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Autore: HellWill    08/03/2014    1 recensioni
Aykir è il Prescelto: deve uccidere la Bestia, ed è stato mandato sulla Terra dagli déi proprio per questa missione.. o almeno, Aykir è stato cresciuto convinto di ciò dai suoi precettori: infatti, il ragazzo non è mai uscito dalla villa in cui è cresciuto.
Sue è una ragazza catapultata in un mondo che non conosce per via della guerra che imperversava nella sua Dimensione: sapeva bene di essere stata adottata dalla madre che aveva sempre conosciuto, ma.. addirittura venire da un altro mondo?
Questi sono i primi 2 capitoli di "Soffitti Sconosciuti", e valgono come anteprima del primo volume che è stato pubblicato su Amazon e Blurb.
Buona lettura!~
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sentieri Sconosciuti'
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II
Sue
Primo soffitto:
stalla.

 
alba del 25 Aeda 684 d.C.
Il sole appena sorto filtrava debolmente dalle imposte socchiuse, ferendole gli occhi: la ragazza se li stropicciò sbadigliando e si girò dall’altra parte del piccolo cumulo di paglia, per evitare la luce; poi si arrese all’evidenza che fosse ormai mattina e si stese supina, fissando il soffitto della stalla, di travi mangiate dalle intemperie e paglia, osservandolo come se avesse dovuto scorgervi un qualche misterioso senso nascosto.
“Un altro soffitto sconosciuto… quanti altri ne dovrò vedere, ancora, prima di smettere di scappare?”.
«...al diavolo» borbottò alzandosi dal pagliericcio con uno sbadiglio. Si stiracchiò per bene e socchiuse gli occhi con un sorriso; a dispetto dei pensieri cupi, quella sarebbe stata una bella giornata: avrebbe fatto di tutto perché andasse proprio così. Seduta sul mucchio di fieno, fissò con rinnovato sconforto la stalla in cui si trovava: il contesto medievale nel quale viveva da almeno quattro anni continuava a seccarla ed affascinarla contemporaneamente, nonostante avesse avuto il tempo di abituarsi all’idea.
Abitava in quel mondo dai costumi e tradizioni antiquate quasi per caso e ancora aveva problemi a fare i conti con le cose più semplici, come l’andare a letto al tramonto perché non c’era più luce (le candele, così come le fiaccole o le lampade ad olio, erano ovviamente roba per ricchi), e le più banali, come il cibo perennemente limitato a verdure di scarso apporto nutritivo, formaggio o pane secco e duro; la cosa che le piaceva di più, però, pensò mentre si infilava gli stivali, erano i draghi: erano ovunque, di qualsiasi dimensione, e addirittura gli esseri umani li tenevano come animali di compagnia, come fosse la cosa più normale del mondo. Non fece in tempo a completare il pensiero che il drago delle stalle fece la sua comparsa: era grosso più o meno come un cagnolino tracagnotto, e arrivò con la lingua serpeggiante ad ispezionarla; la sera prima lo aveva visto cacciare dei topi nelle vicinanze del sacco della biada, e ora pareva amichevole.
«Ehy, ciao» sorrise appena, allungando una mano perché potesse annusargliela. Il drago non si scompose, ignorandola del tutto, e se ne andò, sbattendo le ali e sollevando un gran polverone mentre si appollaiava su una trave di un cubicolo vuoto; Sue fece una smorfia, mandandolo a quel paese, e tirò fuori dal cumulo di paglia su cui aveva dormito la propria borsa: l’aveva ficcata lì nella speranza che ladri o mendicanti non la prendessero di mira, nonostante lei fosse praticamente nullatenente. Tirò fuori la spazzola e si pettinò, togliendosi dai capelli blu ogni traccia di fieno; dopodiché si alzò, con la borsa in spalla, e si diresse al pozzo del villaggio, praticamente di fronte alla locanda nelle cui stalle aveva trovato rifugio per la notte.
Il villaggio non aveva un nome, per lei: era solo uno dei tanti villaggi in cui si era fermata per fare rifornimento di danaro, dal momento che non aveva soldi né oggetti da vendere – al di fuori della sua spazzola, che però era un caro ricordo. Nessuno voleva avere a che fare con lei, perché non era umana: Sue aveva infatti capelli blu, occhi viola, e tratti che potevano sembrare esotici rispetto a quelli degli umani del Regno di Mame. Per questo la ragazza aveva escogitato la propria routine: alzarsi all’alba per evitare qualsiasi contatto umano non necessario, che l’avrebbe certamente quantomeno additata o addirittura linciata, in alcuni villaggi del sud. Il villaggio era perciò in lento movimento: qualche massaia stava svuotando i pitali in strada dalla porta di casa, senza prestarle attenzione; un paio di commercianti stavano aprendo bottega spazzando i patii di legno che ne costituivano l’entrata; i bambini, quelli che Sue più temeva, non erano ancora svegli.
Prelevò un secchio d’acqua, con enorme fatica visto che il giorno prima non aveva mangiato, e quello prima ancora il suo unico pasto era stato una mela; si sciacquò il viso e si lavò alla meglio sotto i vestiti, che però erano così laceri e sporchi che sembravano rubati a qualche cadavere; se pensava che una volta erano stati addirittura nuovi le veniva da ridere, perché a distanza di anni quegli indumenti le andavano piccoli e tutto evocavano tranne le parole “nuovi” o “puliti”. La ragazza sospirò e sciacquò anche camicia e pantaloni, nonostante li avesse indosso, per togliere almeno un po’ di puzza di sudore: il restare bagnata non la preoccupava, poiché in poche ore ci sarebbe stato un caldo intollerabile.
Restò immobile quando vide un uomo avvicinarsi al pozzo: era allampanato e non molto massiccio, e aveva un naso adunco da far invidia ad un uccellaccio. Un draghetto delle dimensioni di un falchetto gli stava appollaiato sulla spalla, fissandola con i suoi occhietti neri e perspicaci.
«Non puoi usare la nostra acqua» tagliò corto con le presentazioni, e Sue si morse le labbra per non ribattere qualcosa di sconveniente del tipo “Perché no?”: sapeva benissimo perché, nonostante la cosa non le andasse giù.
«Ho finito, in ogni caso».
«Non puoi restare qui, devi andartene».
Sue stava per controbattere, quando uno stalliere arrivò dalla locanda in gran fretta, trascinandola per una spalla.
«Devi lavorare, sbrigati» ringhiò, mollandola come disgustato, e Sue lo seguì, sentendosi ribollire il sangue per quel trattamento; erano passati almeno quattro anni da quando aveva perso l’aspetto di una bambina umana, ma la cosa non smetteva di pesarle. Era una donna, per di più non-umana: tutti si sentivano in dovere di ricordarglielo, anche chi teoricamente avrebbe dovuto essere poco più che uno schiavo, come quello stalliere. Fece un sorriso amaro: ma certo, anche lei era poco più di una schiava, agli occhi umani. Entrò nel cortile della locanda e poi nella stessa, dal retro: si ritrovò in un piccolo ingresso sporco di polvere e terreno. Tuttavia, c’era il padrone ad attenderla: la valutò, soppesandola in silenzio, poi si schiarì la voce.
«Ti ho fatta dormire nelle mie stalle senza protestare perché mia figlia si è sentita poco bene proprio ieri sera, e non ha potuto continuare il suo lavoro; gli déi sanno che non avrei mai permesso che feccia come te si avvicinasse anche solo alla mia locanda, altrimenti» le spiegò, con voce roca, e le fece cenno verso una porta dietro di sé. «Di là c’è la cucina. Va ripulita entro un’ora, poi ci saranno le pentole da lavare, sono stato chiaro? Non ti avvicinare al cibo o ti meno» ringhiò, vedendola smunta e magrolina. Sue deglutì e annuì, non sapendo se riusciva a farcela da sola; tuttavia quando entrò nelle cucine, c’erano un altro paio di donne ad attenderla. Una di esse, con uno scialle colorato sulle spalle che le copriva anche il capo, si asciugò il sudore dalla fronte con una manica e la valutò con lo sguardo, avvicinandosi e storcendo la bocca.
«Mio marito ci accomuna agli schiavi, ora» ridacchiò con l’altra, che diede solo uno sguardo colmo di disprezzo a Sue, senza esprimersi in merito.
La cucina odorava di carne stufata e farina: la donna in fondo stava impastando delle focacce, con alcune già pronte per essere infornate, mentre quella con lo scialle faceva seccamente le presentazioni:
«Io sono Evel; lei è Suse, mia sorella» indicò la donna che impastava, con il capo scoperto. «Hai già conosciuto mio marito… da qualche parte a rifornirci c’è Cole, nostro figlio, mentre nostra figlia Eva ci aiuta in cucina, lì» indicò un punto in cui una ragazzina sbucciava fagioli.
Sue annuì e si morse le labbra.
«Io sono Sue» si presentò, porgendole la mano in un gesto automatico, ma la lasciò subito cadere quando vide un lampo di disprezzo comparire negli occhi di Evel; non si sarebbe mai abituata a quel trattamento.
Quando lei ed Erik erano appena arrivati in quel mondo (ancora non capiva come, nonostante l’amico avesse tentato di spiegarle come funzionasse), il ragazzo le aveva dato un paio di nozioni fondamentali su quell’epoca “medievale”, che non era perfettamente uguale a quello nel mondo dove era cresciuta, anzi, differiva di parecchie cose; una su tutte, il Cristianesimo lì non c’era. La storia non si era sviluppata in quel senso, anche se si era arrivati all’organizzazione più o meno feudale; la concezione delle donne era fortemente arretrata, con la società che voleva fossero perfette massaie e mogli e madri; la magia esisteva, certo, ma solo in pochi ne custodivano i segreti, fra cui c’erano soprattutto i Sacerdoti e gli Strenna (le persone con il ‘dono’ della magia innata); gli umani non erano neanche l’unica razza presente in quel mondo… bensì ce n’erano anche molte che nel suo mondo Sue avrebbe definito “fantastiche” e che invece lì venivano chiamate “magiche”, o “non-umane”: elfi, sirene, fate, folletti… ed altre dai nomi strani, come Weod o Etrays. Lei aveva scoperto di far parte di queste ultime solo dopo la pubertà, quando il suo aspetto fisico era radicalmente cambiato dal sembrare umano, con capelli ricci e neri ed occhi grigi, a colori e fisionomia completamente diversi… ma quella era un’altra storia, e non voleva pensarci. Piuttosto, aveva notato che il mondo in cui si trovava discriminava di gran lunga queste creature e, quindi, anche lei.
“Come se il sessismo non bastasse”, si ritrovò a pensare amaramente, e scosse il capo ritornando al presente: la cucina non era esattamente come si immaginava ne fosse una medievale, ovvero povera e sfornita di mobili, bensì era piena di odori e spezie varie, addirittura messe sul fuoco in modo che spandessero il più possibile l’odore di cibo nonostante non ci fosse ancora nulla nei grossi pentoloni sui tre fuochi in mezzo alla stanza.
Un lunghissimo tavolo, posto lungo i muri, fungeva da bancone di lavoro; vicino la porta vi erano vasetti di piante della più grande varietà che Sue avesse potuto vedere: ce n’erano di rosse, di viola, di azzurrine, di grigie, e solo in piccola parte erano verdi; in fondo, vicino l’uscita che dava sul cortile e sulla bottega del macellaio, c’era una lunga trave sospesa proprio sopra la porta, staccata dal muro, a cui erano appesi una carcassa scuoiata in attesa di essere macellata e, in un angolo, salumi di ogni sorta; sul tavolo su cui Suse lavorava c’erano dei piatti impilati e dei coltelli infilati in un ciocco di legno, minacciosi quanto curiosamente storti. Il ripiano era rovinato ma la donna vi si affaccendava, impastando le focacce nelle vicinanze del muro di pietra annerito dal fuoco del forno, mentre la cuoca studiava la nuova arrivata. Sue si guardò intorno, cercando di capire cosa andasse pulito: in un angolo c’era l’acquaio, con almeno due o tre sezioni: in una c’erano dei pesci del fiume vicino, in un’altra una pila di piatti sporchi; in un altro angolo, Eva sbucciava dei fagioli dal baccello, in un secchio. L’unica fonte di luce a parte i tre focolari ridotti a brace era il sole, che splendeva forte attraverso la porta aperta: dava su un cortiletto interno piccolo ma assolato, con la luce che si rifletteva bene sul terreno brullo e polveroso. Al centro vi campeggiava un piccolo pozzo;  sotto l’odore di spezie, quando un refolo di vento si infilò nella porta, si sentì puzza di letame, forse proveniente dalle stalle, unita al sublime odore delle pentole e piatti sporchi che si erano accumulati fuori dalle ante spalancate.
«Ti sei per caso incantata?» la cuoca le diresse un’occhiata di sprezzo e Sue si riscosse, sussultando e mordendosi le labbra.
«No, stavo solo…».
«Pulisci prima i calderoni, dopodiché il resto che è vicino al pozzetto» la interruppe seccamente la donna, e Sue chinò il capo, obbedendo: prese con sé i calderoni e vide nel cortile un draghetto snello ed agile infilarsi in un secchio per ingoiare un topo intero, vivo. Disgustata dal fatto che ci fossero tanti topi in giro, Sue fremette e si guardò intorno: poco più in là c’erano un secchio ed uno spazzolone che sembrava per cavalli.
«Fai prima le pentole grosse e falle bene, ché servono per il latte» ordinò spiccia la donna, ritornando dentro.
Sue la guardò allucinata e si diresse verso il pozzo, scaricando poi il primo secchio d’acqua in un paiolo: afferrò lo spazzolone e si preparò a lunghe ore di raschiamento e mal di schiena.
Quando fu a metà dell’opera, con i tre pentoloni già puliti, vide tornare un ragazzino con due secchi di latte, che faceva fatica; si alzò per aiutarlo quasi in automatico, poiché sembravano pesanti, ma quando lui la vide inchiodò e chiamò a gran voce la madre, impaurito. La cuoca uscì, contrariata, e vide il timore del bambino.
«Che gli hai fatto, bestia?» inveì verso Sue, e lei arretrò di un passo istintivamente.
«Niente, mi sono solo alzata per aiutar…».
«Finisci il tuo lavoro e basta, ché aspettiamo solo te per cucinare» disse, prendendo un secchio dal bambino, e portandolo dentro la locanda per mano; quando il bimbo fu vicino, racimolò saliva e sputò contro Sue, che si ritrasse amareggiata.
«Questo è, a voler aiutare» borbottò la ragazza, tornando a lavare pentole e piatti in solitaria.
 
~ ~ ~
 
«Avrebbe potuto fare di meglio» commentò il locandiere, quando venne a chiedere cosa la non-umana stesse facendo ed osservando con occhi sospettosi Sue che posava l’ultimo pentolone per terra. La ragazza lo guardò afflitta: pentole e piatti erano sporchi e grigi, e quell’affermazione la faceva sentir male per tutte le volte che aveva mangiato da qualche parte in quel mondo parecchio arretrato in campo di norme d’igiene – e non solo. Un paio di topi che rosicchiavano un resto di cavolo sotto un tavolo lì nel cortiletto attrassero la sua attenzione e lentamente Sue si voltò nuovamente verso locandiere e cuoca, che noncurante versò un mestolo di latte caldo in una ciotola.
«Tie’» lo offrì a Sue, con poche cerimonie e con fare spiccio, mentre il marito se ne andava; poi Evel si sedette sul tavolo mangiando una mela, mentre la ragazza beveva il latte, rinfrancata nonostante facesse caldo. «Il tuo debito è ripagato, sei troppo secca per pulire la cucina e stare ancora in piedi dopo» ridacchiò malignamente, poi la studiò. «Sai qualche ricetta esotica? Magari delle tue parti?» chiese sospettosa, con gli occhi che brillavano interessati. Sue si strinse nelle spalle, immergendo la ciotola nel secchio d’acqua più o meno sporca e lavando anche quella.
«Qualcosa».
Non poteva ovviamente dire che era italiana, e che la maggior parte delle sue ricette consistevano in pasta e qualcosa.
«Conosci il minestrone?».
«Una grande minestra?» ridacchiò la donna. «Dimmi».
«Ci si mettono dentro un bel po’ di verdure… ne servono poche ma di ogni genere. Sedano, fagioli, patate…».
«Non so cosa siano queste papate» la donna contrasse le labbra e Sue si guardò intorno, mordendosi le labbra.
«Sono… dei tuberi. Sono buoni una volta cotti, e assorbono il sale. Hanno un sacco di sostanze nutri…».
«Stai vaneggiando. Forse è una cosa che si coltiva solo dalle tue parti, non abbiamo tuberi così, solo fiori» la donna si strinse nelle spalle e Sue sospirò.
«In ogni caso non è un ingrediente principale, quindi non fa niente. La cosa importante è non metterci carne come nella minestra normale, è un piatto vegetaria… vegetale» si corresse subito, con un sorriso di scuse. La parola straniera si attirò non più di un’occhiata vacua. «Puoi metterci la verdura che ti pare, nel minestrone, anche spezie o dell’erba del re».
«L’erba del re è una pianta ornamentale, mi stai prendendo in giro?».
«È anche molto buona da mangiare!» ribatté la ragazza, e la donna alzò gli occhi al cielo.
«E va bene, va bene. Conoscevo lo stesso questa minestra, ma ti sei guadagnata i tuoi due beret… Sei davvero smunta» borbottò, alzandosi dal tavolo. Sue restò ferma, incredula: aveva sentito bene? Soldi? Non le importava che la donna le stesse facendo praticamente la carità, perché non le aveva dato nessuna informazione utile – o almeno così le sembrava –, le importava solo avere il denaro sufficiente a comprare almeno un po’ di provviste per continuare il suo viaggio. Era da anni che campava alla giornata, a volte rubacchiando qualcosa dagli orti nottetempo, altre volte lavorando come quella mattinata, ma mai nulla che le facesse guadagnare almeno una corona, che bastava per una settimana di viveri mangiando normalmente; ormai Sue mangiava solo una volta al giorno, se le andava bene, altrimenti non mangiava affatto. Avrebbe avuto certo più soldi se si fosse data al borseggio, ma era troppo poco abile per farlo, e fino a quel momento era riuscita ad alleggerire le tasche altrui solo nelle grandi folle… che si sa, non erano granché diffuse nei piccoli villaggi.
La donna ritornò nella polvere del cortiletto con due monetine, e gliele mise in mano senza toccarla.
«Va’ via, ora» la esortò, con un cenno del capo, e Sue si morse le labbra.
«Io…» iniziò a ringraziarla, ma lei mosse le mani come per scacciarla, mentre già si voltava e rientrava. Sue scavalcò la staccionata e si diresse all’emporio, dove vendevano la frutta e la verdura dei giorni precedenti, quella che solo le famiglie più povere volevano comprare, ad un prezzo più basso del normale: l’uomo dietro il bancone si irrigidì e mise mano al pugnale poggiato sul ripiano, osservandola sospettoso, e lei girò intimidita fra gli scaffali spogli, prendendo con sé solo delle mele, del pesce salato e delle carote, che andavano a male meno in fretta del resto; conservò per sé un beret, volendo valutare bene solo in seguito come spenderlo. Il venditore si fece consegnare sospettoso la moneta restante, facendole poi cenno di andare via, il tutto in completo silenzio, e Sue mise gli acquisti nella borsa ed uscì con un sospiro dal negozio… salvo poi rendersi conto che fuori dall’emporio si era radunata una banda di ragazzini.
L’alba era infatti ormai passata da un pezzo, e più o meno tutti l’avevano vista uscire dalla locanda e dirigersi lì… per cui ora c’era una piccola folla di marmocchi alti non più della metà di lei, tutti con bastoni e pietre in mano.
«Ci hanno detto che hai usato l’acqua del nostro pozzo» iniziò uno, un po’più grande degli altri; Sue arretrò, ma trovò solo l’entrata della bottega; vi si rifugiò nuovamente dentro, e implorò con lo sguardo il venditore, che con un sospiro si alzò e a passi pesanti si diresse all’entrata.
«Andate via, ragazzi… è illegale fare queste cose, ora, lo sapete. Ci mettiamo nei guai con le guardie, se le fate qualcosa senza motivo. Il pozzo purtroppo è aperto a tutti» disse, lanciando un’occhiata penetrante alla ragazza che si era rifugiata con le mani su uno scaffale vuoto; i ragazzini mugugnarono e si dispersero, protestando a gran voce. Sue sospirò di sollievo e aprì la bocca per ringraziare, ma l’uomo la fermò prima che potesse farlo.
«Non voglio guai con la legge, tutto qui» ringhiò, tornando dietro il bancone. «Fosse per me…» e il suo sguardo le corse sul corpo, come se la stesse saggiando. «…ti avrei ammazzata io stesso» completò sottovoce, sollevando il coltello, e Sue deglutì.
«…grazie lo stesso» mormorò, uscendo finché non c’erano i ragazzini in vista. Sulla strada principale c’era un gran polverone di gente; Sue non fece in tempo a raggiungere la folla, incuriosita, che un gran dolore le trafisse la nuca: una pietra rotolò a terra e la ragazza, voltandosi, vide un bambino minuscolo – doveva avere sui cinque o sei anni – indicarla e gridarle contro: «Creatura malefica! Goblin! Vattene da dove sei venuta!».
Una donna dal capo coperto da una pezza bianca – come era usanza per le donne sposate – trascinò via il bambino, accortasi del suo gesto, ma non si scusò con Sue, che si portò invece una mano alla nuca che le pulsava e digrignò i denti, volendo gridar loro contro qualcosa; invece cambiò direzione e si diresse dalla sarta di paese, rigirandosi in mano il beret che le era rimasto: sarebbe stata una buona spesa, se poteva evitarle episodi simili.
Il sarto era un omino tranquillo che, vedendola, si fece guardingo.
«Cosa vuoi?» le chiese sgarbatamente. «Qui non trattiamo con i ladri».
«Neanche se pagano?» gli mostrò il beret, sfoggiando il suo migliore sorriso disarmante, e l’uomo sibilò come un serpente ostile.
«Che vuoi?» ripeté, e Sue chiese un foulard che le coprisse spalle e capo, raccogliendole i capelli blu e nascondendoli alla vista, così come le sue lunghe orecchie a punta; ne scelse uno che si adattasse alle sue finanze, dopodiché consegnò all’uomo tutto il poco denaro che le restava… dopodiché, quando uscì dalla bottega, si sentì una persona nuova. Tutti le dedicavano occhiate distratte e confabulavano sulla non-umana, ma se si teneva abbastanza lontana da loro persino la sua fisionomia poteva essere scambiata per umana. Ora erano perlopiù i suoi abiti a destare sospetti e scalpore: il suo mettere i pantaloni non era visto di buon occhio, poiché solamente le Sacerdotesse della Madre Terra o del Fratello Sconosciuto potevano permettersi di girare con abiti considerati “maschili”… e lei di certo non ne era una. Non appena si rese conto che neanche in quel modo andava bene, con i capelli e le orecchie coperte da un anonimo foulard bianco, l’animo di Sue si ritrovava diviso a metà: desiderava tanto passare inosservata, essere come chiunque altro, ma d’altro canto le provocava rabbia l’ineguaglianza che vigeva in quel territorio, e si intestardiva nelle proprie posizioni; per cui, decise immediatamente di ignorare totalmente almeno la questione degli abiti e di continuare a viaggiare per quel che poteva.
Nel tentativo di distrarsi, la testa iniziò a viaggiare per conto suo, facendole chiedere cosa avrebbe potuto comprare una volta raggiunto un certo numero di corone – non sapeva come né quando; il suo viaggio verso la capitale, Ther, proseguiva verso nord-est, dunque doveva continuare a spostarsi. I soldi sarebbero bastati per togliersi qualche bisogno come quello di vestiti decenti, oppure sarebbero stati tutti risucchiati proprio dal suo viaggiare continuo? Le sue provviste in quel momento si limitavano a ciò che aveva acquistato poco prima e ad una borraccia d’acqua piena… per fortuna quel giorno aveva bevuto del latte, un lusso insperato, ma il cibo rimaneva il suo problema più impellente, se non altro perché con un beret comprava molta roba solo se quel cibo era di basso costo e, quindi, di bassa qualità. Il suo ideale sarebbe stato guadagnare almeno una corona: avrebbe comprato cibo per due settimane, se lo avesse razionato bene.
Con un sospiro si fermò proprio al limitare della folla che si era riunita sulla strada principale, all’ingresso del villaggio: si immerse nella confusione e, approfittando della distrazione altrui, riuscì persino a tagliare qualche borsa con lo stiletto che custodiva gelosamente in uno stivale; una volta racimolati sei beret si sporse per verificare cosa stava accadendo, mentre la gente, muovendosi, le lasciava la visuale libera per qualche secondo: erano da poco arrivati i mercanti nomadi da sud-est, e portavano le migliori novità dalle periferie del regno di Mame. Gli abitanti del paese, mentre i mercanti sistemavano i loro prodotti, erano andati a rifornirli di cibo e acqua per il viaggio e si facevano raccontare le notizie; Sue si illuminò quando vide che queste ultime erano abbastanza succose da lasciare concentrati ed immobili gli uomini riuniti attorno a loro, per cui decise di azzardare un altro po’ di borselli tagliati: una volta finito aveva raggranellato più di due corone, per cui decise di ascoltare con senza particolare attenzione quello di cui gli uomini stavano parlando, per capire se c’era in giro qualcosa che potesse interessarla; notò con amarezza che non c’erano donne presenti a parte lei, e ciò avrebbe presto attirato l’attenzione, quindi si mosse sui margini della folla, pronta a defilarsi.
«Mai vista una bestia così, ve lo giuro sulla mia povera madre, aveva le dimensioni di un drago delle caverne, con tanto di ali…».
«Ma era peloso! Un pelo nero e lucido che sembrava inghiottire tutta la luce di questo mondo!»
«Aveva enormi zampe, o forse mani, irte di artigli, e con una zampata poteva abbattere un uomo!».
“Un orso, con tutta probabilità” pensò e scosse il capo Sue, anche se i racconti e gli occhi stralunati dei mercanti le suggerivano che non fosse così.
«Aveva la bocca così grande che poteva inghiottire una casa! E il verso! Sembravano urla di bambini e donne che vengono sgozzati…».
«…come se quell’infernale rumore venisse direttamente dal suo stomaco!».
Un uomo del villaggio si fece avanti, spavaldo.
«Che cumulo di balle! Sentiamo, dove avete sentito queste cavolate?».
L’affermazione scatenò le risate di quanti stavano ad ascoltare, ma Sue notò gli sguardi incerti che si scambiavano i paesani, segno che la paura o quanto meno l’incertezza di essa, al contrario, era reale. Ma di che bestia poteva trattarsi? A Sue non veniva in mente nulla che corrispondesse alla descrizione.
«Ce l’hanno raccontato gli abitanti di un villaggio poco lontano… Era distrutto, dovete nascondervi se volete vedere l’alba di domani!»
“Forse un Goblin ha giocato a nascondino e la gente si è spaventata” si ritrovò a minimizzare la ragazza, ma un sottile filo di inquietudine le serpeggiò lungo la schiena.  Gli uomini della carovana si scambiarono sguardi colmi di disagio, e Sue si morse il labbro, tentata di intervenire; eppure non poteva parlare: cosa aveva da dire? Nemmeno le sue domande erano brillanti, così si limitò ad ascoltare nel tentativo di capire qualcosa di più.
«Si sposta in fretta o, gli déi ce ne scampino, ce n’è più di una; ha attaccato due villaggi a due giorni di distanza l’uno dall’altro… ma nella stessa giornata, prima l’uno e poi l’altro. Non è una bestia normale…» disse poi uno, e il paesano che aveva già parlato agitò una mano, divertito.
«Avrà volato, no!? Sicuramente era un drago del grano troppo cresciuto, magari nero, ma è impossibile che due villaggi sono stati distrutti! È assurdo» sentenziò.
I mercanti si strinsero nelle spalle e, dato che nessuno era più disposto ad ascoltare quelle storie, si dedicarono a togliere la loro mercanzia dagli imballaggi di stoffa, sistemando i carri e i carretti per essere pronti a vendere. Sue si allontanò in fretta, prima che qualcuno potesse notare che era l’unica donna del gruppo, e rifugiatasi fra due botteghe infilò di nuovo lo stiletto nello stivale e controllò le proprie rimpinguate tasche: con un sorriso sollevato notò di avere abbastanza denaro da proseguire il suo viaggio e si allontanò muovendosi fra le case, evitando la via principale; tuttavia, doveva parlare con i mercanti, per cui aggirò la fiera che stavano allestendo sulla strada principale, così che il villaggio potesse guardare con agio la mercanzia, e si diresse direttamente al carro più decorato, che teoricamente avrebbe dovuto essere del capo-carovana.
Bussò timidamente alla porta del vagone, decorata in fiori gialli, rossi e verdi; un uomo le aprì e la squadrò da capo a piedi, senza capire se fosse un ragazzo o una ragazza: dall’abbigliamento dovette decidere che era un maschio, poiché si schiarì la voce e gonfiò il petto, sul quale campeggiava un’enorme e foltissima barba nera, facendogli un cenno con la testa:
«Sei tu che hai bussato, giovanotto?».
«Sono una ragazza» puntualizzò subito Sue, e non gli diede tempo di ribattere alla cosa che chiese: «Dove siete diretti?».
«…dove sono i tuoi genitori? O tuo marito?» chiese lui, senza risponderle, e lei strinse i pugni, battendo un piede a terra per la rabbia; una ciocca le sfuggì da sotto il fazzoletto di stoffa che aveva sul capo, troppo liscia per rimanere con le compagne, e l’uomo grande e grosso arretrò con gli occhi spalancati. «Ehy, senti, non farmi sortilegi o cose simili, credevo fossi normale!».
«Io sono normale!» ringhiò la ragazza. «Dove siete diretti?».
«Verso sud! Ora vattene!» l’omaccione si richiuse dietro la porta e Sue si appoggiò al carro, sistemandosi nuovamente i capelli; se li guardò avvilita, lunghi su una spalla: le piacevano molto, erano di un blu profondo e pieno di mille riflessi, ma il resto del mondo non sembrava pensarla allo stesso modo. Si sistemò nuovamente il foulard sulla testa, sospirando: lei si stava dirigendo a nord o al massimo a nord-est, per cui, nonostante avesse sperato di accorparsi alla carovana, non le restava che proseguire da sola… con tutti i rischi che ciò comportava.
 
~ ~ ~ ~ ~ ~ ~
 
tramonto del 25 Aeda 684 d.C.
Quando si fermò per bivaccare, il sole stava tramontando e lei aveva trovato rifugio in un boschetto rachitico in mezzo ai campi coltivati a grano, poco distante dalla strada che stava seguendo.
Non accese alcun fuoco: era stata una giornata calda e l’afa, di sera, non era affatto migliorata… ma almeno si stava alzando della brezza fresca, e lei intendeva godersela senza il disturbo del calore delle fiamme. Inoltre la luce avrebbe attirato probabilmente compagnie indesiderate… umane, ovviamente.
Non era la prima volta che dormiva all’aperto, ma come sempre la cosa che più le incuteva timore l’assenza di luce elettrica in tutto il mondo: l’oscurità di notte era infatti totale, anche se il cielo stellato era qualcosa di straordinario.
In silenzio assoluto, Sue consumò la sua cena: un pesciolino salato ed una carota, conservando il resto per altri grami pasti come quello; il suo stomaco come al solito brontolò, insoddisfatto, ma lei decise di ignorarlo come sempre e si raggomitolò attorno alla borsa, addormentandosi di botto e senza pensare ad eventuali nemici o animali selvatici che potessero disturbarla.
 
   
 
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