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Autore: a_marya    07/03/2014    1 recensioni
Alexis ha una missione da compiere, affidatagli dal padre naturale: recuperare i capitoli di una storia scritta dallo stesso, prima che fosse assassinato. Quella storia, infatti, contiene informazioni preziose che qualcun altro, da qualche parte nel mondo, intende usare per smascherare l'Organizzazione, un gruppo di fanatici responsabili di molti omicidi, tra cui quello del padre di Alexis. Ma recuperare quelle pagine è tutt'altro che semplice: con l'Organizzazione sulle sue tracce, Alexis deve fare di tutto per restare nell'ombra, se vuole proteggere se stessa e coloro che le vogliono bene. Ma restare nell'ombra non sarà più possibile, quando l'enigmatico Alex e il brillante Giulio entreranno a far parte della sua vita e allora non le resterà che lottare per difendere se stessa e la memoria dei suoi genitori naturali...
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Lascio di nuovo la penna, gli occhi mi bruciano come se avessi una fiamma che arde proprio al centro. Strano come ricordo ogni dettaglio di quella sera. Sono successe così tante altre cose nel frattempo, eppure quella sera è rimasta vivida, come marchiata a fuoco dentro di me. Uno di quei ricordi che anche quando sarò vecchia, con i capelli bianchi e nemmeno un dente in bocca, potrò raccontare ai miei nipoti con estrema lucidità. Mi fa male la schiena e ho le gambe intorpidite, così decido di alzarmi a fare due passi. Tendo l’orecchio per sentire se per caso lui si è svegliato ma lo sento russare debolmente. Sorrido. Dice sempre che non russa lui. Ne è davvero convinto. Mi alzo lentamente per non far cigolare la sedia e mi stiracchio sentendo la schiena che scricchiola appena. Il mare sotto di me sembra essersi calmato, ora è solo un vago mormorio lontano. Vado in cucina e prendo un po’ d’acqua dal frigorifero, che ronza sommessamente, come un vecchio affaticato. Ritorno con la mente alla mia storia, ma non alla sera che ho appena raccontato ma agli anni precedenti. Ricordo quando ero ancora una bambina che sognava di fare la scrittrice, e sorrido un po’, pensando a quanto sia buffo il destino. Avevo realizzato il mio sogno ma talmente diverso da come l’avevo immaginato… e a quale prezzo…
Guardo l’orologio sulla cucina e vedo che si è fatto veramente tardi. Sarà meglio che vada a dormire un po’ o domattina non riuscirò a tenere gli occhi aperti e addio lezione. Torno silenziosamente nella stanza da letto e mi corico, cercando di fare più piano possibile.
Lo guardo preoccupata ma lui continua a dormire tranquillo. Potrebbero assassinarlo nel sonno e lui non se ne accorgerebbe nemmeno. Sorrido e lo bacio delicatamente, poi mi stendo accanto a lui. Improvvisamente mi abbraccia, senza aprire gli occhi.
- Ti amo, ti amerò sempre anche se non chiudi le tende – mi sussurra.
Io sorrido con la testa contro la sua spalla. La sua frase non ha senso e mi fa capire che sta parlando nel sonno. Dio, quanto lo amo. Dove potevo trovare un altro uomo che mi dicesse d amarmi anche mentre dorme?
- Anche io amore, anche io. Anche se russi e parli nel sonno – gli rispondo in un sussurro.
- Io non russo – mi risponde con la voce impastata e alzo la testa per capire se è sveglio o no. Non sembra che sia sveglio, ma naturalmente è mio marito, la recitazione è la sua vita.
- Allora forse è Giacomo che russa, devo essermi sbagliata – dico. Se è sveglio non se ne starà zitto. Non mi risponde ma mi stringe forte e borbotta qualcosa che non capisco, poi mi bacia sulla tempia, nel nostro punto segreto.
- Ti amo anche se dormi con Giacomo – mi dice.
E io sorrido, sentendomi innamorata come una ragazzina. Amo mio marito e va bene così. Al diavolo le maledizioni fantasma.

 
5 marzo 1997
Guardo ancora l’orologio. So benissimo che non possono essere passati più di due minuti ma non riesco a trattenermi. Mi chiedo cosa farò se non si presenta. È assurdo, è un uomo d’affari rispettato, non c’è nessun motivo per cui non dovrebbe presentarsi. È solo paranoia mi dico. Intanto continuo a guardare verso la porta e stringo convulsamente il bicchiere nella mano, rimpiangendo di non aver preso qualcosa di più forte che mi rilassasse nell’attesa.
Poi finalmente la porta si apre di nuovo e lo vedo entrare, scuotendo il fondo dei pantaloni dalla pioggia. Tiro un sospiro di sollievo e mi do della sciocca, quindi alzo la mano e faccio un cenno, così che veda dove sono seduta. Lui risponde appena al sorriso e si dirige a grandi passi verso di me, stringendo con mio enorme piacere una valigia dalle dimensioni strambe, enorme ma sottilissima. Può contenere solo un quadro.
- Buonasera signorina Samples. Mi perdoni il ritardo ma questa pioggia ha mandato in corto la gente oggi – si scusa lui, sedendosi e poggiando delicatamente la valigia per terra contro la sedia, così che non cada.
- Si figuri. Non sono arrivata da molto neanche io – rispondo. Non è vero, sono arrivata anzi con mezz’ora d’anticipo e lui è in ritardo di un’altra mezz’ora abbondante ma non mi sembra gentile farglielo notare. E poi è meglio che non capisca quanto tengo a quel quadro. Sempre meglio non sapere.
Comincia a fare qualche domanda generale, com’è il tempo dalle mie parti, come stanno i bambini, cose di questo genere. Io rispondo a tutto educatamente, tenendo ben presente ciò che gli ho raccontato su Leanne Samples, ma in modo sbrigativo. Voglio concludere questo affare al più presto e tornare a casa.
- Spero non le dispiaccia se vado subito al dunque signorina – dice lui e io sorrido, non riesco a farne a meno.
- Purtroppo sarà una lunga giornata e vorrei tornare dai miei figli in tempo per la partita - continua e io annuisco, mentre penso che può anche mettersi a ballare il tip-tap se serve ad accelerare.
- Come vede ho portato con me il quadro, così potrà accertarsi di persona che è quello che le interessa. Devo ammettere signorina che non è stato facile trovarlo, lei ha dei gusti molto particolari – dice ancora mentre apre la valigia ed estrae con delicatezza la tela, liberandola poi del velo che la protegge.
È esattamente quella che cercavo. Mi sembra impossibile averla trovata finalmente e mi viene voglia di gridare e ordinare un mega cocktail per tutti, ma annuisco e sorrido appena. Non deve capire. Meglio non sapere.
- Mi dispiace se le ha procurato qualche grattacapo signor Dumont. Ma nessuna opera varrà più di questa tra qualche anno, mi creda – rispondo sorseggiando soddisfatta il mio the freddo. Lui mi sorride ma non commenta. Probabilmente è convinto che sia solo un’altra eccentrica che si crede una grande esperta e invece non capisce nulla di arte. Bene, è esattamente quello che voglio che pensi di me. Non per niente ho indossato questo cappello e questa gonna orrendi.
- La ringrazio nuovamente di cuore per aver dedicato a me il suo tempo signor Dumont e spero che il piccolo extra che ho inserito nella busta la ripaghi almeno in parte delle sue fatiche – dico passandogli la voluminosa busta. Per un momento mi viene l’insana idea di fuggire con il quadro e i soldi. Sono davvero un gran bel gruzzolo, mi ci vorrà una vita per recuperarli. Ma ovviamente non faccio niente del genere.
Aspetto che controlli che ci sia tutto e mi godo la sua espressione esterrefatta quando vede in quanto consiste esattamente il piccolo extra. Mi è dispiaciuto un po’ dar via tutti quei soldi ma è importante che non faccia mai il mio nome in caso qualcosa vada storto. E ci penserà due volte prima di parlare di me e ammettere che si è intascato tutti quei soldi. Potrebbe costargli la carriera e questo lui lo sa.
- Non so davvero come ringraziarla signorina. Fare affari con lei è stato un vero piacere e spero che capiti presto un’altra occasione – dice lui alzandosi in piedi, pronto per andar via.
- Lo spero anche io, signore. Non immagina quanto – rispondo con un gran sorriso. Ovviamente, è l’ultima volta che ci vedremo ma è meglio che lui creda il contrario. L’idea di un altro extra come quello che ha appena ricevuto gli farà tenere la bocca ben chiusa sul nostro incontro, ne sono certa.
Non appena l’uomo è uscito dal locale mi volto verso la barista, una simpatica ragazza dai grandi occhi verdi, e le ordino un gin-lemon. Solitamente non bevo alcolici ma mi sembra giusto festeggiare. Ne mancano solo cinque e poi sarà tutto finito, la mia vita tornerà una comune vita da cittadina.
Sorrido mentre mi massaggio il collo e penso a come sarà bello poter riprendere gli studi davvero, magari laurearmi addirittura. Solo altri cinque. Cinque e poi la libertà.
Bevo con calma il mio gin lemon guardando il resto del locale, deserto a quell’ora, ad eccezione di due vecchietti che si giocano l’ultima birra della giornata a carte, poi pago il conto ed esco.
È incredibile il freddo di quest’anno. Sembra inverno da una decina d’anni e ancora non accenna a lasciare il passo all’estate. Non vedo l’ora di poter mettere da parte tutti questi dannati maglioni, non li sopporto più. Se tra due settimane il tempo non è cambiato giuro che me ne infischio e vado in giro con le canottine, anche se morirò di freddo.
Prendo l’ombrello dal portaombrelli sulla porta e mi avvio verso casa a passo lento, attenta a non incappare nelle numerose pozzanghere e a sollevare il quadro abbastanza perché non lo sfiori nemmeno una goccia. Fortuna che casa è vicina, mi sento davvero una vecchia pazza in questo momento e di certo lo penseranno anche i passanti, che già cominciano a guardarmi storto. Al diavolo.
Apro la porta di casa e corro ad appoggiare la tela sul tavolo della cucina, poi mi tolgo la giacca e la butto sulla poltrona. La appenderò più tardi, ora ho altro da fare.
Mi avvicino di nuovo al tavolo lentamente, con cautela, pregustando quello che so già di trovare. Rimango qualche minuto a guardare il disegno: è un ritratto, una giovane donna che si guarda allo specchio mentre si aggiusta un ciuffo ribelle di capelli. Studio ogni linea del disegno con attenzione e sfioro appena la superficie con le dita, risalendo lungo il profilo del braccio. So che il mio segreto è sul retro della tela ma non importa, mi piace guardare i suoi disegni, ammirarne la bravura.
Finalmente decido che è il momento, quindi giro con molta cautela la tela e la riappoggio sul tavolo, fissando con attenzione la trama del legno sottostante la tela, alla ricerca del dislivello. Eccolo lì, nell’angolo in basso a sinistra.
Mi sento emozionata, come una bimba che scarta i suoi regali di Natale. È una stupidaggine e lo so, so già cosa troverò sotto quel sottile panello, ma non posso farne a meno. Mi consolo pensando che in realtà so solo in parte cosa troverò, mi resta da scoprire ancora molto.
Infilo l’unghia nella discrepanza del pannello e con un po’ di pressione una parte del legno, un piccolo quadrato, si solleva. Lo alzo e lo appoggio sulla sedia più vicina mentre guardo il gruppo di fogli ripiegati che era nascosto sotto quel piccolo quadratino.
Sorrido trionfante mentre lo tiro fuori con delicatezza, aspirando come sempre il profumo che emana. Mi chiedo ancora come sia possibile che dopo tutti quegli anni quella carta sia ancora profumata e ancora una volta non mi riesce di trovare nessuna spiegazione possibile. Pazienza, in fondo anche questi particolari fanno parte della magia di questo piccolo rito.
Apro il primo foglio e scorgo rapidamente le frasi scritte nella sua grafia elegante, per controllare che sia ancora tutto leggibile o se serve qualche ritocco. No, è tutto nitido come quando è stato scritto.
Sono tremendamente curiosa di sapere cosa c’è scritto e mi trattengo a stento dal sedermi sulla sedia lì in cucina per leggere con attenzione. Non è il momento di sapere, non è il mio modo. So già come leggerò quelle poche pagine, l’ho già fatto tante volte e anche questo fa parte del rito, perciò aspetterò.
Lasciando da parte i fogli, rimetto tutto a posto e porto il quadro nella camera da letto, più tardi penserò a come sistemarlo, poi torno a prendere i fogli e li porto nello studio. Apro il cofanetto con l’intenzione di metterli la dentro fino a che non li leggerò ma ci ripenso; tanto comincerò la lettura tra non molto, il tempo di fare una cena veloce e controllare a che punto sono le mie finanze.
Li lascio sulla scrivania e torno in cucina, quindi apro il frigo e cerco qualcosa di buono da preparare. Non ho tantissima fame, voglio qualcosa di leggero. ma non vedo niente che mi ispiri… alla fine pesco un barattolo di formaggio fresco e decido che per stasera andrà bene. Prendo del pane in cassetta dalla dispensa e metto qualche fetta di pane in un piatto, quindi metto il pane nel microonde. Adoro il pane caldo, emana un profumo delizioso, ed è perfetto in serate fredde come questa.
Intanto che il pane riscalda, apparecchio la tavola e penso a cosa ci sarà scritto questa volta sui fogli. L’ultima volta la storia si era fermata quando il protagonista scopre l’elemento comune a tutte le vittime su cui indaga ed è a un passo dallo smascherare il misterioso Cardinale, nome in codice del super cattivo di turno.
Come dimostrerà che la sua intuizione è corretta? Come incastrerà il temibile capo della setta? Muoio dalla voglia di saperlo, come sempre.
E pensare che io sono l’autrice di questo romanzo, io lo scrivo e io lo pubblico… sorrido all’idea, lo faccio sempre. Mi diverte pensare alla faccia che farebbe chiunque se gli raccontassi in quale modo questa storia è finita nelle edicole nazionali.
Mi immagino seduta in un bar, con un buon caffè fumante davanti, mentre rispondo alle domande di un giornalista. Nella mia immaginazione, il tipo davanti a me ha il solito cappello da pescatore che i giornalisti hanno nei film, il solito anonimo impermeabile e l’immancabile piccolo registratore da taschino, fuma un sigaro e si alza gli occhiali sul naso col pollice ogni minuto. È una scemenza, oramai nessuno va in giro così, tanto meno i giornalisti, eppure è così che lo vedo io.
E ho una chiara idea della sua voce, bassa e un po’ nasale, quando mi fa la fatidica domanda:
- Allora, è vero che conosce l’autore della saga di “Resti di verità”?
E io con un sorriso un po’ stanco, come quelli delle assistenti super belle degli agenti segreti dei film, quel sorriso che dice “sapevo che mi avresti fatto questa domanda, vecchio mio e mi sono preparata a dovere”, rispondo tranquilla, già pregustando la sua espressione sbigottita:
- Certo che lo conosco. Sono io l’autore, o meglio l’autrice.
Lui quasi si lascia scappare il registratore dalle mani per la sorpresa e io rido sommessamente, come se lo compatissi un po’.
- E come le è venuta l’idea della storia? – domanda lui infine, quando ha capito che non è uno scherzo.
- In verità, è stato mio padre a darmela. Lui ha scritto la sua storia, poi ne ha suddiviso i capitoli e li ha nascosti nei quadri che lui stesso dipingeva, perché sapeva che l’avrebbero ammazzato prima che potesse pubblicare la sua storia. Poi mi ha lasciato un elenco con i nomi dei quadri in cui erano nascosti i capitoli e il compito di far pubblicare la sua opera. Ed eccoci qui.
Rido di nuovo. Quella si che sarebbe una scena da ricordare. Peccato che non si avvererà mai. Non tanto per la fama, non mi è mai piaciuto essere al centro dell’attenzione e sono sicura che odierei tutti quelli che mi fermano per un autografo… no, più che altro mi piacerebbe dimostrare a tutti quei cervelloni maschi, che è stata una donna a rubargli il primo posto in classifica di tutti i best-seller.
E poi mi chiedo anche, come sempre, se quello che il protagonista del romanzo scoprirà alla fine del libro sia la verità, se qualcuno potrà capire chi è il vero Cardinale, oppure sono solo supposizioni di mio padre. Nella sua lettera non mi ha scritto di aver mai scoperto le identità nascoste dietro i falsi nomi nei fogli scritti in codice, ma non si può mai dire.
Il microonde mi avverte che il mio pane è pronto, così esco il piatto e lo appoggio velocemente sul tavolo, scotta. Spalmo il formaggio fresco sulla prima fetta e assaporo il contrasto tra il pane caldo e il formaggio fresco. Semplicemente divino.
Do un occhiata all’orologio e mi accorgo che è già tardi, devo sbrigarmi se voglio sapere il resto della storia stasera e non permetterei a niente e nessuno di impedirmi di leggere quei fogli, sono troppo curiosa di sapere cosa scriverò nel mio prossimo capitolo.
Mangio ciò che resta della mia cena velocemente e rimetto tutto in ordine, poi vado allo stereo nel salotto e inserisco un cd. Non guardo nemmeno di cosa si tratta, è semplicemente il primo della pila lì accanto.
Mentre il cd sta per partire vado nella mia stanza e prendo i fogli dalla scrivania, insieme con un plaid dalla cassapanca. Accidenti all’inverno. Prima o poi dovrà pur finire!
Torno in salotto e per poco non scoppio a ridere. Il cd che ho inserito è uno di Polly, la figlia della mia vicina di appartamento che ogni tanto passa il pomeriggio con me, quando sua madre deve lavorare fino a tardi, e la canzone che si diffonde dolcemente dalle casse ultima generazione è Candy Candy, un cartone animato di almeno vent’anni fa.
Scuoto la testa e mi avvicino allo stereo per scegliere qualcosa di più adatto alla lettura ma quando sono a pochi passi dai cd qualcuno suona alla mia porta. Mi giro verso la porta e poi guardo l’orologio. È tardi, non ricevo mai visite a quest’ora. Chi può essere?
Grace ha dimenticato le chiavi di casa? No, ci sarebbe Polly in casa con la baby-sitter, aprirebbero loro. Linda che ha lasciato l’ennesimo fidanzato? Non mi sembrava che fossero sul punto di rompere quando l’ho sentita ieri mattina.
Intanto che io formulo le mie ipotesi, il disturbatore suona di nuovo. È evidente che non ha intenzione di andarsene. E se fosse importante? Che qualcuno dei miei genitori si sia sentito poco bene…?
Nascondo i fogli di mio padre sotto il cuscino della poltrona accanto a me con un’imprecazione, abbasso il volume dello stereo e corro ad aprire, improvvisamente allarmata. Ora che ci ho pensato, sono quasi sicura che mi troverò davanti un infermiere o qualcosa del genere venuto a dirmi qualcosa di terribile.
Apro solo la porta senza togliere il ferro, nell’agitazione mi sono dimenticato di averlo inserito. In realtà è stata la cosa più intelligente che ho fatto negli ultimi dieci minuti.
Davanti a me, fermo sul pianerottolo con il solito sorriso ebete c’è Alex-guarda-come-sono-ricco che mi guarda.
Mio Dio, che vuole? A momenti nemmeno lo riconoscevo. Non l’ho più visto dalla disastrosa festa a casa di mia zia, quando ho ballato con lui per quattro balli di fila senza nemmeno rendermene conto.
- Che vuoi? – gli chiedo brusca.
- Buonasera anche a te. Ancora una volta la tua simpatia mi riscalda il cuore, Alexis.
Non solo mi disturba nel momento più importante della giornata, si permette pure di fare il simpatico? Lo odio.
- Non hai risposto. Che vuoi?
Non so perché ma con lui non ci riesco proprio ad essere gentile. È come se emanasse delle radiazioni che mi costringono ad essere maleducata con lui. E comunque non mi importa, almeno capirà che non è il benvenuto e mi lascerà libera di leggere la mia storia.
- Va bene, saltiamo i convenevoli. Sono rimasto chiuso fuori e ho bisogno che Stefania mi porti la chiave di riserva. Posso usare il telefono? – mi chiede lui gentile, con quel sorriso stucchevole.
Io non rispondo, rimango lì a fissarlo come se non avessi capito che ha detto. Be’ in realtà non ho capito sul serio. Perché è venuto fino a casa mia per usare il telefono? Come fa a sapere dove abito?
- Ti ripago il costo della chiamata se vuoi, ma ho davvero bisogno del telefono.
- Perché da casa mia?
Lo so che devo sembrare stupida, una specie di ritardata che non capisce quando le si parla ma non riesco a farne a meno. Proprio non capisco. È come se mi sfuggisse un passaggio logico nel suo discorso. Il che è impossibile, perché ciò vorrebbe dire che ne esiste almeno uno in quello che dice e so che non è così.
- Perché sei l’unica che conosco e non mi sembra un bel modo di presentarmi ai miei nuovi vicini svegliarli a quest’ora per usare il loro telefono.
Ok, più che un passaggio mi manca un intero brano di discorso. Finora ho capito una sola cosa: uno dei due deve aver picchiato forte la testa e sta dando i numeri. E non ricordo di essere caduta.
- Nuovi vicini… ma di cosa stai parlando? Sicuro di non aver bevuto?
Lui mi guarda paziente e sposta il peso del corpo da una gamba all’altra, allargando quel sorriso idiota, come se gli facessi pena.
- In effetti ho bevuto un po’ di champagne, ma non in maniera preoccupante. Ma forse mi sono espresso male, non sono ancora abituato alla lingua come dovrei. Vicini è il termine giusto per indicare chi abita nel tuo palazzo, no?
- Sì ma… tu non abiti nel palazzo… - comincio io poi mi blocco, sbiancando. In effetti c’è stato un trasloco in questi giorni, proprio al palazzo al piano sopra il mio ma… è impossibile.
- Mi dispiace contraddirti ma da questa sera alle nove non è più così. Sono ufficialmente un… come si dice? Condomino credo.
Dice quell’ultima parola sillabandola come un bambino e per un momento mi viene da ridere. Ora ho capito. È un incubo. Devo essermi addormentata sul tavolo e sto avendo un incubo.
- Senti, so che è tardi e che ti ho interrotto nelle tue faccende personali, ma ho davvero bisogno di quella telefonata. Non m’importa se la casa è in disordine o se hai compagnia, io me ne andrò in qualche secondo, solo il tempo di chiamare qualcuno…
Va bene, non è un incubo. Troppo realistico per esserlo. E poi il profumo che emana Bei Vestiti è troppo reale per essere un incubo. Ma nessuno gli ha mai spiegato la differenza tra profumo e bagnoschiuma? Sembra che si faccia la doccia con quel profumo. La Coste, come la sera della festa. Almeno è un buongustaio.
Scuoto la testa per liberarmi da quei pensieri inopportuni. Non è davvero il momento di riflettere sui suoi gusti di profumeria. Ora devo liberarmi di lui e alla svelta.
- Va bene, senti, usa questo dannato telefono. Sono troppo stanca per capire l’assurdità di questa situazione – dico finalmente, mentre scuoto la testa. Sento che ritorna la mia cara amica emicrania. Chissà perché mi viene sempre dopo cinque minuti dei discorsi di Bei Vestiti.
Tolgo il ferretto dalla porta riluttante, ancora incapace di credere che sia il mio nuovo vicino. Lui entra con un sorriso soddisfatto e si guarda attorno con aria curiosa.
Io resto lì, impacciata, senza sapere esattamente cosa fare. So che dovrei correre a prendere il telefono e liberarmi in fretta di lui ma non mi fido a lasciarlo qui da solo mentre i fogli di mio padre sono sulla poltrona. E se li leggesse per caso?
- Allora non ho interrotto nessun gioco perverso – dice lui con quel maledetto sorriso. Giuro che prima o poi glielo strappo a suon di schiaffi, lo farò piangere come quando è nato.
- Giochi… - comincio, poi capisco cosa vuole dire. Ma che razza di donna crede che sia?
Lo fisso scandalizzata, incapace di ribattere e lui ride.
- Non prenderla male. Solo che visto quanto ci hai messo ad aprire la porta ho pensato che volessi nascondere qualcosa… - si giustifica lui.
Io sto per ribattere in modo piuttosto volgare ma mi fermo. Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo. Non ho intenzione di rispondere alle sue provocazioni.
- Non sarei venuta alla porta, nel caso – rispondo alla fine. Lo fisso per qualche minuto in silenzio ancora titubante all’idea di lasciarlo qui da solo, poi finalmente mi decido. Restandomene qui non risolverò la situazione.
- Vado a prenderti il telefono, aspetta qui – gli dico spazientita. È entrato da qualche secondo e già vorrei sbatterlo fuori a calci.
Mi rendo conto che non sono molto educata, dovrei per lo meno invitarlo a sedersi finché torno ma non mi importa. C’è il rischio che non se ne vada più e non deve succedere per nessun motivo, è meglio fargli capire da subito che non è il benvenuto, considerando che abiterà nel palazzo da domani. Non ho intenzione di ritrovarmelo qui ad ogni ora.
- Non mi inviti nemmeno a sedermi? Allora c’è davvero un gioco perverso in atto… - commenta lui divertito. Io alzo gli occhi al cielo, esasperata.
Ma con tutto il pianeta disponibile, perché doveva abitare proprio qui? Perché non in Asia o su qualche isola sperduta nel pacifico? Forse agli squali non avrebbe dato tutto questo fastidio.
Mi giro per rispondergli male e levargli quel sorriso dalla faccia una volta per tutte e lo vedo davanti alla mia poltrona ad un secondo dal  sedersi. La poltrona su cui ci sono i fogli.
- Giusto, perdonami, sai è l’ora tarda, la sorpresa… perché non ti accomodi in cucina? Si sta più caldi. Potrei preparare un caffè… - gli dico con un sorriso tanto grande quanto finto. Se trova i fogli sono finita.
Ma ci ripenso in un attimo. Un caffè? Dove mi è saltato in mente? Accidenti. Ora dovrò farlo, non posso dirgli che ho cambiato idea. Potrei fingere però di averlo finito… e mi prenderebbe in giro per la vita. No, a questo punto è meglio fare quel dannato caffè.
Vado verso lo stereo e alzo il volume, almeno la musica mi calmerà un po’. Sono troppo nervosa e potrebbe accorgersene.
Oddio.
Pessimo errore.
Orrendo, madornale, tragico errore.
Per tutta la casa si diffondono ora le note di “Kiss me Lycia”. Avevo dimenticato di aver inserito a caso il cd. Accidenti, accidenti e ancora accidenti!.
Lui mi guarda con aria interrogativa, facendo di tutto per non scoppiare a ridere, e indica lo stereo. Sto per spiegare perché ho la sigla di un cartone animato nello stereo ma quel suo maledetto sorriso mi blocca. Mister Perfezione ha bisogno di una lezione.
- Qualcosa non va? – chiedo con aria innocente, come se non avessi capito.
- Kiss me Lycia? – domanda lui, sul punto di scoppiare sul serio.
- Oh, la canzone. Scusa, ho sempre adorato le sigle di… tutti i miei cartoni preferiti – rispondo con un gran sorriso e quasi non scoppio io a ridere quando vedo la sua faccia. Questa non se l’aspettava proprio. Corro in camera mia a prendere il telefono prima di ridergli davvero in faccia e resto qualche minuto seduta sul bordo del letto per riprendere il controllo, quindi ritorno in cucina.
Lui si è già seduto e si guarda attorno, studiando ogni particolare della stanza e non si è accorto che sono arrivata. Ne approfitto per studiarlo meglio.
Ha ancora il cappotto addosso, un capo che da solo deve valere quanto tutto il mio armadio, e sembra incredibilmente fuori posto nella mia cucina semplice, affatto elegante.
Ha quasi un’aria sperduta e per un attimo lo vedo come deve vederlo chi non lo ha ancora sentito parlare: uno straniero, elegantissimo e bello come un dio, che si trova in difficoltà forse per la prima volta in vita sua e non sa esattamente come muoversi.
Mi fa un po’ tenerezza, lo ammetto. Probabilmente non deve essere facile vivere improvvisamente come i comuni mortali dopo tutti quegli anni insieme a paparino. Forse non avrei dovuto essere così dura con lui. Magari si nasconde dietro un muro di superficialità perché si sente solo e indifeso…
- Se ti stai chiedendo come starei nel tuo harem, ti avverto che non mi sono mai piaciuti i giochi perversi – dice lui all’improvviso, facendomi sobbalzare.
Ok, ritiro tutto. È cretino fino al midollo, nessuno sa fingere così bene.
Gli tiro il telefono, sperando inconsciamente che manchi la presa. Così otterrei due vittorie nello stesso momento: lui dimostrerebbe di non essere poi così perfetto come gli piace credersi e in più potrei riuscire a beccarlo dritto in testa. Chissà che la botta non lo faccia rinsavire.
Lui, però, effettua ovviamente una presa perfetta e fa un altro dei suoi sorrisi, così naturale che sento il cuore mancare un battito.  
Turbata da quello strano effetto, comincio a preparare il caffè, così ho una scusa per dargli le spalle. Lo sento parlare con Stefania, anche se non so chi sia, e chiederle se può portargli le chiavi che le ha lasciato. Chi sarà questa Stefania, per avere le sue chiavi? Fidanzata? Mi sembra improbabile che uno come lui abbia la fidanzata però. L’amante è più probabile.
Mi ritrovo ad ascoltare senza volerlo ma non mi sembra carino da parte mia, se Stefania è davvero la sua amante. Così smetto di concentrarmi sulle parole e faccio più attenzione al cambio di tono. Quando vuole sa essere davvero dolce anche nel parlare, come adesso. Capisco quando sorride perché la voce cala di qualche tono e sorrido quando il tono diventa imbarazzato, con la pronuncia leggermente strascicata.
Poi lui saluta e ringrazia, quindi attacca.
- Ti sono davvero grato, non so come avrei fatto senza di te. È che a casa mia la serratura è una sola e uscendo ho dimenticato la chiave della serratura più piccola – dice poi e io gli faccio un cenno con la mano per indicare che non importa.
Servo il caffè sul tavolo e mi siedo di fronte a lui, con la mia tazza bollente subito tra le mani, indicando verso lo zucchero nel caso voglia zuccherarlo ancora.
- Mi dispiace aver disturbato te, ma non conosco quasi nessuno qui, tanto meno nel palazzo… confesso che mi vergognavo un po’ a svegliare sconosciuti… - continua a giustificarsi lui. Io mi volto a guardarlo, comprendendo all’improvviso una cosa.
Non c’entrano le chiavi, non è per quello che è qui. O meglio, anche per quello ma non solo. Alex Il Perfetto è qui perché ha bisogno di parlare con qualcuno.
Di nuovo mi prende quella strana sensazione di tenerezza, come se fosse un bambino che ha bisogno di protezione. Ed è strano davvero, considerando che non ne ha affatto l’aspetto, con quei lineamenti e quel sorriso e quel profumo…
Per poco non mi soffoco quando un sorso di caffè mi va di traverso a quel pensiero. Mio Dio, sto fantasticando su Bei Vestiti!
- Tutto bene? – domanda lui smettendo di sorridere all’improvviso e posandomi una mano sul braccio. Io faccio di sì con la testa, cercando di frenare la tosse. Quando riesco a smettere di tossire, gli sorrido appena e lui si rilassa e torna ad appoggiare la schiena allo schienale.
- Oh, questo era uno dei miei cartoni preferiti da bambino – dice lui all’improvviso e io sulle prime non capisco. Poi sento che dalla radio arrivano le note di un’altra sigla, “Tiger Man” e mi sento sul punto di sprofondare. Gli sorrido un po’ forzatamente, sentendomi in imbarazzo come non mai.
Mi chiedo se non sia il caso di spiegare la realtà ma subito scuoto la testa. Come dovrei spiegargli il fatto che gli ho mentito su una cosa così stupida? Peggiorerei solo le cose.
- Aspetta qui, metto qualcosa di meno infantile – gli dico mentre corro verso lo stereo nel salotto. Scelgo un altro cd, una vecchia raccolta di brani jazz e lo inserisco.
Rimango sulla soglia finché non parte la prima canzone e rivolgo un’occhiata interrogativa al mio ospite, per essere certa che sia di suo gradimento. Lui mi sorride e mi mostra il pollice alzato. Torno in cucina ridendo e riprendo il mio posto, con la tazza di nuovo stretta tra le mani anche se non è più calda come prima.
- Da quanto sei tornato a vivere qui? – gli domando. Ormai è chiaro che non avrei il tempo di leggere il capitolo sui fogli e due chiacchiere non mi uccideranno.
- Ufficialmente un mese e mezzo, ma in realtà solo tre settimane fa.
- Ma eri alla festa di mia zia in ottobre… - gli ricordo io.
- Non mi ero ancora trasferito. Ero venuto per stare con mia madre e cercare una casa ma avevo ancora del lavoro da sbrigare e sono tornato da mio padre per un altro po’ di tempo, finché non chiudevo tutti gli affari in sospeso.
Continuo a fargli qualche domanda e lui mi risponde sempre più a suo agio. Sì, avevo ragione, aveva bisogno di due chiacchiere molto più che di un telefono. E miracolosamente non ci siamo scontrati nemmeno una volta, il che mi fa sperare bene. Forse se lo evito, non mi creerà molti problemi anche abitando nel palazzo.
Dopo un po’ lui si alza e dice che si è fatto tardi e che sicuramente Stefania, la donna che lo aiuta nelle pulizie, è arrivata ed è meglio raggiungerla. Mi saluta scusandosi di nuovo per l’intrusione e con la promessa che non accadrà più e sparisce.
Io resto per un po’ ancora seduta e fisso la porta da dove se ne è appena andato. Così la mia ipotetica amante non è che la donna delle pulizie. Fortuna che non ho fatto commenti, avrei fatto la figura dell’idiota. Di nuovo.
Ripenso a tutto quello che è successo, al cd dei cartoni animati e a quando mi sono soffocata con il caffè e mi chiedo cosa deve aver pensato di me. Chiudo gli occhi, sentendomi più goffa che mai e di nuovo sento quel senso di fastidio verso di lui. Sono anni ormai che non sono più goffa con le persone.
Allora perché ogni volta che lui è nella mia stessa stanza sembra che non ne faccio una giusta? Ancora una volta mi viene da pensare a lui come un qualcosa di radioattivo, qualcosa che emana onde radio che mandano in corto il mio cervello.
“Non so il cervello, cara mia, ma di sicuro i programmi per la serata” mi dico pensando ai fogli ancora nascosti sotto il cuscino della poltrona. Per un attimo penso a cosa sarebbe successo se si fosse seduto e li avesse rovinati. E peggio se li avesse letti e avesse cominciato a fare domande. Cosa avrei risposto?
Mi alzo di scatto e decido che questo era l’ultimo minuto sprecato per pensare a Alex-Bell’Aspetto. Per questa volta non è successo niente di preoccupante, se escludiamo il fatto che crede che sia una patita di sigle dei cartoni animati, e non capiterà mai più che venga in casa mia, quindi è inutile pensarci ancora.
Vado a recuperare i fogli dal loro nascondiglio ultra segreto e spengo lo stereo, quindi spengo la luce in cucina e vado nella mia camera. Mi spoglio rapidamente per il freddo e mi infilo subito sotto le lenzuola, indecisa se dormire subito o leggere qui la mia storia. Ma ormai è tardi e domattina dovrò andare in università. E poi non mi va di interrompere la mia tradizione per colpa di quello lì. Meglio aspettare domani, decisamente.
  
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