Il parco di villa Dorthwood
vantava, nel piccolo villaggio, il più grande e variegato giardino che si fosse
mai visto da secoli. Gli antenati dei signori Dorthwood
avevano partecipato, poco dopo la Mayflower, ad una
spedizione di Puritani nella terra di Cristoforo Colombo e per primi avevano
portato in Inghilterra delle specie così magnificamente sconosciute da lasciare
a bocca aperta i più insigni studiosi di botanica dei paesotti
vicini. Fiori colorati, con corolle ampie e dall’aspetto succoso, pendevano
dagli alberi da frutto, sui quali i primi accenni di primavera producevano
effetti così delicati e teneri che tutti, passando fuori all’enorme cancellata,
sapevano che la primavera doveva esser giunta e che a breve la terra avrebbe
dato copiosi frutti. Il cielo era immobile come una leggera cappa di cotone
sulle spalle di un cavaliere senza macchia e a tratti si scorgevano, dal
porticato della casa, fili sottili di nuvole bianche, come la trama di una
stoffa pregiata che, rivoltata, mostra tutte le cuciture che fanno del suo il
più pregiato degli arazzi. E, come in un complicato arazzo olandese, di quelli
che i signori Dorthwood conservavano da generazioni
nella grande sala da pranzo, figure nitide di uccellini cinguettanti e lontane
ombre all’orizzonte gli davano l’effetto di immensa profondità, così azzurrino
nei suoi tratti che il signor proprietario lo fissava perduto, con una mano nel
taschino del panciotto e un prezioso monocolo a fargli da schermo. I suoi passi
lenti, eco di una vecchiaia trascinata e placidamente attesa una vita,
risonavano tranquilli sulla terra battuta di uno dei sentieri secondari e il
fruscio delle foglie, mosse dal vento inglese che, come si sa, non risparmia
quella terra nemmeno nei mesi più soleggiati, assumeva ai suoi orecchi melodie
ipnoticamente piacevoli. Il sole, che gli andava dritto negli occhi, dopo un
po’ lo costrinse ad abbassare docilmente lo sguardo verso la strada, facendogli
ondeggiare il cappello sul capo e rallentare il passo già di per sé rilassato.
Una nuova stagione arrivava, annunciandosi con le sue brezze aromatiche, con
accomodanti ambasciatori a precederla: gli alberi di pesco, che dal cancello
principale non erano visibili perché inoltrati nel piccolo boschetto,
rivelavano timidi i primi germogli e Dorthwood se ne rallegrò tanto,perché era una gran fatica
curare alberi di quel genere in un paese come l’Inghilterra. Il signor Harold era uno scienziato, un uomo
di sapienza e rettitudine che aveva dedicato un’intera vita ai suoi volumi di
chimica, scienze naturali, fisica, matematica e, non per ultima, astronomia.
Aveva disposto ogni dettaglio della sua vita in modo che il quadro risultante
potesse accogliere quante più sfumature delle scienze possibili. In giovinezza
aveva praticato la professione di medico, dopo aver compiuto gli studi a
Londra, ma al suo carattere tranquillo e riflessivo non si addiceva per niente
quell’occupazione, tanto meno in un paese di campagna come il suo, tutto
circondato da magioni contadine, dove ogni due un contadino si ammalava di
tubercolosi e bisognava che il medico fosse disponibile a correre in carrozza a
qualsiasi ora del giorno e della notte. D’altronde, una professione gli era pur
stata necessaria, dacché i Dorthwood avevano perso
parte del loro patrimonio con l’andare dei secoli e ora, con le industrie che
crescevano come funghi e i poveri uomini che cadevano in miseria ogni giorno,
anche il loro grande stemma ducale era stato offuscato dalle polveri della
povertà e annerito dall’indigenza e bisognava guadagnarsi di che vivere. La
grande villa, poi, era un’attrattiva troppo squisita per tutta la regione e il
signor Harold aveva preferito mantenerla in vita, assumendosene i costi e le
tasse, e finché aveva potuto era corso notte e giorno in campagna a curare la
tubercolosi dei contadini. A trent’anni, dopo essersi sposato di uno dei
matrimoni più felici che si sian mai visti sulla
faccia della terra, le casse dei Dortwood si erano
fuse con quelle ben più fornite dei lontani signori Bradford
e si era potuto concede il lusso, ormai non più solo in quel grande feudo di
campagna, di tornare a far parte di quella classe che, per diritti di nascita,
non ha bisogno di lavorare. Così si era dedicato con animo entusiasta e attivo
ad ogni branca della scienza che lo interessasse e, grazie alla buona cultura
di sua moglie, quelle fredde mura erano diventate dimora di due spiriti
rigidamente devoti alla cultura e alla sapienza. Aveva un laboratorio che
soleva utilizzare nei giorni invernali ed autunnali, dove conduceva esperimenti
sull’anatomia animale, ma nelle giornate di sole come quelle preferiva scendere
in campo direttamente e toccare con mano le incomprensibili leggi della natura.
Tuttavia, quella mattina, non era per amor del suo giardino che era uscito a
passeggiare, ma per condurre a termine un importante affare in luogo di sua
moglie Victoria.
Giunto,
infatti, all’ingresso del parco, voltandosi verso l’immane facciata
dell’eredità dei suoi antenati, si chiese per l’ultima volta cosa stesse
facendo sua moglie e sperò in cuor suo che il suo umore fosse della miglior
specie. Un grazioso giovanotto, di una casa editrice londinese che da tempo si
era detta interessata a i lavori della signoraVictoria,
stava proprio fuori sul viottolo e il signor Harold, togliendosi il cappello,
lo salutò con gentilezza, rivolgendogli uno dei suoi sorrisi venusti e
profondamente delicati. Il giovane, che sembrava imbarazzato sotto il suo
pastrano lungo e sbiadito, rispose con un cenno breve.
«Voi dovete essere il signor Dorthwood» disse, togliendosi il cappello nero. Aveva
maniere affettate, ma i suoi occhi azzurri al signor Harold apparvero
sufficientemente sensibili e si augurò che anche Victoria la pensasse così. Era
una donna estremamente percettiva e si accorgeva delle cose dopo una sola
occhiata. Sperò che non avrebbe mandato via anche lui, accusandolo di non
capire i suoi scritti. Era anche terribilmente orgogliosa.
«Molto onorato di conoscervi,
signor Ryan» rispose educatamente. Lo invitò ad entrare, scusandosi per
l’accoglienza poco degna, perché non avevano servitù al contrario di quanto ci
si potesse aspettare e il solo uomo di servizio, il giardiniere, era occupato
con la potatura di alcuni cespugli nell’ala est.
«Mia moglie sarà felice di
ricevervi a breve per il tè» lo informò, mentre passeggiavano in silenzio lungo
il viale principale. Il giovanotto fece di si con la testa, con le mani dietro
la schiena e piccole goccioline di sudore ad imperlargli la fronte, là dove
prima era coperta dal pesante cilindro.
«La primavera sta proprio
arrivando»
Così il signor Harold intavolò
ingenuamente una discussione, invitando il timido interlocutore a godere di
quel sole e a togliersi quel pesante cappotto, senza badare alla convenienze.
Era un uomo molto alla mano e, se il precedenza lo era stato meno, sposare
Victoria lo aveva costretto ad abbandonare qualunque tipo di convenzionalità, per
amor di lei. E, neanche a dirlo, le sue maniere dolcemente persuasive lo
avevano indotto perfino a ridurre la servitù. In paese, i coniugi Dorthwood (o meglio il signor Dortwood
e la signora Bradford, poiché la donna aveva scelto
arbitrariamente di mantenere il suo cognome) erano presi come esempio di
stranezza e bizzarria e non c’era una locanda, un’osteria nella quale ai
forestieri non venissero raccontante curiose storie sul loro conto. Uno
scienziato pazzo e una dispotica poetessa che vivevano arroccati in quel
trascurato Eden settecentesco, con le inferriate arrugginite dal tempo e il titolo
di duca caduto in disuso da decenni. C’era stato anche qualche irriverente
giornalista che, assetato di scandali, aveva attribuito alla signora Victoria innumerevoli
amanti, senza distinzione di sesso, ad accentuarne la gravità del peccato, e
molti poveri sciocchi a quelle dicerie prestavano ascolto. Ciò che di vero
c’era, tuttavia, era che avessero entrambi una gran devozione alla cultura,
alla letteratura e alla filosofia e che, durante le colazioni e i pranzi,
insieme al giardiniere parlassero di sostanza aristotelica o di soggetto
cartesiano, delle Filippiche di Demostene o delle sentenze ciceroniane. Il
fatto, poi, che non si facessero vedere alla cappella del paese da quando si
erano sposati accresceva lo sdegno pubblico, che arrivava ad accusarli di
idolatria verso i loro innumerevoli volumi antichi.
«Si, c’è molta gioia anche in
paese. Il fornaio è stato molto gentile ad indicarmi la strada» replicò il
gentiluomo, distendendo le fini labbra in un sorriso incoraggiante. Teneva in
mano un taccuino e aveva le tasche piene di lettere, che ora facevano capolinea
dal pastrano che aveva rifiutato discretamente di togliersi, in nome dei buoni
costumi.
«Il buon John è da sempre un amico
della mia casa» gli disse. Poi rimase in un religioso silenzio, aspettando che
il giovane rappresentante passasse ai motivi per cui era giunto fin lì, dopo
cinque ore di carrozza. E, difatti, dopo pochi minuti il signor Ryan prese in
mano il discorso.
«Avete scritto qualche tempo fa
alla casa editrice che rappresento, la Scott’s&Co., per richiedere la
pubblicazione del romanzo della signora Dorthwood»
cominciò, sfregandosi le mani. Il signor Harold lo guardò gravemente,
correggendolo:
«La signora Victoria Bradford, vorrete dire»
Il giovanotto, dopo esser rimasto
un po’ interdetto, fece un cenno d’assenso.
«Ebbene, sono qui per ritirare il
manoscritto e fare una piccola intervista all’autrice sua moglie» proseguì, ora
con calma professionale.
«La vostra è la quinta casa
editrice che consultiamo, la signora Victoria vuole essere sicura che la sua
operetta sia apprezzata da chi la pubblica, non vuole limitarsi a spendere una
somma per la sua stampa. La giudica una cosa troppo meschina da fare alla sua
perizia letteraria» raccontò e, frattanto, erano quasi giunti al portico
colonnato della villa, vuoto se non per la presenza di un enorme gattone grigio
e di un ragazzino dall’aria malaticcia.
«Immagino sia il vostro nipotino»
fece il signor Ryan, accennando al ragazzino che ora li guardava con occhi
sbarrati. Richiamò a sé il gatto e scappò, a piedi nudi, nel folto delle siepi
laterali.
«Oh no, lui è Thomas, il figlio
della lavandaia del villaggio. Noi non abbiamo figli e mia moglie ed io gli
diamo lezioni di inglese, scienze e matematiche di tanto in tanto perché non può
permettersi di andare a scuola»
Il cipiglio gentile delle sue
sopracciglia bianche e cespugliose dovette convincere in ultima istanza il
signor Ryan che anche le famiglie più facoltose, di tanto in tanto, possono
esser buone e fare la carità senza essere assidue frequentatrici della
parrocchia. Che coppia strana, dovette pensare. E, in vero, quella era una
coppia curiosa e già dell’abbigliamento dandy del signor Harold forse dovette
intuirlo. Tuttavia, non fece commenti e, sempre con indosso quella maschera di
compita efficienza, entrò il casa salendo gli alti gradini di pietra calcarea.
«Questa casa ha un’architettura
molto raffinata, sembra di un’altra epoca» si arrischiò a complimentarsi il
signor Ryan e Harold annuì, felice, accettando di buon grado.
«Queste fredde mura di pietra non
avrebbero, però, il calore familiare delle cose belle se mia moglie non avesse
provveduto ad arredarle con gusto» disse. E il signor Ryan ebbe prova di quello
squisito gusto di cui era fautrice la signora Victoria quando attraversò il
vestibolo d’ingresso, dalle pareti sufficientemente riempite da tele di
paesaggi campestri dipinti ad acquerello e armoniosamente equilibrate fra di
loro, e quando, ancora dopo, si accomodò nell’intimo salottino, uno dei due che
i signori proprietari utilizzavano dalla vasta gamma di stanze disponibili, di
fronte ad una calda tazza di tè. La signora non c’era, ma aveva accomodato con
previdenza il vassoio sul basso tavolino intarsiato, proprio di fronte al
camino dove si snodava una ricca e minuziosa collezione di ceramiche francesi.
«Starà recuperando il manoscritto
dalla biblioteca. Sapete, questa casa è molto grande e per passare da una
stanza all’altra molte volte ci si mettono interi minuti» e così, tenendolo
quieto, lo invitò a servirsi come se fosse a casa sua, e non in una gigantesca
e fredda magione baronale vecchia di secoli. Il signor Ryan notò con delizia
anche i fini tessuti degli arazzi che erano appesi alle pareti, di cui abbiamo
già fatto menzione, trovando che la loro qualità era così pregiata che i
colori, nonostante il tempo, erano rimasti luminosi come in una giornata
d’estate.
«A sua moglie non dispiacerà se
faccio qualche domanda» riprese, mentre prendeva un sorso di tè. Era molto
aromatizzato, come piaceva ai due coniugi, e per un momento il signor Harold
ebbe paura che il giovane non reggesse quel sapore forte di spezie indiane.
Tuttavia, tornarono a parlare senza impicci.
«Mia moglie adora che le si
facciano domande, è il modo meno esibizionista che ha per esibirsi» lo
accomodò, con una risata profonda.
«Le piace esibirsi?» domandò allora
più irriverente, tirando fuori il taccuino, ormai avvolto da quell’atmosfera di
disarmante sincerità che sembrava caratterizzare il salotto signorile.
«Molto. Ma la sua esibizione non ha
nulla di fittizio, non le piace far commedia né tragedia. Le piace solo che gli
altri assistano al suo grandioso spettacolo esistenziale» gli spiegò, come se
lui avesse capito ogni funzione di quella misteriosa macchina che era la
signora Victoria. Quell’affermazione non fece altro che accrescere l’ardente
curiosità del signor Ryan, che si fece più vicino al tavolino da tè, muovendosi
nervosamente sulla sua poltrona rossa. Che misteriosa dama stava per
incontrare!
«Immagino faccia parte del suo
essere scrittrice» obiettò, sistemandosi meglio il pastrano che si era tolto
sulle ginocchia. Il signor Harold lo guardò un po’ dubbioso, come se le sue
parole fossero state fuori luogo o non ne riuscisse a dedurre il senso. Voleva forse
dire che le scrittrici erano donne della peggior specie? Tutte le donne erano
strane, scrittrici o meno!
«Immagino invece faccia parte del
suo essere Victoria Bradford» alzò le spalle.
«Voi avete l’aria di uno che è
spettatore da una vita» osservò acutamente Ryan.
«Piuttosto, sposandola ho comprato
il biglietto a teatro e, onestamente, non mi sono mai pentito della prima fila
che mi è stata riservata. Mia moglie è una donna deliziosa» replicò, quasi come
orgoglio. La fiamma ardente del suo amore gli riluceva nelle vecchie pupille
come se fosse un giovane che ha appena conosciuto i sentimenti. Il signor Ryan
ebbe modo di giudicare da sé quanto la signora Victoria fosse effettivamente deliziosa,
con i suoi occhi grandi e sempre attivi, che osservavano chi le stava di fronte
con aria di velata superiorità, e il suo viso luminoso, sulla cui bellezza né
gli anni né i dolori personali avevano potuto infierire, le sue ciglia lunghe
che gettavano ombra sul viso di signora e i suoi capelli lunghi e scuri, tenuti
austeramente sulla nuca in un’elaborata crocchia. A guardarla bene, le forme
sottili che componevano il volto e l’incarnato delicatamente rosato avrebbero
suggerito una patria diversa da quella inglese, giacché aveva le guance molto
rosse per esser ancora quasi nel pieno della cattiva stagione e le labbra
irriverenti come quelle di una dama spagnola, a piegarsi nei sorrisi seducenti
di una giovinetta. Tutto questo, pensò con gravità il signor Ryan, doveva esser
sintomo forse che le dicerie in paese erano vere. Eppure, c’era uno spirito
diverso a pungolare dalle sue iridi: imponente tanto da occupare col suo respiro
l’intero salotto, autorevole come una legge e risoluta, come se fosse ben
conscia di ogni suo limite e per questo fosse illimitata. Decisamente, la
signora Victoria aveva una presenza bizzarra e faceva il divertimento di ogni
gentildonna della contea, alle feste o ai balli, a causa dei suoi modi
puntualmente inglesi ma straordinariamente di mondo, coi suoi sguardi accecanti
e le parole che le fluivano di bocca con una perizia veramente poco usuale. Il
signor Dorthwood, non appena fu entrata, abbassò il
capo senza accorgersene e la signora Victoria salutò gli uomini con un superbo
ed elegante inchino. Sorrise loro in modo molto gentile e, accomodata sul
divanetto accanto al marito, si rivolse senza preamboli al signor Ryan,
dicendo:
«Avete tutta l’aria di aver
viaggiato in vettura fin da Londra»
Il giovanotto tossì per l’imbarazzo
di un approccio così diretto, per essere una donna avanti negli anni, ed annuì
con discrezione. Di tutte le donne con manie di indipendenza, carattere fiero e
spirito indomito, la signora Victoria gli suggeriva quel brivido di sconcerto
che si ha di fronte agli affranti ignoti
del mondo. Il signor Harold non fece caso a nulla, rivolgendo uno sguardo
affettuoso alla cara moglie.
«Si, ho fatto le mie ore di
viaggio. Ma sono certo che ne sia valsa la pena» disse, per accattivarsi il
favore di quell’anziana e ,al tempo stesso, giovane donna. Sentiva come se fosse
lui ora quello che doveva convincerla a pubblicare un suo lavoro, tuttavia
aspettò ancora un po’ per giudicare la nuova venuta.
«Questo lo vedremo. Come anche se
sia valsa la pena per me tentar di nuovo con la mia operetta» sorrise la donna.
Quell’autoironia, che spiazzava l’ascoltatore fino a ridurlo (il signor Harold
aveva detto il vero) ad un impotente spettatore, le dava un tocco di
universalità. Ciò che fosse uscito da quella bocca così imparziale doveva
essere necessariamente una verità, per principio. Il signor Ryan non si
scompose, prendendo il mano il volumetto che la signora Victoria gli stava
porgendo. Gesti secchi, a suggerire un’indole pratica quanto riflessiva.
«So che la signora ha dedicato
l’intera esistenza alla stesura di questo lavoro. Non oserei chiamarla
operetta» la lusingò, perché sperava non fosse esente da quella strana
propensione ai complimenti che rende il genere femminile il più gongolante al
mondo. Nonostante le sue aspettative, l’austera signora non si scompose e
rimase a guardarlo con occhi fissi e penetranti, quasi quello sguardo pungente
fosse la spia della sua altrettanta abilità di affilare la lingua con parole
acuminate. Non c’era nulla di femminile in quel suo star sempre sull’attenti,
come un soldatino di piombo a cui l’artigiano ha dipinto male il sorriso,
rendendolo nient’altro che un’ambigua linea ammiccante, ma dalle sue maniere
spirava un vapore tutto femmineo, che le aleggiava attorno alla figura come
un’aura di santità: il pensiero che, in gioventù, avesse avuto numerosi quanto
sfortunati amanti era facile a nascere. Sbatteva le ciglia in modo imperioso,
celando occhi profondi quanto il fondo fangoso di un lago, e nel suo modo di
volgere gli occhi ora verso un lato della stanza ora verso un altro, senza mai
degnar l’interlocutore di più che un distratto cenno, c’era un senso di
profonda consapevolezza di sé e della società nella quale si muoveva, come se,
conosciute le sue brutture, preferisse non indugiarvi se non per il necessario.
Il signor Ryan si sentì parte integrante di quel terribile marchingegno che
doveva essere il mondo, con le sue leggi, i suoi costumi aberranti, le sue
assurde pretese, agli occhi di quella visionaria. Non aveva dubbi che il suo
lavoro sarebbe stato più che pregevole, ma d’altronde si era recato a Dorhtwood Hall solo per formalità.
«Chiamatela come volete, mio caro
signore, e se la giudicherete di buon cuore darò l’assenso a farla stampare
dalla vostra casa editrice» disse e un’ombra di gaiezza le illuminò gli zigomi
sporgenti. Ryan notò ancor più come la sua fisionomia fosse mista a qualcosa di
fascinosamente tropicale. Arrischiò, così, a cominciar il suo amichevole
interrogatorio:
«Per caso, signora Bradford, avete lontane parentele in Spagna? O in Italia
forse»
Victoria sorrise brevemente,
lasciando intravedere una ritta schiera di denti bianchi, con le labbra tese a
rendere il suo viso ancora più solenne. Negli occhi, un luccichio bucolico.
«Mia madre è della Costa Azzurra,
difatti il mio secondo nome è Adéle e il terzo Yvonne»
Il signor Ryan annuì, annotandoselo
sul taccuino come fosse cosa di gran conto la parentela di quella severa
scrittrice con una ridente donna francese.
«E voi siete cresciuta qui in
Inghilterra, immagino. Avete un accento più che puro» asserì. Il signor Dorthwood spronò teneramente la moglie a parlare, ma quel
tentativo di incoraggiamento sembrò esser preso dalla donna come motivo di
stizza. Riservò così al marito un’occhiata di dolce insufficienza.
«Sono nata in una cittadina dello Yorkshire, mio padre era un industriale. Le lande
sconfinate delle regioni del nord non hanno nulla a che vedere con la tonalità
della mia carnagione, vogliate credermi. Mia madre aveva tutto l’aspetto di una
nobildonna francese del sud, quanto a me sono un’inglese in tutto e per tutto.
D’altronde, il francese non mi riesce nemmeno così naturale, nonostante i miei
genitori mi abbiano sempre educata come perfettamente bilingue» affermò. Chiese
al signor Ryan, con uno sguardo secco, il permesso di continuare.
«Ho due fratelli che ora vivono in
Francia, ma io non l’ho mai vista come la mia mezza patria. Sposando Harold non
ho fatto altro che confermare la mia mera appartenenza a questa terra di piogge
e porridge»
porse la mano a suo marito in un gesto formalmente gentile.
«Capisco. Quella ritratta sul
camino è vostra madre?» chiese il giovane, alludendo alla grande tela dai toni
opachi, che rappresentava una giovane donna dai tratti vagamente mediterranei
mentre suonava un clavicembalo. Il signor Dorthwood
tossì pesantemente, la signora Victoria alzò gli occhi dalla sua tazza di tè
con una lentezza eccessiva, sintomo di un’esitazione più profonda. Sistemò con
cura la teiera sul vassoietto in argento e si preparò
a prender di nuovo parola.
«Quella donna è la mia defunta
sorella» lo informò, con studiata freddezza. Il signor Ryan osservo come fosse
delicata la curva delle labbra della giovane ritratta, come i suoi zigomi
fossero dolci come pendici di una collina, come risaltasse il suo luminoso
incarnato sullo sfondo del ritratto, come il suo guardo di profilo si posasse
con leggera sollecitudine sui tasti dello strumento. Notò una certa somiglianza
con la signora di Dorthwood Hall, ma non fu sicuro
che a prima vista le avrebbe giudicate sorelle.
«Immagino sia spirata molto giovane
allora» posò la tazza di ceramica sul piattino finemente decorato a filigrana
d’oro, poiché lo sguardo della donna era diventato troppo greve da sostenere
per un animo semplice e monocromatico come il suo.
«Morì giovane, si, a vent’anni. Fu
vittima di un violento attacco di tubercolosi e i suoi polmoni non ressero
all’inverno che avrebbe portato al suo ventunesimo compleanno. Spirò il
ventiquattro gennaio del Milleottocentocinquantasei, ma immagino che così fosse
scritto fin dall’alba dei tempi» sospirò, lasciando intravedere il suo
manoscritto, che fino ad allora aveva tenuto stretto a sé e poi poggiato
neglettamente sul divanetto. Lo porse al signor Ryan con fare spiccio, volendo
forse cambiar argomento il più presto possibile. Ed infatti, anche il signor Dorthwood si era oscurato in volto a quella rievocazione
dolorosa.
«Nonostante la mia cara Lydia desti ancora dolore in me, dopo tanti anni, avete
fatto bene ad introdurre il discorso. Giacché non si può parlare di Victoria
senza nominare anche la piccola Lydia. Passavamo
molto tempo insieme e prima che mi sposassi compimmo numerosi viaggi fino in Belgio
e in Italia. Era cagionevole di salute, ma questo non le impediva di essere una
ragazza brillante, che sapeva intrattenere anche il più irrequieto degli
spiriti, nonché un’ambita conquista per i giovanotti di Wakefield.
Fu lei ad indirizzarmi verso la mia vocazione e il suo strenuo lavoro fu
continuato dal mio caro marito Harold, che prese subito a cuore le mie
aspirazioni come fossero le sue.» e qui, sporgendosi verso il signor Dorthwood, accennò ad un sorriso benevolo, solo ed unico
segnale della sua venusta età. «Era parecchio attiva e le piaceva dipingere. Si
fece commissionare questo ritratto dal suo amante, un pittore di bottega di
Halifax, che ovviamente i miei genitori non acconsentirono mai a reputare come
un partito valido per lei, ma d’altronde nemmeno Harold fu giudicato tale,
all’epoca. Ebbene, fu il giovane Edward, che lei chiamava affettuosamente
Eddie, a dipingere quest’effige che abbiamo deciso di esporre nel salotto
principale, sia per la perizia nei dettagli che per il tenero ricordo che ci
evoca. Non notate anche voi, signor Ryan, come la curva delle labbra di lei
sembrino suggerire che è questo l’amore? Come se volessero indicare, con un
gesto per niente volgare, che è questo ciò che deriva dal sentimento più puro:
il perpetrare nel proprio stato come se si fosse soli, con la sola sicurezza di
non esserlo veramente. Lydia soleva recarsi nella sua
bottega, anche a costo di farsi ore in vettura senza farlo sapere ai miei
genitori, e nessuno mai seppe come si conobbero, solo che si amarono. Vedete, i
miei genitori lo scoprirono presto e le impedirono di recarsi ad Oxford Street,
dove aveva una piccola stanza, e la sua malattia sembrò peggiorare quasi
simultaneamente. Non sono così sciocca da pensare che per amor di lui lei perse
il senno o la salute, ma nell’irragionevolezza dei miei ventitré anni pensai
che quell’innaturale distacco avesse contribuito alla profonda vessazione
fisica di mia sorella. La amo tutt’ora con tutto il cuore ed è senza lacrime
che vi dico che è grazie a lei, oggi, che io sono intenzionata a pubblicare il
mio lavoro»
Il signor Ryan, compito, segnò
tutto sul suo taccuino, mentre Victoria continuava a discorrere, passando ora
ad un’apologia più pressante.
«Vi starete chiedendo, signor Ryan,
che cosa differenzi me da qualunque altra donna che vuol dilettarsi con la
scrittura» disse infatti, cambiando tono, che, da che era sfumato in un morbido
flusso di amorevoli parole, ora tornava ad essere un’incessante torrente
evocatore di immagini e di idee. In realtà, il giovane non si era mai
arrischiato a giudicare quella signora, da subito ritta contro lo stereotipo
femminile, alla stregua di donne dai più bassi principi. Nonostante non avesse
dato prova del suo sapere, lo si poteva intuire dal modo posato con il quale
seguiva il rituale del tè e del modo ordinato di esprimersi, nonché dalla sua
tendenza ad essere ampollosa, come se parlasse sulla falsariga di un’orazione
ciceroniana. La lasciò comunque pronunciare la sua scusante e pensò che sarebbe
stato interessante vederla all’azione.
«Innanzitutto, considero la
scrittura come la più nobile delle arti. Metter insieme un discorso con parole
compiute, tentar di incanalare il terribile afflusso di emozioni che ci solcano
il cuore, così come le nozioni puramente razionali, in parole finite è un’arte
quanto mai fine, come cesellare un vaso. Un buon artigiano, infatti, ricerca
l’armonia nel suo prodotto e la decorazione deve seguire una sua maestria nel
lavorare la materia prima. Solo allora può arrischiarsi a disegnar ghirigori o motivi
floreali. Per cui, senza una buona cultura, nemmeno l’arte della parola può
essere adempiuta come si deve ed io ritengo di aver dedicato abbastanza della
mia vita alla mia formazione. Scrivere senza sapere, al di là del soggetto
della nostra analisi, è quanto di più gretto e volgare possibile. Questo è il
diletto, signor Ryan. Io giudico il mio un lavoro di lima, una ricerca
continua. La storia in sé non conta quanto il messaggio che contiene e, ancor
più, il modo in cui viene presentata. Ordine, razionalità, funzione psicagogica
è quanto manca ai nostri vili pensieri. Ebbene, è la scrittura che li soddisfa
tutti! Mi piace pensare di essere avulsa dalla poca originalità della gente.
Certo, mi starete ora accusando con gli occhi di superbia. Non avrei niente da
obiettare, a quel punto, tranne il fatto che l’ammetter chiaramente d’essere
superbi è già un motivo per cui non lo si può essere. La vita, signor Ryan,
ascoltatemi bene, è irraggiungibile. Inspiegabile, poco comprensibile. Lo
scrittore non è altri che colui che prova a metter un ordine e, ingenuamente,
con una storia, lo voglia comunicare agli altri. Io ho trovato, dopo anni ed
anni di ricerca, un mio ordine che alcuni possono trovar giusto, come molti
altri riprovevolmente banale. Ed in questo non c’è nulla di superbo. Voglio ora
porgerlo a voi e aver fede che comprendiate quanto, intimamente, io abbia paura
che il mio cuore, che è lì dentro» e fece allusione al manoscritto, «possa
venir facilmente ad essere oggetto di pedanteria, ignorando che sia il puro
prodotto della mia vita».
Detto ciò, la signora Victoria si
alzò per sistemare sul vassoio d’argento le tazze vuote e si diresse, senza dir
una parola, verso il corridoio. Il signor Harold, per nulla imbarazzato, si
rivolse invece con un riso gioioso in volto al giovane Ryan.
«Credo che abbia acconsentito alla
pubblicazione. Deve aver trovato in voi qualcosa che altri non avevano»
Il signor Ryan, arrossendo, ripose
il suo taccuino e, gettato un ultimo sguardo alla meravigliosa dama del quadro,
fu accompagnato alla porta con la gran risma di fogli finemente scritti sotto
un braccio e il pastrano consunto sotto l’altro.
«Oh, Victoria, che fantastico spettacolo è la
tua vita e che profondo piacere è per me l’assistervi!» sospirò pateticamente Harold,
per poi tornare in casa ad ultimare alcuni altri studi di botanica.