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Autore: Lys3    07/03/2014    1 recensioni
Tutti a Capitol City amano gli Hunger Games. Tutti tranne Leo.
Lui è diverso, lo è sempre stato fin da piccolo, ma nessuno comprende le sue ragioni. E in un mondo così grande, così forte, lotterà nel suo piccolo per far valere le sue idee in una società travagliata da questi Giochi mortali.
Martia era una ragazza come tante altre. Questo prima di vincere gli Hunger Games. Ora lotta per non perdersi nei suoi incubi, per mantenere la sua famiglia che sta cadendo verso l'oblio e per dare a sé stessa una speranza di una vita migliore.
Dal testo:
“Siamo diversi. Apparteniamo a due mondi diversi. E questa cosa non cambierà mai. [...] Vuoi un ragazzo che ti salvi dagli Hunger Games, non uno il cui padre ha progettato la tua morte.” [...]
“Ti sbagli. Tu mi salvi dagli Hunger Games. Mi salvi dagli Hunger Games ogni volta che mi guardi, ogni volta che mi stringi la mano, ogni volta che mi sorridi. Ogni singola volta in cui tu sei con me, mi sento libera di nuovo, come se nulla fosse mai accaduto. [...]”
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Altri tributi, Nuovo personaggio, Strateghi, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 22 - Mania suicida

Martia guardava il paesaggio scorrere rapidamente fuori dal finestrino con i muscoli del corpo totalmente paralizzati. Palazzi, strade, giardini. Tutto si confondeva in una massa indistinta di colori e di forme a causa dell'alta velocità.
Era rimasta da sola nel vagone e non riusciva a trovare la forza di spostarsi da quel posto. Era contenta di poter fare finalmente ritorno a casa, ma d'altra parte non avrebbe voluto lasciare Leo.
D'un tratto entrò Mags con addosso una vestaglia. "Non riesco a dormire" si giustificò e si andò a sedere su un divanetto, sistemandosi tutta raggomitolata tra i vari cuscini. "Le casa dei Vincitori sono altrettanto comode?" Martia annuì. La ragazza la fissò un po', poi la invitò a sedersi.
Convinta del fatto che rimanere in piedi per tutto il tempo non avrebbe cambiato di certo le cose, accettò l'invito, lasciandosi andare sul divano ben imbottito.
"Ti è caduto qualcosa" disse Mags chinandosi a prendere un foglio.
Martia, solo dopo aver visto l'espressione sconvolta di Mags, realizzò che aveva in mano le foto sue e di Leo. Gliele strappò velocemente di mano, rimettendole al loro posto nel piccolo zaino che aveva portato con sé da casa. "Non dovresti impicciarti negli affari altrui."
"E tu non dovresti fare cose del genere" la criticò aspramente Mags. "Cosa credi di fare? E' uno stupido capitolino. La sua gente di ha costretto a uccidere delle persone innocenti e tu in tutta risposta inizi ad amarli? Forse è vero che gli Hunger Games cambiano le persone."
Martia rise, nervosa. "Vuoi sapere se cambiano? Certo che lo fanno. Lo fanno con quelli come te, che predicando a casa l'uguaglianza ma che poi sono i primi a discriminare una persona solo per la sua zona di appartenenza. Lui non è come gli altri, è diverso. E tu, piuttosto, sembri uguale a loro in questo momento."
Calò un silenzio imbarazzante, carico di tensione. Mags si fissava i piedi nudi mentre Martia stava prendendo in considerazione l'idea di lasciare il vagone e abbandonare quella ragazzina lì da sola.
Sapeva che in realtà era sveglia per non cedere agli incubi. Ma del resto a lei cosa importava? Una persona che era capace di criticarla così duramente senza nemmeno conoscere la situazione forse non meritava nemmeno il suo appoggio. Cercò di calmarsi, di non cedere alla rabbia e rimase lì.
Dopo poco la ragazza aggiunse: "Hai ragione, perdonami. E' solo che la rabbia è tanta e... Rivedo ancora Roland. E se penso a quello che gli hanno fatto li vorrei uccidere uno ad uno, vederli soffrire. Io e lui non ci conoscevamo, ma avevamo parlato un po' prima dei Giochi. Era un tipo apposto. Non meritava quello che gli è successo." Martia rimase in silenzio, incapace di rispondere. Non c'era una risposta, non c'erano parole di conforto. C'era solo il silenzio a ricordare chi era stato strappato con crudeltà dal mondo. "Ti ringrazio, comunque" aggiunse lei. "Ti avevo sottovalutato come Mentore, ma immagino che il tuo compito sia anche questo, no? E poi... E' un bel ragazzo."
Involontariamente scoppiarono entrambe a ridere, contente di poter alleviare la tensione.

Leo era rimasto alla stazione più del dovuto. Se n'erano andati tutti mentre lui si era appoggiato al muro sforzandosi di non piangere.
Non poteva piangere, non doveva. Doveva capire che quello era il loro destino e che nulla avrebbe cambiato le cose. Ma purtroppo era una cosa molto difficile da accettare.
Era lì quando arrivarono dei senza-voce guidati da un uomo che stava ordinando loro di scaricare delle merci da un treno da poco arrivato. "Ehi, ragazzo. Cosa ci fai qui?" chiese l'uomo vedendolo.
"Stavo solo... Mi stavo chiedendo una cosa. E volevo sapere se lei poteva essermi d'aiuto" mentì Leo.
"Dimmi pure."
"Con quale frequenza i treni lasciano Capitol City e con quante persone a bordo?" domandò il ragazzo. "Sa, una ricerca per calcolare le spese complessive per i trasporti di tutte le merci."
"Oh, be' i treni si recano una volta al giorno in tutti i Distretti, più volte nel caso ci sia un ordine specifico del Presidente per qualche mansione. Nei Distretti che producono beni alimentari, però, i treni compiono fino a tre viaggi al giorno in alcuni periodi dell'anno. In genere per ogni treno sono presenti una decina di persone. Poi dipende sempre dal carico che hanno il compito di prelevare."
Leo ringraziò gentilmente e andò rapidamente via dalla stazione. Voleva evitare che qualcun altro lo vedesse lì insospettendosi: la stazione di Capitol City, data l'impossibilità dei viaggi, era sempre deserta e sarebbe risultato non poco insolito un giovane errante al suo interno.
Si diresse così al parco, dove lui e Martia si erano sdraiati sull'erba. Si sedette sul terreno umido, non curante del vestito nuovo, non curante della tarda ora e cercò di scacciare i pensieri brutti, inutilmente.
Era lì da poco quando gli si avvicinò un gruppo di ragazzi che riconobbe subito: erano gli amici di Verin. Tra di loro riconobbe Jun e Sen e l'ex fidanzato della ragazza.
Il suo nome era Sinnon e lo ricordava perché era sempre stato uno dei più popolari a scuola. L'unica cosa che condividevano all'epoca era la classe e non erano mai andati d'accordo. Al di fuori della scuola non si erano mai considerati, sia perché Leo non usciva mai di casa, sia perché ogni volta che lo aveva visto era con Verin che lo teneva a freno. Ma quella sera la ragazza non c'era.
"Ehi, sfigato. Da quanto tempo non ci vediamo?" disse lui ridendo e avvicinandosi. "Leo, giusto?"
"Sì, mi chiamo Leo e tutto il tempo che passerò senza vederti per me sarà sempre troppo poco" rispose lui con calma.
Sinnon rise. "Sai, stasera avevo voglia di divertirmi ma non ce l'ho fatta perché non ho trovato una buona compagnia. Mi fai compagnia tu?"
Leo notò che era ubriaco, talmente tanto da urlare senza motivo. "Adesso dovrei andare" provò a dire, ma fu subito bloccato.
"Non ho finito con te" disse afferrandolo per la spalla. "Ti vedi con Verin?" disse d'un tratto diventando improvvisamente serio.
"No" fece Leo, dimenticando il consiglio della sorella per salvarsi la pelle.
"Tu menti."
"Senti io non mi vedo con lei e se ti ha scaricato non è colpa mia." Ma quella frase era sbagliata.
Leo non ricordava nemmeno chi dei due avesse lasciato l'altro, ma quella frase offese il ragazzo che gli si scagliò addosso iniziandolo a colpirlo con forti pugni.
Leo non aveva mai partecipato a una rissa, ma reagire non fu difficile e iniziò anche lui a mandare pugni alla cieca. Si immischiarono anche gli altri due ragazzi, dando man forte al loro amico. Leo fu libero soltanto grazie all'intervento di Jun e Sen che evidentemente, dopo averlo conosciuto, si stavano impietosendo di fronte a quella scena.
I ragazzi se ne andarono, lasciandolo da solo. Non aveva idea del suo aspetto, ma riusciva a vedere il sangue che macchiava la sua camicia.
Finita la contusione in faccia per il padre, adesso aveva qualcosa che era molto peggio.
Sentiva un dolore tremendo ovunque, faticava a tenere l'occhio destro aperto e sentiva il sapore del sangue in bocca. La cosa, però, non lo turbava minimamente: era la prima volta che faceva a pugni con qualcuno e, prima dell'intervento degli altri due, se la stava cavando abbastanza bene.
Era soddisfatto. Iniziò a ridere istericamente sdraiandosi sull'erba. Rimase lì, al freddo che a stento sentiva sulle membra doloranti, fin quando non iniziò a sorgere il sole.
Decise che era ora di tornare a casa, più per la paura di addormentarsi lì per terra che per altro. S'incammino, ma tutti i muscoli iniziarono a fargli male. La mani si erano scorticate e gli dolovano per i pugni, la faccia pulsava pericolosamente. Ora che l'adrenalina stava passando il dolore iniziava a farsi sentire.
Varcata la soglia di casa trovò sua madre in pigiama che lo attendeva: "Ivon!" strillò vedendolo entrare. Suo padre spuntò dalla porta della cucina e iniziò a fissarlo con aria sgomenta, lo stesso fece sua madre. "Cosa hai fatto?" domandò l'uomo squadrandolo da capo a piedi.
"Ho fatto un giro, poi un altro giro. Poi sono andato al parco. E poi mi hanno pestato. Certo gliele ho date anche io ma erano tre contro uno quindi immagino sia normale che abbiano vinto" fece Leo ridendo. La cosa gli sembrava così assurda.
Ma sua madre non lo trovò altrettanto divertente. Iniziò a sbraitare e lo obbligò ad andare all'ospedale trascinandosi anche suo marito dietro.
All'arrivo i medici erano piuttosto perplessi dato che molto raramente avvenivano fenomeni di violenza in città. Secondo Leo ciò era plausibile dato che a nessuno era permesso di pensarla diversamente, perché chi lo faceva veniva emarginato e etichettato come pazzo, e lui ne sapeva qualcosa.
Suo padre, d'altronde, gli fece pressione tutta la sera affinché rivelasse i nomi dei ragazzi.
"Papà alcuni nemmeno li conoscevo, davvero." Le scuse servivano a ben poco. E dopo circa mezz'ora di discussione, all'ospedale arrivò anche Sinnon: anche lui era tornato a casa con un occhio gonfio e una piccola ferita sul mento e i genitori avevano insistito allo stesso modo per farlo curare.
Leo fu felice di trovarsi in una stanza da solo: attraverso i muri riusciva già a sentire la discussione dei suoi genitori e quelli di Sinnon ma soprattutto sentiva quest'ultimo lamentarsi.
Con sua grande sorpresa la porta della sua stanza si aprì ed entrò Verin. "Mi ha chiamata Sinnon, mi ha detto dell'accaduto. Mi dispiace, Leo."
Aveva l'aria agitata e si capiva che era stata svegliata troppo presto rispetto alle sue abitudini: i capelli, invece di essere aggrovigliati in una complicata acconciatura, erano sciolti e arruffati, il trucco molto leggero, quasi inesistente per gli standard e non indossava il suo abbinamento migliore di vestiti.
"Non devi scusarti" disse lui con tranquillità. Gli avevano dato qualche punto qua e là, datogli qualcosa come un antidolorifico e un qualche strano miscuglio da applicare sul gonfiore e già si sentiva meglio. Le cure mediche erano delle migliori, ma il suo aspetto era sempre pessimo: si era guardato nel riflesso di un vetro all'sopedale e aveva constata che davvero era conciato male. Peggio di quanto pensasse.
"Invece sì. Dovevo fin dall'inizio mettere le cose in chiaro con lui. Dovevo dirgli che era finita e che non doveva più immischiarsi e invece non l'ho fatto" continuò lei.
"Non devi preoccuparti. Sai dirmi cosa succede lì fuori?" domandò Leo.
Verin esitò. "Non so se posso dirtelo..."
Leo capì che qualcosa stava andando storto e non era difficile immaginare di cosa si trattasse. "Dimmelo, per favore."
La ragazza sospirò: "Dicono che la colpa è stata di Sinnon, ma i tuoi, oltre a pretendere delle scuse non vogliono più niente. Ma... Sta arrivando il tuo psicologo. I tuoi genitori dicono che avevi un'aria strana quando sei tornato a casa, si sono preoccupati. Dicono che potresti... Be' lo sai." Leo lo sapeva fin troppo bene, ma voleva sentirglielo dire, così rimase in silenzio fin quando lei non preseguì. "Credono tu abbia avuto un crollo psicologico. Quello da cui il dottore aveva messo in guardia i tuoi genitori."
"Lo immaginavo" disse Leo prima di scoppiare in una fragorosa risata. "Lo so, lo so. Adesso se continuo a ridere crederanno davvero che sono pazzo ma non riesco a smettere" disse cercando di contenersi. Il suo nervosismo era alle stelle.
Adesso gli avrebbero detto di nuovo che era pazzo e avrebbe passato nuovamente la sua vita chiuso dentro casa a dover sopportare suo padre e sua sorella.
Verin lo guardò ridere con aria preoccupata, poi bussarono alla porta e il dottor Minos entrò, chiedendo alla ragazza di uscire.
"Sapevo che stava arrivando. Ormai i miei credono che lei sia la soluzione a tutti  i miei problemi" disse Leo smettendo finalmente di ridere.
"Non è forse così?" fece l'uomo sorridendo.
"Non proprio. Anche se la devo ringraziare, non sa quanto bene mi ha fatto seguire questi Hunger Games." Lo disse come se dei Giochi gliene importasse qualcosa. La verità è che non gliene fregava niente, ma senza quelli non avrebbe mai conosciuto Martia.
"Lo dici con l'aria di un fanatico" puntualizzò Minos.
"Oh, non mi fraintenda" si affrettò a dire il ragazzo, rendendosi conto che, da come parlava, doveva davvero sembrare fuori di testa. "Gliene sono grato, ma non più di tanto. Mi ha aiutato in alcune cose ma non in altre. Mi ha portato ad aprirmi con le persone, però mi ha portato anche a venire pestato da tre ragazzi quindi non saprei se considerarla più una cosa positiva che negativa."
Minos lo guardò attentamente, poi rispose con calma: "Sai perché pensano tu sia ancora mentalmente instabile?"
"Perché ridevo mentre una persona qualunque avrebbe pianto?" ipotizzò lui.
"No, perché sono stato io a dirlo ai tuoi genitori" rispose lo psicologo. Leo lo guardò, senza fiatare, tornando improvvisamente serio. "Perché eri lì, Leo? Che ci facevi in giro per strada tutto solo?"
"Facevo un giro, l'ha detto stesso lei. Mi piace camminare."
"Ma perché farlo di notte, da solo. Perché starsene in un parco dove non c'è mai nessuno e non fare un giro per le vie più affollate."
"Volevo vedere le stelle. Lì si vedono meglio. Non c'è tutta quella luce" mentì Leo.
"E perché dopo che ti hanno pestato non sei tornato a casa? Abbiamo parlato con Sinnon, avresti dovuto tornare ore prima e invece hai aspettato così tanto. Perché?"
Leo ci pensò. Perché aveva aspettato? Non lo sapeva. Lo aveva fatto semplicemente perché aveva voglia. "Non lo so."
"Te lo dico io perché: stavi aspettando di morire."
Leo rimase impietrito. Come poteva dire una cosa del genere? Come poteva anche solo pensarlo?
Ma subito dopo comprese tutto: nessuno sapeva l'accaduto, nessuno sapeva di lui e Martia e quindi nessuno riusciva a dare una spiegazione al suo comportamento. E l'ultima volta che aveva fatto qualcosa di simile aveva poi tentato di suicidarsi buttandosi giù davanti a un vasto pubblico. "Non voglio morire."
"E' la stessa cosa che avevi detto a tutti anni fa, ma poi hai dimostrato il contrario."
Possibile che lo volesse davvero? Possibile che lui credeva di stare agendo per pura coincidenza ma nel suo inconscio lui era rimasto sdraiato sull'erba nell'attesa che la morte arrivasse? Era assai improbabile. Mai come allora capì che il suo strizzacervelli si stava sbagliando. "L'ho fatto per una ragazza" disse tutto d'un fiato, sapendo che si sarebbe pentito poco dopo. "Io... Avevamo avuto una discussione e non volevo andare a casa e così ho pensato di fare un giro. Poi ho incontrato i ragazzi e poi non volevo tornare a casa perché sapevo che lei lo avrebbe saputo e si sarebbe precipitata qui."
Minos stava scrivendo le sue parole sul suo fascicolo. "E' la tua ragazza?"
Le parole stentavano a uscirgli di bocca. Sapeva che stava per complicarsi la vita ammettendo che Verin era la sua ragazza senza prima parlarne con lei, ma quali alternative aveva? Farsi rinchiudere con l'accusa di essere pazzo? No, non di nuovo. "Sì, è lei" disse piano guardando fisso a terra.
"Ti voglio vedere per qualche settimana, anche solo una volta. Scegli tu il giorno, ma non mancare. Tre sedute dovrebbero bastare."
Minos lasciò la stanza e Leo non aveva più tanta voglia di ridere. La sua vita si stava complicando fin troppo.




Buonasera a tutti! Eccomi come promesso. Tanto per iniziare vorrei dirvi di perdonare eventuali errori, ripetizioni o altro ma il mio computer è rotto (sono fin troppo sfigata) e ho dovuto prendere in prestito quello di mia sorella ma siccome ho il tempo contato non ho riletto il tutto per bene, quindi non linciatemi!
Arriviamo al dunque: ho riscritto questo capitolo dopo aver perso la parte orginale così come tutta la storia nel mio pc e questa versione la trovo abbastanza soddisfacente anche se molto sintetica. Per il prossimo capitolo che non so davvero quando potrò pubblicare ho intenzione di concentrarmi su Martia, sul suo ritorno a casa e sulla reazione di suo fratello Sam alla notizia di cosa ha combinato la ragazza. Volevo inserirlo già in questo ma non ho potuto tagliare il dialogo con lo strizzacervelli che in futuro sarà molto importante ai fini della trama. Spero vi piaccia! A presto ^^

 
  
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