Serie TV > Grey's Anatomy
Segui la storia  |       
Autore: Herm735    08/03/2014    7 recensioni
Raccolta di One-Shot per provare a dimostrare che, in qualsiasi modo, in qualsiasi mondo, Callie e Arizona si sarebbero trovate. L'ambientazione cambia di capitolo in capitolo, in epoche diverse, luoghi diversi, con una sola costante: il loro amore. Almeno, è così che mi piace pensarla...
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU



Il nostro primo epilogo (parte I)


Quando mi svegliai avevo un forte senso di nausea. Come se qualcuno mi avesse dato una botta in testa per farmi svenire e trascinarmi lì.
Poi aprii gli occhi e la stanza completamente bianca mi suggerì che forse quello era proprio ciò che era accaduto.
Alla nausea si sostituì in fretta il panico.
“Dove sono?” domandai ad alta voce, quasi come se pensassi che qualcuno avesse potuto sentirmi parlare.
Ma non c'erano finestre, lì dentro, ed una sola porta. L'unico oggetto presente era uno specchio.
Mi alzai lentamente, guardando in basso. Quelli che avevo addosso non sembravano essere i miei vestiti. O forse lo erano? La taglia era quella giusta, ma c'era qualcosa di strano. Come se non fosse stato il genere che avrei normalmente scelto. O forse sì?
Realizzai che non ricordavo. Niente. Dal genere di vestiti che indossavo, al mio passato, fino al mio nome. Tutta la mia memoria era come una tabula rasa, come una stanza completamente vuota dalle pareti bianche. Come il luogo in cui mi trovavo.
Camminai fino alla porta, rendendomi conto che non sembravo stordita e i miei riflessi erano abbastanza reattivi.
Se qualcuno mi aveva colpita non aveva causato un trauma cranico, almeno.
La stanza in cui mi trovavo era quadrata, due metri per due metri, forse qualcosa di più. La porta aveva una maniglia vecchio stampo, non elettronica. Mi bloccai per un istante, pensando che forse non volevo sapere cosa c'era dall'altro lato. Perché, forse, quel qualcosa avrebbe potuto farmi del male.
Provai ad aprirla, ma era chiusa a chiave. E non c'era una chiave. Non c'era nemmeno una toppa in cui inserire la chiave, in realtà. Pensai che fosse solo un po' arrugginita e spinsi con tutte le mie forze, facendo leva anche sui muscoli del torace e sulla spalla. Dovevo a tutti i costi riuscire ad aprire quella porta.
Dopo aver scricchiolato, la porta si aprì. Scorreva con una facilità incredibile sul pavimento liscio e per un attimo mi domandai se non fosse stato nella mia testa. La porta non aveva nessun problema, non era chiusa a chiave e non era bloccata da un oggetto all'esterno. All'inizio non volevo sapere cosa ci fosse dall'altro lato e si era bloccata, per poi schiudersi con facilità una volta che avevo convinto me stessa che dovevo aprirla.
Cercai di non pensarci e spinsi la porta ad aprirsi ulteriormente, decidendomi poi ad oltrepassarne la soglia. La stanza in cui mi trovai era molto diversa dalla prima. Era rotonda, non aveva finestre e misurava all'incirca dieci metri di diametro.
Mi voltai di scatto quando sentii un rumore strano e mi accorsi che la porta si era richiusa alle mie spalle. Mi avvicinai, confusa dal fatto che non ci fosse una maniglia con cui aprire la porta anche dalla parte in cui mi trovavo in quel momento. Cercai di riaprire la porta facendo forza nella fessura che era rimasta tra questa e la parete, ma non si spostò neanche di un millimetro.
La stanza quadrata da cui venivo era costruita in modo che fosse possibile uscire per chi vi era intrappolato e volesse una via di fuga, ma non era possibile entrare per chi era all'esterno. Era un piccolo rifugio che chiudeva fuori il mondo esterno ed era in completo controllo di chi era invece già dentro.
Mi veniva in mente solo un tipo di stanza che poteva essere strutturata in maniera simile.
Una stanza antipanico.
Deglutii, rinunciando a cercare di riaprire la porta e chiedendomi invece perché mi trovassi lì dentro, in un luogo apparentemente lontano da casa mia, o da una qualsiasi forma di vita umana, non ricordassi niente di me, della mia vita e del mio passato e come avrei fatto per andarmene da lì il prima possibile.
Mi guardai attorno. Al centro della stanza c'era un supporto metallico, anche quello completamente bianco. Sopra di esso era posizionato uno schermo piatto, completamente trasparente, talmente avanzato, in termini tecnologici, da non sembrare neanche lontanamente reale. Alla faccia delle maniglie di ferro.
Ma forse non era neanche uno schermo, forse era solo un pezzo di vetro posto in mezzo ad una stanza con accanto quello che sembrava un telecomando.
Il telecomando.
Mi mossi in direzione del supporto quando sentii un rumore provenire dalla mia destra. La parte diametralmente opposta rispetto al punto da cui ero entrata. Non la vidi subito, ma solo dopo aver osservato la parete per qualche istante. Lì c'era un'altra porta, identica alla mia. Senza maniglia, senza tastierino numerico o magnetico. Era una porta chiusa, senza niente che facesse entrare. O uscire.
Un altro rumore.
Quella porta era la mia unica possibile via di fuga. Mi avvicinai, ascoltando attentamente i rumori provenienti dall'altro lato.
Qualcuno si stava muovendo. Quella persona poteva essere la mia salvezza, tanto quanto la mia condanna.
Un rumore più secco degli altri mi fece allontanare di qualche centimetro. Ce ne furono diversi, prima che mi rendessi conto di quello che stava succedendo. Chiunque ci fosse di là, stava prendendo a spallate la porta per farla aprire.
Ma io iniziavo a credere che in quel posto le azioni fisiche non avessero grande importanza.
Appoggiai le mani sulla porta, pensando attentamente a cosa fare.
Se fosse stato un orso, un lupo, un leone? Ma no, i colpi erano troppo leggeri. Probabilmente non era nemmeno un uomo. Un pensiero terrificante mi colpì all'improvviso. Che ci fosse un bambino, là dentro? Se era una stanza come la mia, due metri quadrati o meno, quanto sarebbe durato l'ossigeno che aveva? Se era stato svenuto lì dentro a lungo e ne aveva già consumato la maggior parte, lo sforzo fisico avrebbe procurato affannamento e di conseguenza l'uso di più ossigeno, che quindi ben presto sarebbe potuto venire a mancare.
Dovevo correre il rischio che fosse un orso e sentendo la mia voce si infuriasse di più, perché di certo non avrei lasciato morire una persona dentro una stanza stando ferma dall'altra parte della porta.
“C'è qualcuno? Sei qui dentro?”
“Chi diavolo sei?” arrivò l'urlo di una donna. “Cosa vuoi da me?”
“Non lo so” risposi, percependo la sua agitazione. “Mi sono trovata chiusa in una stanza anche io, non so come sono arrivata qui.”
Ascoltai il silenzio per qualche istante.
“Senti, so che sembra assurdo, ma per uscire dalla stanza” mi sentii stupida anche solo per aver concepito una cosa del genere “devi volerlo fare. Volerlo davvero.”
“Sono leggermente claustrofobica e chiusa in una stanza di due metri, credi che non voglia uscire da qui?”
“No, lo so. So che vuoi uscire, ma una parte di te ha paura. E hai ragione.”
“Apri tu la porta, se ci riesci. Aprila dall'altro lato.”
“Non c'è una maniglia da questo lato” ammisi con un leggero sospiro.
Quella storia, tutta quanta quella storia, non prometteva per niente bene.
“Qualcuno, probabilmente qualcuno con dei seri problemi, ci ha chiuso qui dentro. Ma in questa stanza non c'è nessuno, soltanto io, e prometto che non ti farò del male.”
Ci fu altro silenzio mentre lei esitava.
“Non sei tu che mi hai portato qui?”
Io ci pensai qualche momento. Forse lo ero, perché non c'era via d'entrata né d'uscita, io non ricordavo niente e forse ero una psicopatica multimiliardaria che si divertiva a chiudere esseri umani dentro stanze senza uscita e vederli impazzire.
“No, non sono stata io.”
Almeno, non pensavo di essere io la persona senza anima di cui stavamo parlando.
“Prova ad aprire di nuovo la porta, d'accordo?”
Mi allontanai di un passo. Aspettai qualche momento, poi sentii un leggerissimo, quasi impercettibile 'click' e la porta si aprì senza il minimo problema.
Mi ritrovai davanti ad una donna dai capelli biondi, ricci, gli occhi azzurri, il fisico asciutto, i lineamenti del viso dolci.
“La porta non si può riaprire dall'esterno, quindi forse dovremmo impedire che si chiuda. Per poterci nascondere di nuovo lì dentro se sentiamo arrivare qualcuno.”
Scosse la testa.
“Sarebbe inutile. In qualche modo ci hanno messo lì dentro. Potrebbero aprirle allo stesso modo, deve esserci un controllo a distanza o qualcosa del genere.”
Io annuii, dandomi mentalmente dell'idiota.
“Giusta osservazione.”
Entrò quindi nella stanza più grande, lasciando che la porta si richiudesse alle sue spalle.
“Io ero lì dentro” indicai la parte della stanza da cui ero uscita io. “Qui c'è quello che sembra un monitor e una specie di telecomando. Non ho ancora toccato niente, ma...” la guardai meglio, più attentamente, cercando di capire cosa era quel sentimento che provavo quando posavo lo sguardo su di lei. “Ma io e te ci conosciamo?” chiesi, improvvisamente confusa.
“Non lo so.”
“Ti sembro familiare?” domandai.
“Non lo so” rispose nuovamente. “Non ho ricordi di niente che non fosse prima di quella stanza, non so nemmeno il mio nome.”
“Neanche io” scossi la testa. “Ma mi sembra quasi di conoscerti già.”
Lei mi osservò attentamente. Un'espressione di profonda concentrazione le apparve in volto mentre scrutava i miei lineamenti.
“Credo di sì. Non ne sono sicura.”
Sospirai.
“Non so il mio nome, ma...” tesi la mano verso di lei.
Con un sorriso appena accennato allungò la mano. La presi gentilmente con la mia senza interrompere il contatto visivo quando successe la cosa più strana. Sentii come una piccola scossa elettrica alla mano e un milione di immagini mi attraversarono contemporaneamente il cervello, senza che riuscissi a bloccarne o trattenerne nessuna.
Dal modo in cui chiuse gli occhi, indietreggiando, le era appena successa la stessa cosa.
“Che era quella roba?”
“Non ne ho idea” mi portai una mano alla tempia, cercando di riprendere a vedere chiaramente, sbattendo le palpebre per mandare via la sfocatura dall'immagine prodotta dai miei occhi. Mi sentivo come un computer che era stato sovraccaricato.
“Si chiama flashback, o illuminazione. Rivivere momenti passati che sembravano dimenticati.”
Ci voltammo di scatto verso la persona che aveva parlato, dall'altro lato della stanza. Intravidi la sua figura attraverso il monitor completamente trasparente e mi misi immediatamente tra lei e la donna al mio fianco.
“Chi sei? Perché ci ha portato qui?” domandai, provocandole un sorriso.
“Ah, ancora una volta ti metti tra lei e la pistola” la sua voce non sembrava arrabbiata o disgustata, ma semplicemente fiera di quello che stavo facendo, come se non si fosse aspettata niente di meno.
“Hai una pistola?” chiesi, corrugando la fronte mentre osservavo le sue mani vuote.
“Era una metafora. Ti frapponi tra lei ed il pericolo. È così che sei stata creata.”
“Creata?” chiesi, confusa.
Lei si mosse, facendo il giro dello schermo, avvicinandosi. Io mi voltai verso di lei, ma mantenendo la mia posizione a proteggere la donna dagli occhi azzurri.
Indossava un completo bianco. Pantaloni, maglietta e giacca, intonandosi perfettamente ai colori della stanza. Era una donna di colore sulla quarantina, i capelli neri e gli occhi scuri.
“Dove siamo?” domandai ancora, cercando più che altro di temporeggiare.
Lei sorrise appena, inclinando leggermente la testa di lato e alzando appena le sopracciglia, incoraggiando la donna accanto a me a parlare.
“Credo che almeno tu lo abbia già capito.”
Lei deglutì, incontrando il mio sguardo quando voltai la testa verso di lei.
“Siamo dentro la nostra mente” mormorò sommessamente. “L'ho capito quando mi hai spiegato come aprire la porta.”
Guardai di nuovo la donna davanti a noi.
“Non è possibile. Non si fanno sogni così vividi.”
“Chi dice che questo è un sogno?”
“Questa è una buona notizia. Se tutto questo non è reale, vuol dire che non può farci del male” mi rassicurò la bionda.
“Chi dice che non è reale?”
“Smettila” le intimai. “O è nella nostra testa, o non lo è. Una delle due, scegli quale ma non può essere entrambe.”
“È nella vostra testa. Ma, fidatevi, questa cosa è senza ombra di dubbio reale.”
“Cos'erano quelle stanze in cui eravamo rinchiuse?” le chiesi. “Come mai non si possono aprire dall'esterno ma solo se la persona che è dentro lo vuole davvero?”
“Perché quello è il punto in cui le vostre menti si toccano. Non posso portarvi qui, in un terreno comune, senza che voi usciate dalla vostra stessa coscienza volontariamente. Ma non avete saputo resistere alla tentazione di incontrarvi.”
Un sorriso soddisfatto le attraversò il viso, mentre mormorava la sua conclusione.
“Riuscite sempre a trovarvi.”
La guardai, confusa.
“Aspetta, se è nella mia testa, non può essere dentro la tua” mi fece notare la bionda. “Quindi o tu o io non siamo reali. Una di noi è solo il prodotto dell'immaginazione dell'altra.”
“Io credo di essere reale.”
“Anche io.”
“Lo siete entrambe. O meglio, nessuna di voi due lo è.”
Io scossi la testa, cercando di pensare. Di ricordare. Qualsiasi cosa.
“Chi sei tu?”
“Non ti poni le domande giuste” fu la sua inutile risposta.
“Chi siamo noi?” domandò allora la donna al mio fianco.
“Ecco” puntò un dito nella sua direzione, sorridendo in maniera soddisfatta. “Questa è la domanda giusta.”
“E qual'è la risposta?”
“Ce n'è una molto, molto breve. Ed una molto, molto lunga.”
“Breve.”
“Lunga.”
Guardai verso di lei.
“Ti sembra il caso di dilungarsi?” domandai, corrugando la fronte.
“Hai altri impegni per caso?” scrollò le spalle. “Io no. E mi piacerebbe sentire tutta la storia.”
“Sempre idee diverse, voi due. Sempre in contraddizione.”
Noi ci scambiammo un'occhiata.
Io e lei, quindi, ci conoscevamo?
Ma sì, potevo vedere qualcosa di familiare in lei, nei suoi occhi, nel suo viso, nella sua bocca. E potevo quasi sentire le sue emozioni e le sue paure come se fossero le mie, come se fossero create per essere condivise.
“Iniziamo dalla risposta breve” mi distrasse la donna in bianco. “Voi due siete...” si fermò un istante, in cerca del giusto termine per descriverci appieno “...una storia” concluse, soddisfatta del termine che aveva scelto.
Guardò prima me e poi lei.
“Siete Callie e Arizona.”
Ancora una volta, io e lei ci guardammo, un po' confuse, un po' invece del tutto certe che quella fosse una cosa che aveva il suo senso.
“Che vuol dire che siamo una storia?” chiese, voltandosi di nuovo verso la donna davanti a noi.
“Ed ecco la risposta più lunga” iniziò con un sospiro. “Voi due, voi siete i personaggi di una serie televisiva.”
Alla sua scioccante rivelazione seguirono diversi attimi di silenzio.
Poi scoppiai a ridere, seguita dalla donna al mio fianco.
“Sì, certo.”
“Bella questa. Ma, se noi siamo solo dei personaggi, cosa sta succedendo ora come ora? Ci stiamo ribellando o qualcosa del genere?” domandai con finto tono cospiratorio.
“Bel tentativo, ma non ti credo.”
“Nemmeno io.”
“Ed ecco perché la spiegazione lunga è così tanto lunga” rispose con un sospiro, avvicinandosi al supporto al centro della stanza e prendendo il telecomando che avevo giù visto qualche minuto prima.
Schiacciò uno dei pulsanti ed il televisore si accese.
“Cosa è Grey's Anatomy?” domandai, leggendo la scritta al centro dello schermo.
“Creato da Shonda Rhimes” terminò di leggere Arizona.
Alcune immagini apparvero successivamente a quello che sembrava un titolo. Dei dottori in camice blu si stavano occupando di salvare la vita a delle persone coinvolte in quello che sembrava il disastro del secolo.
Tra quelle persone, c'eravamo anche noi.
Per qualche istante osservammo lo spettacolo svolgersi senza dire niente o intervenire, limitandoci ad osservare le nostre interazioni.
“Perché lei ha...questo sorriso super magico.”
Continuarono a scorrere scene di noi, sempre in ospedale, oppure in un appartamento. Ci venne riassunta quella che apparentemente era stata la nostra storia insieme.
“Ora mi credete?”
“No. Certo che no.”
“Probabilmente siamo attrici” intervenne la bionda. “Noi due siamo le attrici che interpretano quei personaggi e tu sei” cercò un termine appropriato per spiegarsi “una psicopatica” concluse, ritenendosi soddisfatta. “Una fan sfegata che ci ha rapito e portato in questo posto per...non so cosa.”
“Nonostante la tua chiarissima spiegazione, no. Non è questo il caso” rispose pacatamente la donna, sempre con il suo sorriso tranquillo.
“Io esisto” dissi con decisione. “Penso, parlo, provo paura, sollievo, ho ricordi. Non sono un personaggio inventato.”
“Certo che esisti. Guardati, come potresti non essere reale? Sei perfettamente creata, nei minimi dettagli. Ogni aspetto della tua personalità. Sei quanto più di reale il mondo ha da offrire. Ma, allo stesso tempo, la tua creazione, il delineamento della tua personalità, non nasce da esperienze che hai vissuto sulla tua pelle. Nasce dalla fantasia di un'altra persona. Ma questo non significa che sei meno reale.”
Riflettei qualche momento sulle sue parole.
“Non capisco.”
“Beh” iniziò, cercando le parole giuste per farmi capire. “Pensa ad una macchina. La macchina più bella che riesci ad immaginare. Poi pensala senza vernice. Togli i pneumatici e i cerchioni, il telaio, i sedili. Finché non rimane niente. Solo una pagina bianca. Quello che divide quella pagina bianca dall'auto dei tuoi sogni, è la fantasia di un ingegnere, di un meccanico, un progettatore, un pilota. Viene creata passo dopo passo dalla mente di chi la pensa per la prima volta, fino ai più piccoli dettagli. Ma questo non la rende meno reale, giusto? Non la rende meno bella, meno perfetta.”
“No, certo che no.”
Lei annuì, stringendosi nelle spalle.
“Tu sei come quella macchina.”
Corrugai la fronte, ammettendo che il ragionamento non era di per sé sbagliato, anzi, aveva una sua logica, eppure la conclusione a cui portava suonava molto strana alle mie orecchie. Come potevo essere stata semplicemente... inventata?
“Allora questo non è reale. Non è di nostra creazione, né della mia mente” mi voltai verso la donna affianco a me “né della sua.”
“Mai detto che lo fosse” spiegò la mora. “Questo, ciò che vi circonda, è una mia creazione.”
“Hai detto che era dentro le nostre menti” le fece notare la bionda.
“Perché è così. Questo è il modo in cui l'ho immaginato, creandolo.”
“Chi sei tu?” ripetei la domanda che le avevo fatto prima, sperando di poter avere una risposta, stavolta.
Lei mi sorrise, allargando le braccia, come se a quel punto sarebbe dovuto essere ovvio.
“Io sono la donna che vi ha creato.”
I miei sospetti vennero confermati. Sospirai. Non ci credevo ancora, ma, proprio come non avevo la certezza che dicesse la verità, non ero sicura che stesse mentendo.
“Che cosa vuoi da noi?”
Fece un passo in direzione dello schermo, guardando il fermo immagine di noi due che ci tenevamo per mano, con il sorriso sulle labbra.
“Voi due avete fatto molto, nel corso di questi anni. Ne avete passate tante. E avete vissuto un milione e più di vite.”
Si allontanò dallo schermo, voltandosi verso un punto della stanza circolare alle sue spalle.
“Guardate” ci incoraggiò, facendo un cenno della testa verso la parete.
Ci voltammo, vedendo alcune immagini apparire nella parete bianca. Come se fossero fotografie che qualcuno si era dimenticato di togliere. O appendere. E quindi erano rimaste lì, ad aspettare che qualcuno le notasse.
In pochi secondi tutta la stanza fu riempita da immagini simili, ogni centimetro libero dell'immensa parete recava un'immagine.
Ne osservai alcune. Ce n'era una in cui mangiavamo del gelato. Poi ne vidi una in cui stavamo combattendo spada a spada sopra una nave. Ne scorsi un'altra in cui avevo in mano una pistola, una in cui eravamo in piscina insieme, e poi ce n'era una in cui aveva dei dadi in mano e si preparava a tirare.
“Torno all'idea in cui siamo attrici” mormorò Arizona, se quello era il suo nome, ormai a qualche metro di distanza da me, che osservava un'altra parte della parete, esaminando altre fotografie che ci ritraevano nelle situazioni più disparate.
“Se lo siamo, non abbiamo mai recitato l'una senza l'altra. E abbiamo fatto decine e decine di film insieme. Non mi sembra molto plausibile.”
“Quindi scegli di credere alla storia sull'essere un personaggio?” si voltò nella mia direzione con un sopracciglio alzato.
Scrollai le spalle, senza risponderle.
“Credevo fossimo medici” dissi invece. “Ma qui ci sono” sfiorai alcune immagini “pirati, storie ambientate secoli fa, adolescenti, magia. Sembra che non sia solo un telefilm che abbiamo fatto insieme.”
“Queste sono le vite che avete vissuto. I modi in cui vi siete trovate quando io non sono riuscita a portarvi l'una dall'altra. Queste immagini, ognuna di esse, rappresentano una vostra scelta, un passo che avete fatto e che vi ha allontanato da me.”
“Stai dicendo che abbiamo iniziato a pensare?” domandò Arizona. “Ad agire anche contro la tua volontà?”
“Adesso chi è che crede alla storia dei personaggi?” mormorai tra me e me, con un sorriso divertito in faccia.
“Sostanzialmente, sì. Voi avete iniziato a sviluppare una dipendenza l'una nei confronti dell'altra, un legame così forte che in ogni situazione immaginavo una di voi, anche per un istante, l'altra era in grado di trovarla.”
“Siamo inseparabili, per così dire” tagliai corto.
“Non dare così per scontato che sia una cosa consona. È molto strano, invece, sai? Voi due siete uniche, straordinarie perfino. Siete in grado di esistere, di vivere, perfino quando non sono io a deciderlo. L'unica condizione necessaria e sufficiente perché questo avvenga, è la presenza dell'altra nelle vostre vite.”
“Per questo hai detto che abbiamo vissuto un milione di vite” intervenne Arizona.
“Esatto. E allo stesso tempo, non proprio. Quello che sto cercando di dire, è che avete vissuto un milione di vite insieme.”
Io passeggiai lungo la parete della stanza, osservando alcune delle foto ed il mio sguardo venne catturato da una in particolare.
Era un'immagine di noi due che ci stavamo sposando.
“È quasi come se io e lei fossimo destinate a stare insieme.”
“No, non è quasi come se tu e lei foste destinate a stare insieme. Tu e lei siete destinate a stare insieme.”
“Tu ci credi?” le domandai.
“Fermamente.”
“Ma che te lo chiedo a fare” sospirai. “Se ci hai creato tu, se ci hai pensato per stare insieme, è ovvio che pensi che siamo fatte l'una per l'altra.”
“Questo è il punto, Callie. Io non vi ho affatto create per stare insieme” ci spiegò come se quella fosse la cosa più ovvia da dire.
“Ma nel telefilm...” iniziò Arizona con tono confuso.
“Lasciami ripetere. Non vi ho create per stare insieme. Vi ho create per... per trovare la vostra anima gemella. Ma non si supponeva che foste voi.”
Si voltò di nuovo verso lo schermo, premendo un bottone sul telecomando che aveva usato anche poco prima e facendo partire un filmato, stavolta più breve.
Eravamo dentro un bagno, io stavo piangendo.
“Arizona era...” iniziò a raccontare, ma si bloccò subito dopo. “Io ti ho creato per salvarla” spiegò rivolgendosi a lei direttamente. “Ti ho creata per questo, per restituirle il sorriso che la vita le aveva portato via. E ha funzionato.”
Guardammo la scena in silenzio. Nonostante all'inizio stessi piangendo, quando Arizona lasciò il bagno io avevo un sorriso enorme sul viso.
“Non doveva durare. Non all'inizio. Lei non doveva essere la tua anima gemella. E tu non saresti dovuta rimanere” terminò la donna, voltandosi poi verso Arizona.
“E allora come spieghi tutto quello che è successo dopo?”
Lei rise, stringendosi nelle spalle.
“È quello che stavo dicendo. Voi vi siete trovate. Quando non si supponeva neanche avreste potuto averne la possibilità o la capacità. Voi vi siete trovate ed io, anche se avessi voluto, non avrei potuto evitarlo.”
“Ammutinamento” scherzai.
“Una cosa del genere. Insubordinazione è più corretto, forse. Non avete seguito gli ordini, non avete mantenuto la distanza. Ma alla fine si è rivelata la cosa migliore.”
“Quindi siamo una sorta di eccezione.”
“Esattamente. Basta che pensiate a quello che siete riuscite a fare qui, proprio oggi. Io ho messo le vostre menti in comunicazione attraverso una sola stanza, quella in cui siamo adesso. E voi siete riuscite a spingervi nell'angolo più remoto delle vostre menti, la piccola stanza in cui vi siete svegliate. E siete state spinte ad entrare in una mente estranea, diversa dalla vostra, semplicemente perché sentivate questo inesplicabile bisogno di incontrarvi, di conoscervi. Di trovarvi.”
Per qualche istante la stanza fu immersa nel silenzio.
Fu Arizona a parlare per prima.
“Non hai risposto alla domanda. Perché siamo qui? Cosa vuoi da noi?”
Lei annuì, guardando entrambe per diversi istanti.
“Sono qui perché ho un'offerta da farvi.”
“Che genere di offerta?” domandò la bionda.
“Voglio darvi la possibilità di essere libere. Libere di scegliere e di agire secondo ciò che volete e non ciò che voglio io.”
“Stai dicendo quello che penso?” chiesi in un sussurro.
“Vi sto offrendo la possibilità di diventare persone reali.”

“A cosa stai pensando?”
Trasalii al suono della sua voce. Ero così assorta nei miei pensieri che non l'avevo percepita avvicinarsi.
“Penso a quello a cui pensi tu. Alla sua offerta.”
“Già.”
“Questa è la mia preferita” le indicai una delle fotografie.
Era una foto in cui io ero seduta accanto a lei su un divano, con un braccio attorno alle sue spalle mentre lei cercava di non farsi fotografare, nascondendo il viso contro il mio collo. Nel frattempo io ridevo e guardavo in basso, verso l'unica parte del suo viso che riuscivo a scorgere. Non si vedeva chi era la persona che stava scattando la foto, ovviamente, ma dietro il divano c'era un ragazzo che sorrideva all'obbiettivo, avrà avuto circa sedici anni, e sul divano accanto a noi c'erano due bambine della stessa età, intorno ai dieci anni, che ridevano a crepapelle.
“Credo sia perché tutti sembrano così felici. Così sereni.”
“Perché sembra reale” concluse lei per me.
“Già.”
La donna alle nostre spalle si schiarì la voce.
“Vi ho dato qualche minuto per assorbire il motivo di quello che vi sta succedendo, ma adesso vorrei parlare con voi di quello che questa scelta potrebbe o no comportare per voi due e per la vostra storia.”
Annuii, voltandomi nella sua direzione e lanciando un'occhiata fugace alla donna affianco a me per essere sicura che anche lei fosse d'accordo.
“Come è ovvio, ci sono pro e contro.”
“Iniziamo dai pro” proposi immediatamente. “Libero arbitrio.”
Lei accennò un sorriso annuendo.
“Sapevo che la libertà sarebbe stata la cosa che ti avrebbe attratta di più, Callie. Non sei mai riuscita a desiderare altro tanto quanto l'indipendenza. Beh, niente eccetto Arizona. Lei è l'unica cosa per cui rinunceresti a tutto il resto.”
Io la guardai con fermezza, senza lasciar trasparire alcuna emozione.
“Diciamo che i pro, in questo caso, sono abbastanza scontati. Io sono più curiosa per quello che riguarda i contro” intervenne Arizona.
Lei sospirò, voltandoci le spalle mentre lentamente anche lei, come avevamo fatto noi, osservava alcune delle foto passeggiando per la stanza, fermandosi davanti ad una che la colpì in particolar modo.
“Potreste non trovarvi mai” sussurrò piano, come se fosse la sua più grande paura e allo stesso tempo il suo più tremendo segreto.
“Che significa?” domandai corrugando la fronte. “Non hai detto che siamo destinate a stare insieme?”
“È così qui, infatti. Ma non posso prevedere quello che succederà se vi lascio andare nel mondo reale. Siete destinate a stare insieme nel milione di vite che avete, ma quando sarete nella realtà, potreste non avere lo stesso carattere. O potreste crescere in luoghi e tempi diversi. Per esempio, Callie potrebbe vivere nella Parigi del milleottocento e Arizona nel Giappone del quinto secolo avanti Cristo. Oppure potrebbe succedervi qualcosa, un evento traumatico, che potrebbe cambiare ciò che siete irrimediabilmente. Qualcosa causato dalle persone che avreste intorno, dalla vostra infanzia. E anche il vostro aspetto, temo, non sarebbe quello di adesso. Ora assomigliate alle attrici che vi interpretano, ma nel mondo reale il vostro aspetto fisico sarebbe determinato da una combinazione casuale dei geni dei vostri genitori. Niente di tutto questo è davvero prevedibile.”
Si voltò verso di noi e incrociò le mani dietro la schiena.
“Quindi sì, sareste reali. E libere. Ma potreste non trovarvi mai e non sapere cosa si prova ad amare una persona tanto quanto voi vi siete amate. E forse non sapreste mai il vero significato dell'anima gemella e cosa si prova quando si incontra la persona a cui si è destinati. Sto solo cercando di farvi sapere che non è una decisione da prendere alla leggera, tutto qui. Non è una scelta semplice, dipende tutto da quanto siete disposte a perdere, da quello a cui sareste disposte a rinunciare. Non voglio dissuadervi dal farlo, è ovvio, se questo è quello che volete. Ma non voglio nemmeno illudervi. Questa scelta potrebbe voler dire decidere tra la libertà e la felicità. Quindi prendete una decisione saggiamente.”
“Siamo come prigionieri della tua mente” le fece notare Arizona con aria perplessa. “Dovremmo rimanere qui? Dovremmo semplicemente continuare ad esistere senza mai essere in grado davvero di vivere?”
“Ma qui vivete. Più di qualunque altra persona abbia mai vissuto” ci disse come se le sue parole l'avessero in qualche modo ferita. “Provate emozioni vere, l'amore, il dolore. La morte” la sua voce fu incrinata da una nota di tristezza. “E in un modo o nell'altro, qui riuscite sempre ad avere il vostro lieto fine.”
“Ma se non volessimo un lieto fine?” chiese ancora Arizona. “Se non volessimo una favola, ma soltanto una vita nel mondo reale?”
“Rinuncereste all'immortalità, alle emozioni più grandi della vostra vita” il suo tono di voce era incredulo “senza neanche la promessa di un lieto fine?”
“Io non voglio un lieto fine” le risposi con semplicità, stringendomi nelle spalle. “Tutto quello che voglio è un buon epilogo.”
Mi guardò per diversi momenti con aria perplessa, come se non riuscisse a capire bene quello che stavo cercando di dire.
“Un epilogo?”
“Sì. Una storia che non finisca sul più bello, quando siamo felici. Una storia che abbia un epilogo alla fine, che parli di come il nostro è stato un viaggio unico. A tratti difficile, tanto che pensavamo di non farcela. E di come ce l'abbiamo fatta ugualmente. Di come siamo invecchiate insieme, tenendoci per mano.”
“Ma voi siete invecchiate insieme” mi rispose con voce pacata, come se fosse la cosa più scontata del mondo. “Un miliardo di volte” concluse con voce più decisa, facendo un gesto con la mano sinistra ad indicare le foto che ci circondavano.
Mi guardai attorno. Le immagini stavano cambiando, trasformandosi in immagini molto simili, ma che ci ritraevano di molti anni più vecchie.
“Ma non lo ricordiamo. Non abbiamo mai un solo ricordo che possa confermarci di aver avuto una vita insieme, o sbaglio?” rispose con calma Arizona. “Forse, vivere una vita, arrivare all'ultimo giorno con i ricordi di quello che abbiamo passato insieme nel cuore, forse quello lascerebbe una firma più profonda. Più indelebile.”
“Ma è quello che succede anche qui, i ricordi se ne vanno soltanto dopo, quando ricominciate da capo una vita nuova. Davvero non capite? Nel mondo reale non esiste alcun lieto fine” tentò di spiegarci. “Vivrete le vostre vite, probabilmente senza mai incontrarvi e neanche sapreste cosa vi siete perse. Non lo sapreste mai” ripeté con sguardo triste.
“L'ho trovata ogni volta. Infinite volte. La troverò ancora” risposi con decisione.
“Se ci riuscite, se riuscite a trovarvi e ad avere il vostro lieto fine, il vostro epilogo, perfino nel mondo reale...”
“Non sembri più così convinta che siamo destinate a stare insieme” le fece notare Arizona con tono neutro.
“Lo sono, invece. Ma non sarà facile. Di certo non vi chiamerete con nomi così unici. Calliope e Arizona, una musa e una nave da guerra. Ma se questo è ciò che volete, non sono io che proverò a fermarvi.”
Arizona si voltò, incontrando il mio sguardo.
“Sembra che tu abbia già deciso” osservò.
“Hai paura?”
“Sì. Lei ha ragione, siamo immortali, qui. Abbiamo infinite possibilità e anche in questo modo non va sempre a finire bene. Potremmo non trovarci mai. Essere infelici. Qualsiasi cosa potrebbe andare storta.”
“Ma...” la incoraggiai a terminare.
“Ma, anche tu hai ragione. Non saremo mai davvero libere, finché non sappiamo cosa si prova ad essere là, nella realtà.”
“Non sembri convinta.”
Scrollò le spalle.
“Potrebbe non essere poi così diverso da quello che abbiamo qui, ma a quel punto avremmo comunque rinunciato per sempre a tutto questo” fece un gesto vago verso la parete alla nostra sinistra.
Io sostenni il suo sguardo ancora per qualche istante e poi lo abbassai, guardando in direzione del pavimento.
“Arizona” sospirai il suo nome.
“Calliope?” mi invitò a continuare, prendendomi una mano gentilmente con la sua.
Alzai gli occhi di nuovo verso i suoi.
“Non voglio essere una macchina” mormorai impercettibilmente, la voce che mi tremava. “Anche se sono una creazione perfetta, non voglio essere il risultato di un momento d'ispirazione. Voglio che siano le mie scelte a determinare chi sono. Anche se fosse soltanto per una volta, soltanto per una vita.”
Lei mi guardò per diversi momenti, senza dire niente.
Poi sospirò leggermente, chiudendo gli occhi per un istante e poi guardandomi di nuovo con determinazione.
“Tienimi la mano, d'accordo?”
Annuii con decisione, mentre ci voltavamo verso la donna vestita di bianco.
“Bene. Vedo che avete fatto la vostra scelta.”
Strinsi la sua mano con più forza.
“È quello che desiderate davvero?”
Mi voltai verso Arizona, lasciando che fosse lei a rispondere.
“Sì” confermò.
Io annuii, dandole manforte.
“Beh” sospirò, facendo qualche passo verso di noi. “Sapevo che non sarei riuscita a proteggervi per sempre.”
Si fermò davanti a noi, un piccolo sorriso sulle labbra.
“Non mi dimenticherò di voi, Callie e Arizona.”
Appoggiò la mano destra sulla mia spalla e la sinistra sulla sua.
“Ma voi vi dimenticherete di me e l'una dell'altra. Sarà probabilmente la più terribile esperienza delle vostre vite ed io non sarò lì per aiutarvi, almeno all'inizio. Sarete da sole contro il resto del mondo. Il mio consiglio è cercare di ricordare. Solo in quel modo avrete una possibilità di riuscire a trovarvi di nuovo.”
Improvvisamente sentii le palpebre pesanti, come se avessi sonno.
“Non avere paura” mormorai, rafforzando la stretta sulla mano di Arizona.
“Ti troverò” rispose sommessamente ma con feroce determinazione.
La mia visione divenne sfuocata e percepivo i suoni in modo più attutito.
La voce della donna in bianco fu l'ultima cosa che ricordai prima del buio.
“Buona fortuna.”
E poi, più niente.


To be continued...




  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Grey's Anatomy / Vai alla pagina dell'autore: Herm735