sigaro cubano, perfino una puttana. Però alla fine mi ha riso in faccia. Dice che non sa che farsene dei miei soldi, che lui presto sarà in grado di farne molti di più, che un altro al suo posto si sarebbe offeso per la mia offerta e che quindi sono molto fortunato. Non c’è bisogno che ti spieghi che non è un buon segno, vero?».
«E tu che hai fatto?».
Carlisle abbozzò un sorriso.
«Secondo te? Quello aveva un esercito dentro al suo ufficio. L’ho ringraziato e mi sono fatto accompagnare alla porta».
Zachariasz scosse la testa, turbato.
«Anche tu sei invecchiato».



Sua madre bussò alla porta. Honey sapeva che si trattava di lei, perché suo padre non si faceva vedere in camera sua dalla sera che erano tornati insieme dal negozio di tatuaggi. Questa situazione è da risolvere, non può andare avanti per sempre, aveva detto JD. Già, ma di chi era la colpa, se erano arrivati a quel punto? Non di Honey, sicuramente. Sua madre nel frattempo era entrata, col cordless in mano.
«È Connor. Vuole parlare con te».
Ci mancava solo quel cazzone.
«Però io non voglio parlare con lui».
Sua madre coprì la cornetta con la mano.
«Sembra molto dispiaciuto. Dagli una chance».
Honey roteò gli occhi, ma allungò la mano verso sua madre, tenendo lo sguardo fisso sulla parete di fronte. Rispose al telefono solo quando sua madre si fu chiusa la porta alle spalle.
«Che cosa vuoi? Parla in fretta, ho da fare».
«Immagino, rigirarsi i pollici è un’attività che tiene molto impegnati».
Honey si guardò intorno. Era sdraiata sul letto senza aver tolto gli anfibi, circondata da domande di ammissione al college incomplete, cartine di cioccolatini e fogli di carta accartocciati. Miss Kitty Fantastica la fissava perplessa dalla scrivania.
«Se mi hai chiamato per prendermi per il culo, possiamo anche finirla qui».
«No, aspetta! In realtà volevo chiederti scusa».
«Ah, davvero? Ma come, non avevi fatto la spia per il mio bene? E non avevi detto che ero solo un’egoista del cazzo?».
Connor, dall’altro capo del telefono, sospirò.
«Senti, tu non sei una santa, okay? Ce l’hai anche tu, la tua parte di colpa».
«Certo che sei proprio bravo a chiedere scusa, eh?».
«E fammi finire, no? Tu hai la tua parte di colpa, ma io mi sono comportato da stronzo. Non dovevo fare la spia con tuo padre. Non è così che ci si comporta tra amici».
Honey si mise in bocca un altro cioccolatino...
«Perciò dimmi a che ora vanno a dormire i tuoi, così ti faccio uscire da lì».
…e per poco non si strozzò. Quando ebbe finito di tossire e sputacchiare cioccolato mezzo sciolto sul copriletto, riuscì a farfugliare solo un «Cosa?».
«Hai capito bene. Ti porto dal tuo tatuatore, ma solo a patto che mi assolvi da tutti i miei peccati e che quando finisce la prigionia torni nella band. Non hai idea di quante me ne hanno dette Ben e Jonathan!».
Honey sbatté le palpebre in silenzio. Miss Kitty Fantastica sembrava volerle dire “Di’ qualcosa, cogliona!”.
«Honey, ci sei ancora?».
«Sì, sì. Connor, io… non so che dire».
«Devi solo dire “Ti perdono, Connor”».
Honey si morse il labbro. Col cuore che batteva a mille. Avrebbe rivisto JD, avrebbe potuto parlare con lui, chiarirsi.
«Ti perdono, Connor».
«Bravissima! E adesso, avanti, a che ora vanno a dormire i tuoi?».



Alle undici e mezza in punto, la finestra della camera di Honey si aprì. Connor, che si era nascosto dietro a una fila di alberi in fondo al vialetto, si avvicinò con aria circospetta al porticato. Nel frattempo un paio di gambe fasciate da jeans neri aderentissimi che terminavano in un paio di anfibi consumati scavalcavano il davanzale. Honey camminava rasente alla parete, dosando ogni passo per non fare scricchiolare le assi del tetto e non rischiare di cadere. Giunta al limite del porticato, usò lo steccato delle piante rampicanti di sua madre a mo’ di scala per scendere. A poco meno di un metro dal suolo, si lasciò cadere.
«Sembra che tu l’abbia fatto mille volte», disse Connor.
«Be’, è così. L’ho fatto ogni sera in queste due settimane, ma solo nella mia immaginazione», rispose Honey, spolverandosi le maniche del chiodo di pelle. «Sono a posto?».
Sotto al chiodo, invece del corpetto, questa volta aveva indossato una canotta bianca e larga, di quelle che portava durante le prove o per andare a scuola. Il bianco traspariva e si intravedeva il reggiseno nero. Maledetto stronzo di un tatuatore!
Connor le tolse una foglia dai capelli.
«Sei perfetta. Andiamo, dai».
La prese per mano e insieme percorsero rapidamente il vialetto. L’auto di Connor, però, non era vuota come forse Honey si era aspettata.
«Che cazzo ci fanno loro qui?».
Connor si strinse nelle spalle e sorrise.
«Hanno insistito per accompagnarmi».
«Ehi!», protestò Jonathan seduto davanti, dal lato del passeggero. «Ti sembra questo il modo di ringraziare gli amici?».
Il viso di Ben fece capolino da dietro, tra i due sedili.
«Sei una stronza ingrata».
Honey sembrava sul punto di commuoversi.
«Non metterti a piangere, adesso, okay?», disse Connor. «Le ragazze che piangono mi mettono ansia».
«Non sto piangendo, mi è entrato qualcosa nell’occhio».



Mezzanotte meno un quarto. In tv non facevano un cazzo, la tequila era finita e non aveva sonno. Al Coyote Club c’erano troppi casini in quel periodo, farci un salto sarebbe servito soltanto a farsi il sangue più amaro di quanto non fosse già. E ormai Big D era un padre di famiglia. Forse poteva chiamare Darla. No, probabilmente aveva rimorchiato qualcuno, non voleva romperle le palle. L’unica era portarsi avanti con la bozza del tatuaggio commemorativo commissionatogli da Al, un biker dei Coyote.
Aveva già tirato fuori l’album da disegno dalla borsa, quando qualcuno suonò il campanello. JD aggrottò la fronte. Chi cazzo poteva essere a quell’ora? Prese Gina (ormai la situazione era tanto critica, per le strade, che se la portava dietro ovunque) e guardò attraverso lo spioncino.
Cazzo!
«Uh, che accoglienza!», disse Honey, sorridendo, dopo che JD ebbe spalancato la porta. «Gina mi fa sentire davvero la benvenuta».
«Ti prego, dimmi che hai chiarito con tuo padre e che la tua presenza qui è assolutamente legittima. Stasera non sono in vena di giocare a Romeo e Giulietta».
Quando il sorriso che Honey si era impressa in faccia si afflosciò su se stesso come un soufflé mal riuscito, JD si rese conto di essere stato troppo brusco. Merda, non guardarmi in quel modo! Come da copione, lei si stava massaggiando il polso destro, il che significava solo una cosa: non aveva chiarito con suo padre e la sua presenza lì non era legittima. Ciò servì ad attenuare i suoi sensi di colpa.
Con Gina sotto braccio, JD prese le chiavi della macchina, che teneva appese alla parete accanto alla porta, e il giubbotto dall’attaccapanni.
«Andiamo, ti riaccompagno a casa».
«Cosa? Perché?».
«Lo sai benissimo perché, se i tuoi scoprono che non sei nel tuo letto, finisce a carneficina. Si può sapere che diavolo avevi in testa? Non hai pensato alle conseguenze?».
Honey smise di massaggiarsi il polso, raddrizzò la schiena e serrò entrambi i pugni.
«Certo che quando vuoi sai essere proprio stronzo, JD. Lo so da me che rischio molto, ma non sono venuta qui per capriccio, volevo solo chiarirmi con te. In ogni caso, non c’è bisogno che mi riaccompagni, basta che mi fai usare il telefono. Anzi…». Honey lo spinse di lato e si diresse a passo di marcia verso il telefono. «Chiamo subito i miei amici, così vengono a prendermi e tolgo il disturbo».
Stava già componendo il numero, ma JD le sottrasse la cornetta e riagganciò.
«Hai ragione, scusa. Sono uno stronzo».
Honey si imbronciò, a braccia conserte.
«E un coglione».
«E un coglione».
Si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altra. Honey prese a sfogliare distrattamente l’album da disegno di JD. Voltava una pagina, la rivoltava, la rivoltava di nuovo, ci faceva scorrere lo sguardo sopra. Poi passava alla prossima.
«Ti porti il lavoro a casa?».
«Non riuscivo a dormire».
«Quando da bambina non avevo sonno, mia madre mi preparava sempre una cioccolata calda. Era miracolosa per l’insonnia».
JD non commentò, sapeva che stava solo prendendo tempo per riorganizzare le idee. Si impose di non metterle fretta. Altre pagine dell’album erano state voltate a ritroso, nel frattempo. Il fremere della carta sotto le dita riempì il silenzio che era calato tra di loro, fin quando la bocca di Honey non si spalancò in una o di meraviglia.
«Che c’è?». Girò l’album verso di lui, senza dire niente. Era arrivata al foglietto ingiallito sul quale anni prima era stato disegnato un pavone dal piumaggio blu e verde. JD capì subito cosa Honey gli stava chiedendo con lo sguardo. «Sì, è il pavone di Juno».
Lei si riprese l’album e studiò il disegno più da vicino.
«È un capolavoro, JD. Sei un vero artista».
«Grazie».
JD scrutava intensamente Honey, cercando di decifrarne i pensieri dall’espressione del suo viso. Sembrava sincera, su di lei leggeva solo ammirazione e stupore. Non vi era traccia di gelosia o invidia o preoccupazione. Con molte delle ragazze con cui era stato, in quegli anni, non aveva funzionato perché erano entrate in competizione col ricordo di Juno. Honey invece no, o almeno non lo dava a vedere. Doveva essere molto sicura di se stessa. Oppure fingeva molto bene. Quando però lo sguardo di lei scese in fondo alla pagina, e il genuino stupore sul suo viso si accentuò, JD fu costretto a ricredersi. Non era l’eccessiva sicurezza a farla reagire in quel modo. E sicuramente non stava fingendo.
«Questo è lo schizzo del mio tatuaggio, quello che ti ho fatto vedere quando sono venuta a farmi tatuare! Pensavo di averlo perso. Perché l’hai messo qui? È uno sgorbio, andrebbe incenerito».
«L’ho messo lì perché ha un bel significato. Lo sai, no? I tatuaggi con un bel significato sono pane per i miei denti. E poi… è importante per me».
I suoi occhi sgranati confermarono l’intuizione di JD. Honey si era semplicemente tirata fuori dalla competizione prima ancora di cominciare a giocare.
«Importante?».
JD la prese per mano.
«Tu non sei un capriccio per me, Honey. Era questo che cercavo di farti capire, l’altro giorno al telefono. Altrimenti perché credi che me la sia presa tanto? Capisco la situazione, capisco te e capisco le preoccupazioni di tuo padre, ma se tu non vuoi parlargli e non permetti nemmeno a me di farlo… Be’, allora non vedo molte soluzioni. E non ti dico questo per metterti fretta, puoi metterci tutto il tempo che vuoi, basta che mi assicuri che hai intenzione di farlo. Voglio fare le cose per bene con te, perché penso che ne valga la pena. Proprio come penso che il tuo tatuaggio sia all’altezza di quello di Juno. Quindi, per favore, dimostrami che per te è lo stesso».
Honey aprì la bocca, ma la richiuse senza dire alcunché. Deglutì a vuoto. Poi si frugò nelle tasche del chiodo e ne tirò fuori un mazzo di chiavi. Il mazzo di chiavi della sua auto. Che razza di stronzetta! Come cazzo aveva fatto a sfilarglielo di mano senza che lui se ne accorgesse?
JD le lanciò un’occhiata interrogativa e lei si morse il labbro.
«Te l’ho detto. Ero venuta solo per chiarire. Adesso abbiamo chiarito, puoi riaccompagnami a casa. Domani parlerò con mio padre, te lo prometto. Così avrai la conferma che per me è lo stesso».
JD afferrò il mazzo di chiavi, se lo rigirò tra le mani. Poi, dopo aver guardato l’orologio, se lo mise in tasca.
«Stavo pensando che è ancora presto, in fondo. E che vorrei provare il rimedio miracoloso contro l’insonnia di tua madre. Ti va una cioccolata?».



«Sembra che l’amido scaduto stia facendo il suo dovere».
«Tu ringrazia che l’abbiamo trovato. Non sapevo nemmeno di averlo. Forse risale a quella volta che Tiffany ha insistito per festeggiare il mio compleanno e ha improvvisato un dolce alla crema di latte».
L’aroma del cioccolato era avvolgente come un abbraccio. Honey, davanti al fornello, mescolava il composto con attenzione maniacale, come se ne andasse della sua stessa vita. A causa dei vapori caldi, i suoi capelli erano gonfiati fino ad assumere la consistenza e la voluminosità dello zucchero filato. Chissà se avevano anche lo stesso profumo, dello zucchero filato.
Intanto, la cioccolata aveva cominciato a fare blob blob dentro la pentola ed era diventata densa. Honey smise di mescolarla e ne prese un po’ col mestolo. Prima di assaggiarla, si chinò leggermente in avanti, dischiuse le labbra e ci soffiò sopra. A occhi chiusi. Come in attesa di un bacio.
«Credo sia pronta», sentenziò spegnendo il fornello. «Vuoi assaggiarla anche tu? Magari la preferisci più zuccherata».
JD fece spallucce.
«Non ne ho idea».
«Apri la bocca, allora. Ma fa attenzione, che scotta».
Prese un’altra cucchiaiata di cioccolata col mestolo e la avvicinò alla bocca di JD. Prima di imboccarlo, soffiò di nuovo per raffreddarla. JD venne investito da una folata di aroma al cacao, non riuscì a capire se veniva da lei o dalla cioccolata.
«Devi assaggiarla, per capirlo».
«Come?».
Honey si morse il labbro. Lo champagne scoppiettava nei suoi occhi.
«Per capire quanto zucchero ci vuoi. Devi assaggiarla».
JD, non mandare a puttane il bellissimo discorso di prima per un po’ di cioccolata.
Fosse la cioccolata il mio problema…

Le sottrasse il mestolo e lo buttò nel lavandino senza degnarlo di uno sguardo. Poi prese il viso di Honey tra le mani. Lei aveva già chiuso gli occhi e dischiuso le labbra, proprio come prima, quando aveva soffiato sulla cioccolata. Ma invece di baciarla sulla bocca, come lei si aspettava, JD posò un bacio sui suoi capelli. Odoravano di cacao amaro. Molto meglio dello zucchero filato.
«JD…».
La strinse tra le braccia, indeciso e combattuto. Doveva chiederle se era sicura? Se aveva paura come la volta scorsa? Snocciolare qualche frase a effetto per rassicurarla? Prima però qualcuno avrebbe dovuto rassicurare lui.
«JD?», lo chiamò di nuovo.
Abbassò lo sguardo su di lei.
E nei suoi occhi trovò le rassicurazioni che stava cercando.
La prese per mano e la condusse in camera da letto. Si distesero sopra le coperte, senza nemmeno togliersi le scarpe. JD le accarezzò la guancia. Ma la carezza scivolò subito giù, lungo il collo e sulla clavicola, trascinando via con sé la spallina della canotta e del reggiseno. La pelle di Honey era liscia e immacolata come un foglio di carta, JD non finiva mai di stupirsene. Le sue dita divennero matite e disegnarono sul foglio bianco i rami dei rovi che un giorno sarebbero cresciuti dal polso e si sarebbero arrampicati fin lì, appena sopra l’attaccatura del seno, dove ora lui aveva poggiato la mano.
Il cuore di Honey vibrava come le ali di una farfalla, sotto il suo palmo. JD si ritrovò a pensare che, in quel frangente, Honey stessa era come una farfalla. Una farfalla sul palmo della sua mano. E a lui sarebbe bastato stringere le dita per farle del male. Quella consapevolezza lo fece tremare di paura, quasi quanto tremava lei.
«Se faccio qualcosa che non ti piace, me lo devi dire».
Lei annuì, con gli occhi colmi di spuma.
«Honey, se hai…».
«No».
Non doveva insistere, quei discorsi la spaventavano e basta. Ed era inutile girarci intorno. Così, si chinò su di lei e la baciò. Honey rispose immediatamente, aggrappandosi alle sue spalle.



La testa di Honey era un pallone gonfio di aria. Stava succedendo tutto troppo in fretta o troppo lentamente. O entrambe le cose. Un attimo prima erano in cucina, un attimo dopo sul letto. Poi i minuti erano colati via goccia a goccia, per un secolo intero, prima che la mano di JD lasciasse la sua guancia e si chiudesse sul suo seno. Subito dopo, qualcuno aveva di nuovo premuto il pulsante accelera, perché gran parte dei vestiti erano finiti sul pavimento senza che lei se ne rendesse conto. E adesso il tempo si era fermato un’altra volta.
Sopra di lei, i tatuaggi di JD erano vivi.
Lo sguardo giallo dei due lupi l’aveva ipnotizzata. A contatto col fiato incandescente del drago, la sua pelle si era liquefatta come cera bollente e colava sulle lenzuola. Il suo cuore stava soffocando, stritolato dalle spire del serpente. Le vele del veliero si gonfiavano a ogni sospiro.
«Per piacere, JD, potresti coprirti un po’?».
«Cosa c’è che non va, Honey?».
La bocca del teschio si arricciò in un ghigno furbo.
«Niente. Solo… Meglio se ti copri».
«Senti, non sono una bestia, se non ti piaccio, smettiamo subito».
«No! Credo che…». Il drago soffiò faville rosse sul suo viso. Il sangue si infiammò come benzina. «Credo che il problema sia opposto…».
Lo vide trattenere a stento una risata. Si allungò sopra di lei, accese la lampada sul comodino e spense la luce centrale.
«Così va meglio?».
I tatuaggi la scrutavano ancora, ma i colori si erano attenuati.
«Sì, ehm, grazie».
JD la baciò lentamente, per un po’ i tatuaggi scomparvero. Poi lui tornò a fare quella cosa meravigliosa con le dita, che lei sapeva avere un nome ben preciso, ma che in quel momento riusciva solo a definire come Cosa Meravigliosa Con Le Dita.
Ah, lo aveva detto, lei, che le mani di JD erano pericolose!
La stava accarezzando come tatuava, con attenzione e precisione, e proprio come se fosse stata appena tatuata, la sua pelle era arrossata, gonfia di eccitazione e ipersensibile. Con gli occhi dell’artista, JD ripercorreva le carezze che aveva tatuato sul suo corpo, aggiungendo e correggendo dove necessario.
Honey lo afferrò per i capelli, che gli ricadevano davanti alla faccia lunghi e dritti. Aveva voglia di baciarlo e di sentire l’odore di inchiostro. JD si distese su di lei, reggendosi sul gomito per non pesarle addosso, e i suoi capelli la abbracciarono come un nido d’inchiostro. Le sue dita, intanto, continuavano a tenerla sulla corda.
E corda era la parola giusta.
Percepiva una specie di nodo caldo, all’altezza del bassoventre. Un nodo fatto di nervi, che le dita di JD allentavano e stringevano a proprio piacimento come fili. Ogni volta che erano sul punto di sbrogliarlo, stringevano di nuovo e il nodo tornava opprimente e fastidioso, lasciando Honey insoddisfatta. In modo piacevole, però.
E poi fu una reazione a catena.
I lupi ulularono, il serpente sibilò, la chiglia del veliero infranse le onde, il teschio sghignazzò, il drago ruggì fiamme rosse e il nodo si sciolse all’improvviso, letteralmente. I suoi nervi si erano liquefatti, l’onda incandescente che ne derivò la travolse in pieno e la ustionò come un colpo di frusta lungo la schiena. Per il contraccolpo, Honey si inarcò contro JD. Che cominciò a entrare in lei, con spinte lente ma profonde. Una fitta la colse impreparata, Honey gemette e si aggrappò spaventata alle spalle di JD. Lui la strinse nel suo abbraccio, per rassicurarla. Forse funzionò, oppure l’orgasmo che le annebbiava la mente funzionava come un anestetico, perché le fitte si affievolirono quasi subito. Honey si rilassò contro il materasso e le spinte di JD si fecero più serrate. I suoi capelli dondolavano avanti e indietro, avanti e indietro, solleticandole il viso. JD non smetteva di guardarla e lei sostenne il suo sguardo. All’improvviso lo vide irrigidirsi, come colpito da una scarica di corrente elettrica. I muscoli del suo corpo si contrassero tutti nello stesso momento e i tatuaggi divennero bassorilievi scolpiti sulla sua pelle.
Infine si accasciò accanto a Honey, esausto.



«Come stai?», le chiese.
«Una favola».
JD aveva ancora il fiato corto. Honey era sdraiata sul fianco, col braccio incuneato sotto la testa, e lo fissava con lo sguardo critico dello studioso che sta assistendo a un fenomeno bizzarro e inspiegabile. Non gli piaceva tutta quella distanza tra di loro.
«Tuo padre mi ammazzerà».
«Cos’è? Hai paura di lui?».
«Ho paura sì, cazzo!».
Honey ridacchiò. JD ne approfittò per stringersela addosso e lei lo avvolse come una coperta. Odorava ancora di cacao amaro. Gli venne voglia di cioccolata, si ricordò che in cucina ce n’era una pentola intera. Peccato che alzarsi dal letto fosse un’opzione impraticabile. Accarezzò la schiena di Honey lungo la colonna vertebrale, pizzicando le vertebre come se fossero le corde di una chitarra. La sentì rabbrividire e sorrise.
«Hai una pelle bellissima», disse sovrappensiero.
«Sai, JD. Di solito la gente normale dice che ho delle belle tette».
Scattò a sedere come un bambolotto a molla.
«La gente, chi?».
Honey rise di nuovo.
«Sono sicura che una volta chiarito tutto andrai molto d’accordo con mio padre».







_____________







Note autore:
Pubblicare questo capitolo mi rende parecchio nervosa, c’è tanta carne sul fuoco, speriamo che non si sia bruciacchiata troppo!
Nello scorso capitolo ho dimenticato di dire che Miss Kitty Fantastica è il nome della gatta di Willow e Tara del telefilm Buffy. La povera micetta pare faccia una brutta fine per colpa di Dawn, perciò le ho voluto fare un piccolo omaggio.
Gregory e Nathan, gli ex-coinquilini di Big D, sono personaggi di Dragana e se volete saperne di più sul loro conto, vi consiglio (se ancora non lo avete fatto) di leggere Pornoromantico. Non ve ne pentirete!
Be’, adesso mi ritiro nel mio angolino ad ansieggiare per il capitolo.
Grazie a tutti, come sempre.
A lunedì!
   
 
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