6.
Well, there's a light in your eye that keeps shining.
Louisville, 25 Aprile
1977
Blu. Rosso. Un giallo
morente, dentro.
Dietro le case di legno e
le criniere annodate dei cavalli di Louisville, il sole si veste di un
ventaglio di tramonto e nuvole.
Kentucky,
you are the dearest land outside of Heaven to me, cantavano
Don e Phil. Niente di
più vero,
niente di più profondo, mentre le nuvole
s’inghiottono il sole. Ed io con lui.
Le mie dita ruotano meccaniche, calde contro il freddo pungente del
cucchiaino
argentato, immerso per metà nel mio tè. La
città sembra pregna del profumo di
bourbon fin dentro l’anima delle travi di legno e dei tetti
scorticati dall’umidità
dell’inverno. È un odore così intenso
da poterne avvertire le gocce sulla punta
della lingua, ma è un’illusione che mi lascia
assetato. Così, avvicino la tazza
alle labbra, scottandomi un po’, soffiando piano creando
anelli sulla
superficie color ambra del tè. Poi, un brivido di freddo, io
che mi stringo
dentro la giacca di lana, infilando in naso nel collo voluminoso.
Nell’aria il
profumo della pioggia.
- Sei in ritardo.
Sorride e sembra il suono
del cristallo infranto.
- Ho avuto da fare. –
risponde tranquilla, il rumore delle lenzuola che si schiacciano sotto
il suo
peso.
- La solita scusa. –
rimbecco io, bevendo piano, scaldandomi.
- Come stai? – chiede,
premurosa.
Sospiro, facendo
tintinnare la tazza contro il piattino.
- Me lo chiedi da una
settimana, Grace. – sbuffo – E la risposta
è la medesima: lasciami in pace. –
concludo acido, chiudendo le palpebre, gli occhi così pieni
di tramonto che
ormai vedono in negativo.
- Ho deciso. – dice improvvisamente,
dura, sicura, così ferma che mi volto a guardarla, una mia
mano ossuta che si
stringe attorno al calore della tazza.
- Cosa? – chiedo,
tentando di mascherare l’impazienza.
- D’ora in poi voglio
darti le risposte che cerchi. – dice, stendendosi su un
fianco e guardandomi
intimidita, le sue scarpette che grattano una contro l’altra,
i suoi occhi così
azzurri da sembrare il cielo nascosto appena dietro il tramonto.
Cercando un equilibrio
più interiore che fisico, prendo a muovere i piedi, per poi
sedermi sul
materasso, di fianco a lei, con la solita attenzione a non sfiorarla
nemmeno
con un dito.
- Sei sicura di averle
tutte? – chiedo severo, i miei occhi che, specchiandosi nei
suoi, somigliano a
buchi neri, mentre la prima delle tante risposte che cerco tarda ad
arrivare.
Poi socchiude le labbra, come ad aver colto un senso che poteva trovare
solo
leggendo nei meandri della mia mente, si guarda intorno e accenna un
flebile
“sì”, la voce di una sposa certa del
proprio amore, ma diffidente dell’uomo che
ha accanto.
- Però devi farmi una
promessa. – sussurra, evitando il mio sguardo.
- Quale? – chiedo,
confuso.
- Che sarai forte,
qualsiasi cosa accada. – dice come spinta da un moto di
commozione – Che le tue
mani non abbandoneranno mai la Musica e che tornerai a splendere come
un tempo.
Promettimi di provarci, James.
Mi ritrovo a deglutire,
la lingua ancora pregna del sapore del te, adesso è secca e
amara come se
avessi bevuto cianuro.
- Cosa ti fa pensare che
io possa fare qualcosa del genere? – chiedo stizzito
– Lasciare la Musica? È …
è la mia vita, Grace!
- E intanto non ti
accorgi che quest’ultima la stai lasciando dietro un muro di
onnipotenza che ti
stai costruendo credendo che possa sorreggerti, ma non è
così, James. –
sussurra, i suoi occhi che vanno da un lato all’altro dei
miei - È solo
un’illusione.
Sorrido, sarcastico. Mi
alzo in piedi, abbandonando la mia tazza ormai fredda sul comodino di
fianco al
letto, sorvolando sulle gambe di Grace che rimangono composte, non un
accenno a
socchiudersi, nessun invito ad avvicinarsi.
- A proposito. – dico,
passandomi un dito sulle labbra – Da quando ti ho conosciuta
non faccio altro
che ripetermelo. – continuo, scattando in avanti, il mio
corpo che in pochi
secondi sovrasta il suo, le mie mani ai lati della sua testa
– E se fossi tu
un’illusione?
Deglutisce, il suo corpo
è immobile. Trattiene il respiro, poiché non ne
sento le onde infrangersi sulle
mie guance.
- In cuor tuo. –
sussurra, la voce che trema – Spera che io non lo sia.
- Avevi detto che avresti
risposto. – ringhio, accennando a schiacciare il mio corpo
contro il suo, ma
basta il suo sguardo indifeso a fermarmi.
- L’ho fatto. – trema,
come se la morte la stesse schiacciando contro il letto. Mi mordo le
labbra,
spazientito, per poi abbandonarla tra le lenzuola, il suo vestito
intatto, il
suo volto che poco a poco si distende. Le do le spalle, cercando di non
cadere
di nuovo in preda alla rabbia.
- Perché non provi a
fidarti di me? – chiede all’improvviso.
Mi stringo tra le braccia,
trascinandomi di fronte alla finestra e contemplando il suo riflesso e
il mio.
- Mi basterebbe sapere
chi sei. – sussurro, chiudendo gli occhi – Sentire
che non ho nulla da temere.
Vieni qui, bussi alla mia porta, ad ogni concerto e poi? Finiamo per
parlare.
Di me, qualche volta di te. Ma io non so niente di te. Non so chi sei,
Grace.
Sospira, alzandosi dal
letto e raggiungendomi vicino alla finestra, alla mia destra, le
braccia
incrociate al petto.
- Sei innamorata? –
chiedo, d’istinto, giusto per strapparle qualcosa di bocca.
- No. – dice, col solito
tono fermo che usa per non essere contraddetta – Io amo,
è diverso.
Arriccio le labbra, in un
sorriso sarcastico.
- Che differenza c’è?
–
chiedo, continuando a ghignare.
- Chi s’innamora ha a che
fare con qualcosa di precario. – sussurra, guardandosi le
unghie – Oscilla in
continuazione tra l’egoismo di un’ossessione e
l’amore vero.
- E cosa ti fa cadere
dalla parte dell’amore? – chiedo
d’istinto, interrompendo il suo discorso,
avvolto da una strana quanto impaziente curiosità.
Sospira di nuovo,
sorridendo malinconicamente, rivolgendomi occhi che non sono stati mai
così
nostalgici, così lontani, immersi in qualche strano ricordo.
Sembra quasi che
voglia farmi ricordare qualcosa che abbiamo vissuto insieme, forse in
un’altra
vita, ma che non riesco ad afferrare.
- Donarsi. – confessa,
roca – Senza pretese. Chi s’innamora vuol sempre
qualcosa in cambio. Chi ama
perderebbe tutto, anche se stesso, per l’altro. –
conclude, con un’intensità
che mi fa tremare come un adolescente di fronte alla prima ragazza, al
primo
sfiorarsi di labbra, al primo amore.
- E tu … - tento di
parlare, ma il mio è un balbettare frenetico.
- Io ti seguo, Jimmy. –
dice sottovoce, gli occhi che brillano nella penombra della stanza
ormai avvolta
dalla sera – Perché senza di te non so dove
andare. Perché per te ho perso
tutto, James.
Aggrotto la fronte, le
idee che si mescolano come colori sulla tela della mia mente componendo
un
quadro astratto di cui non conosco ancora l’interpretazione.
Poi, un brivido mi
taglia la schiena e subito dopo un tuono, in lontananza, riecheggia nel
silenzio. Un freddo pungente si fa strada sulla pelle che veste la
spina
dorsale, mentre lei abbassa lo sguardo, dandomi le spalle e avviandosi
verso la
porta.
- Fa … - le labbra che
tremano, gelate – Fa freddo quando sei qui.
Silenzio, i suoi
lineamenti sconosciuti, inghiottiti dal buio della sua stanza.
Solo la sua voce.
- È perché non posso
abbracciarti, Jimmy.
Poi il buio viene
squarciato dalla luce del corridoio, la porta che si apre facendo
uscire
l’ombra di Grace, io che la inseguo fin sopra
l’uscio, in tempo per fermarla a
metà del suo tragitto.
- Puoi farlo, Grace. –
dico, affannato, rivolgendomi alle sue spalle ricoperte
dall’oro dei suoi
capelli.
- No. – afferma aspra,
stringendo i pugni, ma senza voltarsi - È il prezzo da
pagare.
- Cosa? – sussurro, per
poi ripeterlo ad alta voce – Per cosa Grace?
- Jimmy.
Mi volto di scatto, in
tempo per vedere Robert arrivare dal lato opposto del corridoio.
- Con chi parli? – e alla
sua domanda mi giro ancora, trovando il vuoto nel punto in cui poco
prima c’era
Grace, scomparsa, come se niente fosse, come se non …
- Hey. Ci sei? –
insiste, vedendo che non lo sto
considerando, una sua mano sulla mia spalla.
- Parlavo con Grace. –
confesso – Ma è andata via.
- Hmm. – esclama, le
labbra che protendono in avanti mentre mi guarda dubbioso -
È tutto ok, Jim?
Annuisco, occhi ben fermi
dentro i suoi: - Mi cercavi?
- Sì. – dice, iniziando a
frugare nelle tasche dei pantaloni, io che entro nella mia stanza,
tornando di
fronte alla finestra, passando con lo sguardo dai lampioni, che
spuntano come
candele tra i tetti, al cielo coperto sulla mia testa, la pioggia che
prende a
scendere giù. Robert parla, ma non lo sento. Chiudo gli
occhi e ripenso alle
parole di Grace.
Cosa ha perso per me?
E se è lei a seguirmi, dov’è che
dobbiamo andare, quando nemmeno io so quale sia il punto
d’arrivo del nostro
folle viaggio?
- Jimmy, mi ascolti? – la
voce di Robert taglia il filo dei miei pensieri e voltandomi vedo che
è seduto
sulla poltrona di fronte al letto. Ha anche acceso
l’abat-jour, ma non me ne
sono accorto. Richiudo di nuovo gli occhi.
Lei è di New
York, mi dico,
forse è lì che deve tornare.
- Robert, sai per caso
quando saremo a New York? – chiedo, come illuminato.
- Tra più di un mese,
amico. – dice, aggrottando la fronte – Ma cosa
centra con la canzone?
- Quale canzone? –
chiedo, confuso, mentre lui spalanca la bocca.
- Jimmy è da mezz’ora che
te ne parlo. – sussurra, deluso, stringendo tra le mani un
foglietto malridotto
e sventolandolo per farmelo vedere – Ma a quanto ho capito
non te ne frega un
cazzo. – sbotta poi, buttando a terra il foglietto e
alzandosi per uscire dalla
stanza.
Io rimango immobile, la
porta che sbatte violentemente ma senza interferire nel mio stato di
trance,
gli occhi immobili sul pezzetto di carta abbandonato sul pavimento, un
racconto
di Grace che sembra lontano, inarrivabile.
Bloomington, Minnesota,
12 Aprile
1977
- Tu sai cosa mi
è successo, vero?
Annuisce, le dita che
giocherellano con dei fili
d’erba, il suo respiro calmo come lo scorrere Minnesota. Una
luna malinconica
si riflette sulla superficie.
- Eri sul palco quando
ti sei sentito male.
Aggrotto la fronte.
- Ti sbagli, ero nello
spogliatoio.
Prende fiato, mi
guarda.
- Sicuro?
Interrogo la mia
memoria, ma resta muta.
- Visto? –
sospira.
Lancio una pietra
nell’acqua, un tonfo così secco
da fare un buco che non solleva gocce.
- Ti manca New York?
– chiedo, stringendomi le
gambe al petto con le braccia e inclinando la testa da un lato.
- Sì.
– sorride con la solita malinconia – Mi
manca andare in Morton Street Pier, stendermi su una panchina cotta dal
sole e
con le gambe penzoloni, mentre una scolaresca passa di fronte allo
Hudson
River. – racconta, portandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
- Lavori da quelle
parti? – chiedo, preso dal
momento raro in cui lei è pronta a raccontarsi.
- Non esattamente.
– risponde, ma con l’imbarazzo
tipico di chi vuol cambiare argomento. Così, per tenerezza,
l’assecondo.
-Non mi hai ancora
detto che lavoro fai, però.
- Lavoro in una
caffetteria. – sorride, sollevata
– A qualche isolato dal Battery Park. – aggiunge,
cambiando poi improvvisamente
discorso – Non dimenticherò mai
l’apertura del World Trade Center. – esclama
con occhi sognanti.
- Ma. –
sussurro, aggrottando la fronte - È stato
quattro anni fa, se non ricordo male. – puntualizzo,
guardandola stralunato,
lei che invece sembra essere impallidita, anche se non saprei dirlo con
certezza con la poca luce che ci circonda.
-Sì.
– la voce che trema – Ma è stato
indimenticabile.
Mi soffermo ad
osservarla, i suoi denti che
mordicchiano il labbro inferiore, il suo imbarazzo che è
evidente come quello
di una bambina che ha appena detto qualcosa di stupido. Sottovoce,
prendo a
ridere, per poi sospirare a pieni polmoni.
- Ah, Grace.
– dico, stendendomi tra l’erba –
Sembri la nevicata di Miami. Insolita!
Alla mia affermazione,
si volta a guardarmi,
dubbiosa.
- Che
c’è? – chiedo.
- Non ha mai nevicato a
Miami.
- Su questo ti sbagli,
ragazzina! – esclamo,
mettendomi a sedere - È successo a Gennaio, poco dopo il mio
compleanno. –
dico, l’intenzione di suscitare qualcosa nella sua memoria,
ma la sua
espressione è sempre più persa – I
giornali ne hanno parlato per giorni, Grace!
Dicevano che potrebbe essere l’unica nevicata che Miami abbia
visto in vita
sua.
Silenzio, il suo capo
che si abbassa. Le dita che
stringono la gonna.
- Non me lo ricordo,
Jimmy.
Piegandosi, le mie
ginocchia schioccano sinistre. Con mano tremante, raccolgo il pezzetto
di carta
abbandonato da Robert, leggendo a bassa voce ogni parola scritta in
modo
sgangherato.
Il cuore di Robert che
parla in versi.
And
if you promised you'd love so completely
and you said
you would always be true,
You swore that
you would never leave me, baby:
What ever
happened to you?
And you
thought it was only in movies
As you wish
all your dreams would come true.
It ain't the
first time, believe me, baby
I'm standin
here, feeling blue.
Yeah, I'm blue.
Un nodo alla gola.
La mia mancanza d’attenzione.
Le promesse infrante.
Tutto nelle poche parole
di una canzone.
- Che sto facendo? –
sussurro, sedendomi a terra, la schiena contro il materasso. Di fronte
a me, il
mio riflesso dentro lo specchio dell’armadio. Una mano tra i
capelli, l’altra
chiusa a pugno sul cuore.
- Che sto facendo?
Angolo della pazza:
Salve! :3
Sono viva, zì!
Ok, dopo le mani impossibilitate a fare qualsiasi cosa, torno a scrivere. *^*
Sì, più o meno. Sto capitolo è stato un parto e non so nemmeno quanto ne sia valsa la pena sforzarsi, perché magari non ho reso nemmeno l'idea che avevo in mente, e cioè di rendere più nitido il quadro di Grace. Ci sono dettagli che dovrebbero aiutarvi a capire (qualcuno lo ha già fatto ^^'), però non voglio svelarvi nulla e, ovviamente, qualsiasi supposizione avanzerete, negherò fino alla morte. ♥
Ci si becca al prossimo aggiornamento!
Un abbraccio,
Franny