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Autore: DK in a Madow    09/03/2014    3 recensioni
[Completa!]
...mi obbligo a guardare il cielo ormai buio sotto il manto della notte, ricacciando indietro le lacrime che spingono tra le ciglia. Non un bagliore, nessun segno, solo un grande buco nero sopra le nostre teste.
Il cielo delle città non ha stelle.

*
- Ah sì? – chiedo, ostentando una sicurezza che non posseggo solo per non mostrarmi vile di fronte alla sua sfacciataggine – Ma tu chi sei?
Abbassa la testa, come presa alla sprovvista, le sue mani che afferrano la gonna del vestito stringendola nervosamente. Poi i suoi occhi tornano sui miei, così vivi, così irreali.
- Grace. – risponde in un soffio.
Accenno a un sorriso senza denti, le labbra serrate che danno forma ad un ghigno.
- Strano. – dico, dando un tiro alla mia sigaretta – Da come parli si direbbe il contrario.

*
Imparare a vedere con gli occhi del cuore e scoprire che la paura d'amare è grande quanto quella di morire, così forte da impazzire, ma capace di farti rinascere.
Una breve long nata quasi dal nulla e che è cresciuta tra le note di The Rain Song.
Come sempre, nessuna pretesa.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jimmy Page, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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6.

Well, there's a light in your eye that keeps shining.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Louisville, 25 Aprile 1977

 

Blu. Rosso. Un giallo morente, dentro.

Dietro le case di legno e le criniere annodate dei cavalli di Louisville, il sole si veste di un ventaglio di tramonto e nuvole.

Kentucky, you are the dearest land outside of Heaven to me, cantavano Don e Phil. Niente di più vero, niente di più profondo, mentre le nuvole s’inghiottono il sole. Ed io con lui. Le mie dita ruotano meccaniche, calde contro il freddo pungente del cucchiaino argentato, immerso per metà nel mio tè. La città sembra pregna del profumo di bourbon fin dentro l’anima delle travi di legno e dei tetti scorticati dall’umidità dell’inverno. È un odore così intenso da poterne avvertire le gocce sulla punta della lingua, ma è un’illusione che mi lascia assetato. Così, avvicino la tazza alle labbra, scottandomi un po’, soffiando piano creando anelli sulla superficie color ambra del tè. Poi, un brivido di freddo, io che mi stringo dentro la giacca di lana, infilando in naso nel collo voluminoso. Nell’aria il profumo della pioggia.

- Sei in ritardo.

Sorride e sembra il suono del cristallo infranto.

- Ho avuto da fare. – risponde tranquilla, il rumore delle lenzuola che si schiacciano sotto il suo peso.

- La solita scusa. – rimbecco io, bevendo piano, scaldandomi.

- Come stai? – chiede, premurosa.

Sospiro, facendo tintinnare la tazza contro il piattino.

- Me lo chiedi da una settimana, Grace. – sbuffo – E la risposta è la medesima: lasciami in pace. – concludo acido, chiudendo le palpebre, gli occhi così pieni di tramonto che ormai vedono in negativo.

- Ho deciso. – dice improvvisamente, dura, sicura, così ferma che mi volto a guardarla, una mia mano ossuta che si stringe attorno al calore della tazza.

- Cosa? – chiedo, tentando di mascherare l’impazienza.

- D’ora in poi voglio darti le risposte che cerchi. – dice, stendendosi su un fianco e guardandomi intimidita, le sue scarpette che grattano una contro l’altra, i suoi occhi così azzurri da sembrare il cielo nascosto appena dietro il tramonto.

Cercando un equilibrio più interiore che fisico, prendo a muovere i piedi, per poi sedermi sul materasso, di fianco a lei, con la solita attenzione a non sfiorarla nemmeno con un dito.

- Sei sicura di averle tutte? – chiedo severo, i miei occhi che, specchiandosi nei suoi, somigliano a buchi neri, mentre la prima delle tante risposte che cerco tarda ad arrivare. Poi socchiude le labbra, come ad aver colto un senso che poteva trovare solo leggendo nei meandri della mia mente, si guarda intorno e accenna un flebile “sì”, la voce di una sposa certa del proprio amore, ma diffidente dell’uomo che ha accanto.

- Però devi farmi una promessa. – sussurra, evitando il mio sguardo.

- Quale? – chiedo, confuso.

- Che sarai forte, qualsiasi cosa accada. – dice come spinta da un moto di commozione – Che le tue mani non abbandoneranno mai la Musica e che tornerai a splendere come un tempo. Promettimi di provarci, James.

Mi ritrovo a deglutire, la lingua ancora pregna del sapore del te, adesso è secca e amara come se avessi bevuto cianuro.

- Cosa ti fa pensare che io possa fare qualcosa del genere? – chiedo stizzito – Lasciare la Musica? È … è la mia vita, Grace!

- E intanto non ti accorgi che quest’ultima la stai lasciando dietro un muro di onnipotenza che ti stai costruendo credendo che possa sorreggerti, ma non è così, James. – sussurra, i suoi occhi che vanno da un lato all’altro dei miei - È solo un’illusione.

Sorrido, sarcastico. Mi alzo in piedi, abbandonando la mia tazza ormai fredda sul comodino di fianco al letto, sorvolando sulle gambe di Grace che rimangono composte, non un accenno a socchiudersi, nessun invito ad avvicinarsi.

- A proposito. – dico, passandomi un dito sulle labbra – Da quando ti ho conosciuta non faccio altro che ripetermelo. – continuo, scattando in avanti, il mio corpo che in pochi secondi sovrasta il suo, le mie mani ai lati della sua testa – E se fossi tu un’illusione?

Deglutisce, il suo corpo è immobile. Trattiene il respiro, poiché non ne sento le onde infrangersi sulle mie guance.

- In cuor tuo. – sussurra, la voce che trema – Spera che io non lo sia.

- Avevi detto che avresti risposto. – ringhio, accennando a schiacciare il mio corpo contro il suo, ma basta il suo sguardo indifeso a fermarmi.

- L’ho fatto. – trema, come se la morte la stesse schiacciando contro il letto. Mi mordo le labbra, spazientito, per poi abbandonarla tra le lenzuola, il suo vestito intatto, il suo volto che poco a poco si distende. Le do le spalle, cercando di non cadere di nuovo in preda alla rabbia.

- Perché non provi a fidarti di me? – chiede all’improvviso.

Mi stringo tra le braccia, trascinandomi di fronte alla finestra e contemplando il suo riflesso e il mio.

- Mi basterebbe sapere chi sei. – sussurro, chiudendo gli occhi – Sentire che non ho nulla da temere. Vieni qui, bussi alla mia porta, ad ogni concerto e poi? Finiamo per parlare. Di me, qualche volta di te. Ma io non so niente di te. Non so chi sei, Grace.

Sospira, alzandosi dal letto e raggiungendomi vicino alla finestra, alla mia destra, le braccia incrociate al petto.

- Sei innamorata? – chiedo, d’istinto, giusto per strapparle qualcosa di bocca.

- No. – dice, col solito tono fermo che usa per non essere contraddetta – Io amo, è diverso.

Arriccio le labbra, in un sorriso sarcastico.

- Che differenza c’è? – chiedo, continuando a ghignare.

- Chi s’innamora ha a che fare con qualcosa di precario. – sussurra, guardandosi le unghie – Oscilla in continuazione tra l’egoismo di un’ossessione e l’amore vero.

- E cosa ti fa cadere dalla parte dell’amore? – chiedo d’istinto, interrompendo il suo discorso, avvolto da una strana quanto impaziente curiosità.

Sospira di nuovo, sorridendo malinconicamente, rivolgendomi occhi che non sono stati mai così nostalgici, così lontani, immersi in qualche strano ricordo. Sembra quasi che voglia farmi ricordare qualcosa che abbiamo vissuto insieme, forse in un’altra vita, ma che non riesco ad afferrare.

- Donarsi. – confessa, roca – Senza pretese. Chi s’innamora vuol sempre qualcosa in cambio. Chi ama perderebbe tutto, anche se stesso, per l’altro. – conclude, con un’intensità che mi fa tremare come un adolescente di fronte alla prima ragazza, al primo sfiorarsi di labbra, al primo amore.

- E tu … - tento di parlare, ma il mio è un balbettare frenetico.

- Io ti seguo, Jimmy. – dice sottovoce, gli occhi che brillano nella penombra della stanza ormai avvolta dalla sera – Perché senza di te non so dove andare. Perché per te ho perso tutto, James.

Aggrotto la fronte, le idee che si mescolano come colori sulla tela della mia mente componendo un quadro astratto di cui non conosco ancora l’interpretazione. Poi, un brivido mi taglia la schiena e subito dopo un tuono, in lontananza, riecheggia nel silenzio. Un freddo pungente si fa strada sulla pelle che veste la spina dorsale, mentre lei abbassa lo sguardo, dandomi le spalle e avviandosi verso la porta.

- Fa … - le labbra che tremano, gelate – Fa freddo quando sei qui.

Silenzio, i suoi lineamenti sconosciuti, inghiottiti dal buio della sua stanza.

Solo la sua voce.

- È perché non posso abbracciarti, Jimmy.

Poi il buio viene squarciato dalla luce del corridoio, la porta che si apre facendo uscire l’ombra di Grace, io che la inseguo fin sopra l’uscio, in tempo per fermarla a metà del suo tragitto.

- Puoi farlo, Grace. – dico, affannato, rivolgendomi alle sue spalle ricoperte dall’oro dei suoi capelli.

- No. – afferma aspra, stringendo i pugni, ma senza voltarsi - È il prezzo da pagare.

- Cosa? – sussurro, per poi ripeterlo ad alta voce – Per cosa Grace?

- Jimmy.

Mi volto di scatto, in tempo per vedere Robert arrivare dal lato opposto del corridoio.

- Con chi parli? – e alla sua domanda mi giro ancora, trovando il vuoto nel punto in cui poco prima c’era Grace, scomparsa, come se niente fosse, come se non …

- Hey. Ci sei? – insiste, vedendo che non lo sto considerando, una sua mano sulla mia spalla.

- Parlavo con Grace. – confesso – Ma è andata via.

- Hmm. – esclama, le labbra che protendono in avanti mentre mi guarda dubbioso - È tutto ok, Jim?

Annuisco, occhi ben fermi dentro i suoi: - Mi cercavi?

- Sì. – dice, iniziando a frugare nelle tasche dei pantaloni, io che entro nella mia stanza, tornando di fronte alla finestra, passando con lo sguardo dai lampioni, che spuntano come candele tra i tetti, al cielo coperto sulla mia testa, la pioggia che prende a scendere giù. Robert parla, ma non lo sento. Chiudo gli occhi e ripenso alle parole di Grace.

Cosa ha perso per me? E se è lei a seguirmi, dov’è che dobbiamo andare, quando nemmeno io so quale sia il punto d’arrivo del nostro folle viaggio?

- Jimmy, mi ascolti? – la voce di Robert taglia il filo dei miei pensieri e voltandomi vedo che è seduto sulla poltrona di fronte al letto. Ha anche acceso l’abat-jour, ma non me ne sono accorto. Richiudo di nuovo gli occhi.

Lei è di New York, mi dico, forse è lì che deve tornare.

- Robert, sai per caso quando saremo a New York? – chiedo, come illuminato.

- Tra più di un mese, amico. – dice, aggrottando la fronte – Ma cosa centra con la canzone?

- Quale canzone? – chiedo, confuso, mentre lui spalanca la bocca.

- Jimmy è da mezz’ora che te ne parlo. – sussurra, deluso, stringendo tra le mani un foglietto malridotto e sventolandolo per farmelo vedere – Ma a quanto ho capito non te ne frega un cazzo. – sbotta poi, buttando a terra il foglietto e alzandosi per uscire dalla stanza.

Io rimango immobile, la porta che sbatte violentemente ma senza interferire nel mio stato di trance, gli occhi immobili sul pezzetto di carta abbandonato sul pavimento, un racconto di Grace che sembra lontano, inarrivabile.

 

 

 

Bloomington, Minnesota, 12 Aprile 1977

 

- Tu sai cosa mi è successo, vero?

Annuisce, le dita che giocherellano con dei fili d’erba, il suo respiro calmo come lo scorrere Minnesota. Una luna malinconica si riflette sulla superficie.

- Eri sul palco quando ti sei sentito male.

Aggrotto la fronte.

- Ti sbagli, ero nello spogliatoio.

Prende fiato, mi guarda.

- Sicuro?

Interrogo la mia memoria, ma resta muta.

- Visto? – sospira.

Lancio una pietra nell’acqua, un tonfo così secco da fare un buco che non solleva gocce.

- Ti manca New York? – chiedo, stringendomi le gambe al petto con le braccia e inclinando la testa da un lato.

- Sì. – sorride con la solita malinconia – Mi manca andare in Morton Street Pier, stendermi su una panchina cotta dal sole e con le gambe penzoloni, mentre una scolaresca passa di fronte allo Hudson River. – racconta, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

- Lavori da quelle parti? – chiedo, preso dal momento raro in cui lei è pronta a raccontarsi.

- Non esattamente. – risponde, ma con l’imbarazzo tipico di chi vuol cambiare argomento. Così, per tenerezza, l’assecondo.

-Non mi hai ancora detto che lavoro fai, però.

- Lavoro in una caffetteria. – sorride, sollevata – A qualche isolato dal Battery Park. – aggiunge, cambiando poi improvvisamente discorso – Non dimenticherò mai l’apertura del World Trade Center. – esclama con occhi sognanti.

- Ma. – sussurro, aggrottando la fronte - È stato quattro anni fa, se non ricordo male. – puntualizzo, guardandola stralunato, lei che invece sembra essere impallidita, anche se non saprei dirlo con certezza con la poca luce che ci circonda.

-Sì. – la voce che trema – Ma è stato indimenticabile.

Mi soffermo ad osservarla, i suoi denti che mordicchiano il labbro inferiore, il suo imbarazzo che è evidente come quello di una bambina che ha appena detto qualcosa di stupido. Sottovoce, prendo a ridere, per poi sospirare a pieni polmoni.

- Ah, Grace. – dico, stendendomi tra l’erba – Sembri la nevicata di Miami. Insolita!

Alla mia affermazione, si volta a guardarmi, dubbiosa.

- Che c’è? – chiedo.

- Non ha mai nevicato a Miami.

- Su questo ti sbagli, ragazzina! – esclamo, mettendomi a sedere - È successo a Gennaio, poco dopo il mio compleanno. – dico, l’intenzione di suscitare qualcosa nella sua memoria, ma la sua espressione è sempre più persa – I giornali ne hanno parlato per giorni, Grace! Dicevano che potrebbe essere l’unica nevicata che Miami abbia visto in vita sua.

Silenzio, il suo capo che si abbassa. Le dita che stringono la gonna.

- Non me lo ricordo, Jimmy.

 

 

 

Piegandosi, le mie ginocchia schioccano sinistre. Con mano tremante, raccolgo il pezzetto di carta abbandonato da Robert, leggendo a bassa voce ogni parola scritta in modo sgangherato.

Il cuore di Robert che parla in versi.

 

 

And if you promised you'd love so completely
and you said you would always be true,
You swore that you would never leave me, baby:
What ever happened to you?

And you thought it was only in movies
As you wish all your dreams would come true.
It ain't the first time, believe me, baby
I'm standin here, feeling blue.
Yeah, I'm blue.

 

Un nodo alla gola.

La mia mancanza d’attenzione.

Le promesse infrante.

Tutto nelle poche parole di una canzone.

- Che sto facendo? – sussurro, sedendomi a terra, la schiena contro il materasso. Di fronte a me, il mio riflesso dentro lo specchio dell’armadio. Una mano tra i capelli, l’altra chiusa a pugno sul cuore.

- Che sto facendo?






















Angolo della pazza:
Salve! :3
Sono viva, zì!
Ok, dopo le mani impossibilitate a fare qualsiasi cosa, torno a scrivere. *^*
Sì, più o meno. Sto capitolo è stato un parto e non so nemmeno quanto ne sia valsa la pena sforzarsi, perché magari non ho reso nemmeno l'idea che avevo in mente, e cioè di rendere più nitido il quadro di Grace. Ci sono dettagli che dovrebbero aiutarvi a capire (qualcuno lo ha già fatto ^^'), però non voglio svelarvi nulla e, ovviamente, qualsiasi supposizione avanzerete, negherò fino alla morte. ♥
Ci si becca al prossimo aggiornamento!
Un abbraccio,

Franny

   
 
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