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Autore: Lauretta Koizumi Reid    07/03/2014    7 recensioni
Giocano nel Prato. La bimba con i capelli scuri e gli occhi azzurri sta ballando. Il maschietto con i riccioli biondi e gli occhi grigi si sforza di starle dietro sulle gambe paffute che muovono i primi passi. Sono adorabili. Sono innocenti e divertenti. Ma non sono miei.
La loro mamma, una donna alta e paffuta, arriva prontamente e li prende per mano, lei a destra, lui a sinistra. E per la prima volta, da anni, vedo un’immagine che ho sempre oscurato e soffocato.
Ma ora lo so: voglio essere io quella donna.
Il viaggio di Katniss alla scoperta dell’avventura che ha sempre negato: la maternità.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutte! Questo capitolo si è fatto attendere, ma non temete! Il gran momento è arrivato...ehehehehe. E’ lungo, ma perché la nascita è lunga, care mie! Quanto ho adorato scrivere questo capitolo, e che fatica...spero vi emozioni come ha emozionato me. E se l’ha fatto, un vostro pensiero/commento mi farebbe molto piacere. Grazie a tutti!

 

 

 

Haymitch mi viene incontro per strada, con le gambe larghe, dondolandosi, sporgendo in fuori il ventre gonfio per l’ascite e tenendo le mani premute contro la parte bassa della schiena.

- Sei un idiota, Haymitch, io non cammino così! - dico soffocando una risata.

- No, infatti! Se potessi riprenderti con una videocamera, saresti molto peggio - ribatte lui, riprendendo a camminare normalmente.

Con delicatezza, ora che ha capito che può farlo senza ricevere una sberla in testa da una tipa come me, passa la mano sulla pancia.

- Sembra bella grossa, questa belva! - afferma.

Io mi protendo a guardarla. Si, probabile che non sia una bimba molto piccola. Ormai la pancia sporge così tanto che faccio fatica a mettermi scarpe coi lacci, e preferisco infilare i miei piedi leggermente rigonfi dentro un paio di stivali o di scarpette leggere. Cerco di non rendermi ridicola camminando, ma ormai i giorni alla sua nascita sono contati. Dieci, o forse poco più. Haymitch mi saluta con un “sei molto bella, dolcezza”, al quale rispondo forse un po’ troppo frettolosamente, ma la gente non fa che ripeterlo. Forse hanno ragione: tutto in me ora sembra più morbido, più gentile. I capelli, le braccia, il petto, la pancia. Anche Annie era così. Sembrava una fata, un essere divino e strano che volteggiava con grazia e tristezza. Faccio una passeggiata nei boschi, stando attenta a non farmi male o a cadere, perché Peeta darebbe di matto se sapesse che sono qui, con “tutti i rischi che ci sono”. Non vedo l’ora che la piccola nasca, così la smette di avere atteggiamenti da chioccia isterica che io non ho.

D’improvviso sento un dolore alla parte bassa del ventre, E’ fastidioso. Molto. Dura un po’, poi passa. Poi ricomincia.

Torno al mio alloggio, è meglio.

 

- Sono a casa! Katniss?

- Sono qui!

Peeta mi trova semiseduta sul divano a sonnecchiare e a guardare la tv. Lui non lo sa, ma sono un bel po’ di ore che sto qui. Stanotte non ho dormito bene, quindi ne approfitto. Ma certi atteggiamenti pigri non mi si addicono, per questo mi guarda con aria interrogativa.

- Mi fa un po’ male la pancia, sai?

- Oh. Oddio, tu pensi che....

Scuoto la testa.

- No... ho letto che qualche giorno prima della nascita possono presentarsi i cosiddetti “prodromi di travaglio”, sono dei mal di pancia fastidiosi, che però non sono vere....contrazioni.

- Sei sicura? Vogliamo andare all’ospedale?

- No! La bambina si muove, perciò è tutto ok!

Peeta annuisce.

- Io devo andare a comprare qualcosa, posso lasciarti qui?

Lo guardo con una faccia abbastanza esplicativa, pertanto lui ride, stampa due baci, uno sulla mia testa,  uno sulla pancia e corre fuori.

I doloretti fastidiosi non passano, sono forti, ma sopportabili. Se ben ricordo, le poche donne che a casa mia vedevo con le contrazioni del travaglio, erano tutte ben condite di urla, respiri affannosi, bestemmie e delizie del genere. La bambina punta i piedi nella pancia e cerco di spostarli con la mano, col risultato che calcia ancora di più. E va bene, penso, come vuoi tu....

Mi risveglio col collo dolorante e con una gran bella nausea. Peeta è fuori da un’oretta circa, ma io mi sento peggio di prima. Tasto la pancia ed è più dura. La bambina non si muove. Dormirà anche lei? Non lo so, ma non mi piace. Cerco di andare in bagno, ma la sola vista del poco sangue che macchia i miei slip mi getta nel panico. E quando mi rialzo dal water, non è pipì quella che scende sulle mie gambe. E’ un fiotto leggero e rosato di liquido. Non si ferma. Continua a scendere.

Cavolo, cavolo, cavolo.

Mi infilo le prime cose che trovo, e corro. Non me ne importa nulla di me, ma se la piccola continua a non muoversi, penso che urlerò così tanto che mi sentiranno fino al Distretto 11. Ospedale, ospedale , penso, correndo con il cappotto agganciato storto e la borsa che sbatte malamente contro il mio fianco. I dolori ci sono ancora, ritmici e sgradevoli, ma non me ne potrebbe fregare di meno. Busso alla porta del pronto soccorso ostetrico.

Una giovane donna, in bianco e rosa, mi apre.

- La mia bambina non si muove più - biascico d’un fiato.

Il suo sguardo è preoccupato ma risoluto. Mi mette a sedere su una poltrona, prende un macchinario con due dischetti. Non mi chiede chi sono, penso lo sappia tutta Panem che la Ghiandaia Imitatrice aspetta una bimba che nascerà a giorni. Fissa un dischetto alla mia pancia con una fascia, e immediatamente un galoppo di cavalli comincia a riempire la stanza. Il sollievo nei miei e nei suoi occhi è evidente. E’ viva. Meno male. Sono così felice che mi dimentico di dirle che sto perdendo liquido, ma lei se ne accorge dai miei pantaloni bagnati.

- Katniss, ora che sappiamo che la piccola sta bene, tu come stai?

- Io sto bene, - dico, - posso chiamare Peeta? Non sa che sono qui.

Mi porge un telefono.

- Pronto?

- Peeta, sono io.

- Katniss! Sto tornando a casa. Serve qualcosa?

- Ehm....poggia pure la spesa a casa, ma poi vieni in ospedale, sono lì.

Il telefono tace. E’ ovvio che non passerà affatto a posare la spesa a casa. Stupido. Farà andare a male un sacco di roba.

- Katniss, tu hai rotto le acque. Potrei visitarti, per favore?

Non ho molta scelta, direi. E poi mi fa piacere che qualcuno mi spieghi perché c’è del sangue. Mentre muove le due dita dentro la mia intimità per capire cosa succede, gemo di dolore. Che male, accidenti. Mi sollevo dal lettino dove mi hanno poggiata a gambe divaricate, senza più i miei vestiti, ma con una camicia da notte semplice e bianca. Ho ancora addosso l’affare che sente il battito della bambina.

La giovane ostetrica, Aua, mi guarda con intensità e con sguardo stupito.

- Katniss, permetti, da quanto tempo senti male alla pancia?

- Mmmmh..... - mugugno - da circa....boh, dal primo pomeriggio, perché?

- Ed è sempre stato uguale?

- Ora va un po’ peggio. Ma lo sopporto bene. Non è così tremendo.

- Katniss, mia cara... tu sei a quasi otto centimetri di dilatazione.

- E vuol dire?

- Che in capo a massimo due ore, anche meno,  dovrebbe nascere. Il massimo dei centimetri da raggiungere per far nascere la bambina è dieci, e tu ti sei fatta tutto il travaglio a casa! Complimenti!

Cosa? Oh mio Dio. Non ero pronta a una risposta del genere. Pensavo che fosse tutto molto peggiore. E invece ho sopportato tutte le doglie a casa senza dire una parola. Aiuto.

Peeta entra come una furia, spettinato e accaldato.

- Katniss!

- Vedi di stare calmo, mi servi in piedi. - dico alzandomi dal lettino con agilità, cosa che provoca nell’ostetrica un'altra occhiata incredula.

- Ho posato la spesa e sono corso qui. Che succede?

- Be’ ecco....quei dolori che sentivo a casa erano le vere contrazioni del travaglio e ora...insomma, tipo... qualche oretta e dovrebbe nascere. Contento? - dico sorridendo.

Peeta impallidisce di colpo. Gli arrivano subito due schiaffetti sulla faccia.

- Non svenire o ti ammazzo! Ahia..... - bofonchio piegandomi in due, perché questa era più forte. Subito Peeta riprende colore e cerca di tirarmi su. Respiro affannosamente. lo sapevo che venire qui non era una buona idea, penso, anche se so che è stata un’ottima idea, visto che a casa ero nel panico più totale...ma venendo in ospedale questi dolori sono peggiorati da morire. La donna in divisa mi spiega che è normale che ora siano più forti, insomma, il travaglio deve essere doloroso, e poi mi insegna come respirare per bene durante la contrazione.  Sebbene all’inizio non le dia ascolto, mi rendo poi conto che ha ragione.

Dentro l’aria col naso, fuori l’aria con la bocca.

Vado così bene che nella stanza restiamo solo io e Peeta. Ho trovato il modo migliore per affrontare il dolore. Peeta è seduto di fronte a me. Quando non ho dolore, mi siedo anche io di fronte a lui sul lettino con gli occhi chiusi, godendomi la pausa, quando invece parte quella morsa infernale, mi alzo e mi appoggio a lui, abbracciandogli il collo. Stare chinata in avanti dà sollievo alla schiena, e affondare la faccia nei suoi capelli è un gesto così familiare che mi fa stare bene. Poi a volte non basta, e Peeta prontamente allunga le braccia perché io ci appoggi tutto il mio peso. Non spingo, ma cerco di dondolarmi usando i sui bicipiti forti come appigli. Meno male che è robusto come una roccia, perché non so quanta forza gli sto scaricando addosso, poveretto. Lui non fa una piega. Mi dà l’acqua, mi bagna la fronte, sopporta i miei sbuffi addosso senza cambiare espressione, anche se so che razza di alito dovrei avere ora, visto che prima ho anche vomitato nel cartone della spazzatura.

Però mi sento fortunata. Penso alle cose peggiori che ho passato, ai dolori inspiegabili che ho dovuto affrontare e superare. Qui almeno deve venire fuori qualcosa di buono. Penso che ogni contrazione sia un passo in più, e questo mi dà forza.

- Sei bravissima, Katniss - mi sussurra nell’orecchio Peeta. Non lo so se sono bravissima. Vorrei solo che nascesse. Ed è passata solo un’ ora e mezza, quasi due.

L’ostetrica mi rivisita. Ho perso altro liquido con sangue, e il dolore che mi provocano le sue dita con quelle della contrazione in atto mi fanno urlare per la prima volta.

- Sei andata avanti, Katniss! Brava!

- Nasce? - sussurro con voce fioca.

- Ci vuole ancora un po’. Non moltissimo, però, sai? Continua così e avvertimi se senti qualcosa di diverso. Qualsiasi cambiamento.

Annuisco.

E ricomincia il gioco di movimenti tra me e Peeta per affrontare il dolore. Quanto è passato ancora? Non lo so. Sento di non farcela più, sono stanca, stanca da morire. Vorrei stendermi e dormire, ma stare distesa mi da fastidio, perciò mi siedo su un panchetto si legno, appoggio la schiena contro Peeta che è seduto dietro di me, e sonnecchio per quanto posso. Non dura molto però. D’improvviso sento di dover andare in bagno. E non è pipì. Che rottura, penso, qui il bagno è uno solo, in comune, in fondo al corridoio. E non voglio certo fare i miei bisogni in una padella come ho fatto prima con la pipì. Bleah. No, devo alzarmi e andare. Ma d’ un tratto entra Aua con una dottoressa dai capelli castano chiaro e il viso dolce e semplice.

- Katniss, dove vai?

- In bagno. Ho bisogno di....

- Fare la cacca? - dice lei senza alcuna esitazione.

- Eh...già.

Non so cosa voglia significare una cosa così stupida e infantile per loro, ma non perdono tempo, mi stendono a gambe aperte, mi visitano. E senza dirsi niente, se non un “è completa” preparano tutto. Luci abbassate e centrate sul mio ventre, teli per terra, ferri, guanti e mascherine.

- Che accidenti...? - domando io, senza riuscire a controllarmi.

- Katniss, mettiti nella pozione più comoda che vuoi e spingi, quando hai voglia. - mi ordina Aua mentre infila i guanti. - La sensazione che provi, quella di fare la cacca, non è altro che la testa della bambina che preme. Sta per nascere, ok? E’ lì, ormai.

Oddio. Sono paralizzata, nervosa, stanca, felice, emozionata, di tutto. Mi siedo sul letto, con la schiena diritta. Peeta si arrampica dietro di me, fa sì che mi possa appoggiare a lui anzichè allo schienale che è troppo all’ingiù. Allargo la gambe più che posso. Mi attacco un po’ alle mani di mio marito, un po’ ai manipoli che hanno montato sul letto. Mi istruiscono sul come spingere.

- E se faccio anche la cacca? - mormoro come una scolaretta vergognosa.

- Non faremmo questo mestiere, se avessimo paura di un po’ di cacca. -risponde la dottoressa, Cecil.

E così, ogni volta che lo sento, spingo con tutta la forza che ho. Loro urlano e mi incitano. Mi sento un atleta. Mi incoraggiano, mi correggono se spingo male. Non sento più il dolore, ormai. Solo questo premito incontrollabile giù in basso.

- Peeta, Peeta.... - sussurro nel semibuio della stanza.

- Sono qui, dietro di te... risponde lui, baciandomi in testa.  

- La prima e l’ultima, ok?

- Va bene, faremo solo lei, promesso, niente altri bambini.

- E’ colpa tua!!! - grido, mezzo ridendo e mezzo piangendo, quando arriva un’altra fortissima contrazione. Nel giro di due secondi, credo di aver detto le tipiche frasi di una donna in travaglio.

Non so da quanto tempo sto qui a spingere. Ma ho poche forze, sono stanca, così stanca... penso a tutte le volte che ho faticato di più, che credevo di non farcela , e questo mi dà un po’ di forze. Ma sono sempre di meno. Ho paura. Non riuscirò a farla nascere.

- Tiratemela fuori, per favore! - esclamo, mentre un rivolo di sudore mi cala sulla guancia, rivolo che Peeta prontamente asciuga. Credo che anche quest’ultima sia una frase tipica.

Aua e Cecil mi rassicurano, mi dicono che sono bravissima, che sto facendo tutto giusto, che la bambina devo farla io, non loro. Sono gentili, sono davvero degli angeli a sopportarmi. Ma dopo qualche minuto, Cecil mi si mette di lato e mi parla.

- Katniss, ti darò una mano, va bene? Quando spingerai, io eserciterò una pressione sulla tua pancia con il mio braccio per spingere ancora di più la bambina fuori. Ok? Sarà doloroso, ma farò piano!

Annuisco. Grazie a Dio, è proprio quello che ci vuole. Faccio un accenno d’assenso per dire che sono pronta a fare un’altra spinta, e tra le mie urla, quelle d’incoraggiamento di Peeta,  quelle dell’ostetrica, quelle soffocate della dottoressa che col braccio esile schiaccia il mio pancione, sento che qualcosa cambia, e di brutto. Lì sotto inizia a bruciare da morire, e urlo ancora più forte.

- Un’altra Katniss, ci sta un’altra spinta?

- No! No! Non ce ne sono più! - dico piangendo.

- Tranquilla! Aspettiamo la prossima!

- Brucia, fa malissimo! Cos’è??

- Be’, la testina è fuori, cara. Capelli scuri, mi sembra. Ti somiglierà.

- Testona, vorrai dire.- la corregge ridendo Cecil. - Guarda lì!

Io non riesco a sporgermi, ma Peeta sì, e so che ciò che sta guardando è incredibile dal suo viso raggiante.

- Cosa si vede? - gli sussurro nell’orecchio.

- Uno spicchio grande di testa. Ci sono dei capelli. E’ quasi tutta fuori. - risponde balbettando.

Cavolo, arriva. Spingo con tutte le mie forze, poi un dolore indescrivibile mi strappa l’urlo più forte che abbia mai fatto. Poi il nulla.

 

I suoni sono ovattati, non capisco niente, sento solo un sovrapporsi di frasi sconnesse come “Complimenti!”, “Benvenuta!” “Eccoci qua!” “Brava Katniss!”.

Non c’è dolore, c’è solo sollievo. Le luci sono offuscate, sento solo il caldo delle mani di Peeta strette intorno alle mie, il bruciore alle parti basse. E poi un altro urlo che non riconosco come il mio.

Aua solleva un qualcosa di rosato, bianco e bluastro che piange. Sembra un alieno, un coniglio  spelacchiato. Quell’essere urla, ha il visto  contratto in una smorfia di dolore. Non appena Aua me la fa vedere alla luce, tendo le braccia come se non avessi mai fatto altro.

E’ qui, è nata.

E’ la cosa più brutta e più bella che abbia mai visto. Ha la testa grande e un po’ capelli neri schiacciati sulla testa. Me la stringo addosso insieme a dei teli caldi e bianchi che mi porge la dottoressa, con cui la avvolgo subito. Mormoro anche io frasi sconnesse e senza senso, non so da dove mi arrivino. Continuo dire ciao ininterrottamente. Peeta dietro di me credo che tiri su col naso due volte. Mi volto per stampargli un bacio sulla guancia scoprendo che è bagnata. Ricambia subito. Senza curarmi del fatto che è sporca, stampo un bacio anche sulla pelle caldissima della guancia della bambina.

Ora parlano solo l’ostetrica e la dottoressa, di cose tecniche e altro.

Mettono un bracciale di riconoscimento al suo piedino. Noi tre stiamo in silenzio, saggiandoci con gli occhi. Non abbiamo bisogno di dirci nulla. Riaccendono pian piano le luci della stanza. Lei apre e chiude e apre gli occhi convulsamente, non le piace tutto questo rumore e tutta questa luce.

Inizia a piangere ancora solo quando alcune infermiere la prendono per portarla a lavare, e Peeta va con loro. Credo imparerà subito tutto. Come la si lava, come la si veste, come si mette un pannolino. Lo saluto mentre esce, io qui ho ancora da fare, devo espellere la placenta - che orrore - e poi forse dovrò essere ricucita - altro orrore -. Non vedo l’ora di alzarmi di qui e raggiungere entrambi. Fuori dalla finestra riesco a sentire il canto gioioso di una ghiandaia imitatrice, prima che cali definitivamente la notte e tornino anche loro al proprio nido. 

  
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