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Autore: Adoratacreatura    09/03/2014    0 recensioni
Victoria Bradford è la signora dell'antica e baronale Dorthwood Hall, nonché austera (e ancora aspirante) scrittrice di professione. Ha nel cassetto un manoscritto che cura da anni, ha proteso la sua intera esistenza ad un solo, grandioso fine ed ora è in cerca di un editore. Ma non tutti possono capire la sua bizzarra esistenza, che sfiora chi le sta intorno con le sue punte di spudorato esibizionismo, ed anche l'ultimo editore londinese a cui si è rivolto dovrà passare al vaglio del suo orgoglioso sguardo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il parco di villa Dorthwood vantava, nel piccolo villaggio, il più grande e variegato giardino che si fosse mai visto da secoli. Gli antenati dei signori Dorthwood avevano partecipato, poco dopo la Mayflower, ad una spedizione di Puritani nella terra di Cristoforo Colombo e per primi avevano portato in Inghilterra delle specie così magnificamente sconosciute da lasciare a bocca aperta i più insigni studiosi di botanica dei paesotti vicini. Fiori colorati, con corolle ampie e dall’aspetto succoso, pendevano dagli alberi da frutto, sui quali i primi accenni di primavera producevano effetti così delicati e teneri che tutti, passando fuori all’enorme cancellata, sapevano che la primavera doveva esser giunta e che a breve la terra avrebbe dato copiosi frutti. Il cielo era immobile come una leggera cappa di cotone sulle spalle di un cavaliere senza macchia e a tratti si scorgevano, dal porticato della casa, fili sottili di nuvole bianche, come la trama di una stoffa pregiata che, rivoltata, mostra tutte le cuciture che fanno del suo il più pregiato degli arazzi. E, come in un complicato arazzo olandese, di quelli che i signori Dorthwood conservavano da generazioni nella grande sala da pranzo, figure nitide di uccellini cinguettanti e lontane ombre all’orizzonte gli davano l’effetto di immensa profondità, così azzurrino nei suoi tratti che il signor proprietario lo fissava perduto, con una mano nel taschino del panciotto e un prezioso monocolo a fargli da schermo. I suoi passi lenti, eco di una vecchiaia trascinata e placidamente attesa una vita, risonavano tranquilli sulla terra battuta di uno dei sentieri secondari e il fruscio delle foglie, mosse dal vento inglese che, come si sa, non risparmia quella terra nemmeno nei mesi più soleggiati, assumeva ai suoi orecchi melodie ipnoticamente piacevoli. Il sole, che gli andava dritto negli occhi, dopo un po’ lo costrinse ad abbassare docilmente lo sguardo verso la strada, facendogli ondeggiare il cappello sul capo e rallentare il passo già di per sé rilassato. Una nuova stagione arrivava, annunciandosi con le sue brezze aromatiche, con accomodanti ambasciatori a precederla: gli alberi di pesco, che dal cancello principale non erano visibili perché inoltrati nel piccolo boschetto, rivelavano timidi i primi germogli e  Dorthwood se ne rallegrò tanto,perché era una gran fatica curare alberi di quel genere in un paese come l’Inghilterra.  Il signor Harold era uno scienziato, un uomo di sapienza e rettitudine che aveva dedicato un’intera vita ai suoi volumi di chimica, scienze naturali, fisica, matematica e, non per ultima, astronomia. Aveva disposto ogni dettaglio della sua vita in modo che il quadro risultante potesse accogliere quante più sfumature delle scienze possibili. In giovinezza aveva praticato la professione di medico, dopo aver compiuto gli studi a Londra, ma al suo carattere tranquillo e riflessivo non si addiceva per niente quell’occupazione, tanto meno in un paese di campagna come il suo, tutto circondato da magioni contadine, dove ogni due un contadino si ammalava di tubercolosi e bisognava che il medico fosse disponibile a correre in carrozza a qualsiasi ora del giorno e della notte. D’altronde, una professione gli era pur stata necessaria, dacché i Dorthwood avevano perso parte del loro patrimonio con l’andare dei secoli e ora, con le industrie che crescevano come funghi e i poveri uomini che cadevano in miseria ogni giorno, anche il loro grande stemma ducale era stato offuscato dalle polveri della povertà e annerito dall’indigenza e bisognava guadagnarsi di che vivere. La grande villa, poi, era un’attrattiva troppo squisita per tutta la regione e il signor Harold aveva preferito mantenerla in vita, assumendosene i costi e le tasse, e finché aveva potuto era corso notte e giorno in campagna a curare la tubercolosi dei contadini. A trent’anni, dopo essersi sposato di uno dei matrimoni più felici che si sian mai visti sulla faccia della terra, le casse dei Dortwood si erano fuse con quelle ben più fornite dei lontani signori Bradford e si era potuto concede il lusso, ormai non più solo in quel grande feudo di campagna, di tornare a far parte di quella classe che, per diritti di nascita, non ha bisogno di lavorare. Così si era dedicato con animo entusiasta e attivo ad ogni branca della scienza che lo interessasse e, grazie alla buona cultura di sua moglie, quelle fredde mura erano diventate dimora di due spiriti rigidamente devoti alla cultura e alla sapienza. Aveva un laboratorio che soleva utilizzare nei giorni invernali ed autunnali, dove conduceva esperimenti sull’anatomia animale, ma nelle giornate di sole come quelle preferiva scendere in campo direttamente e toccare con mano le incomprensibili leggi della natura. Tuttavia, quella mattina, non era per amor del suo giardino che era uscito a passeggiare, ma per condurre a termine un importante affare in luogo di sua moglie Victoria.

 Giunto, infatti, all’ingresso del parco, voltandosi verso l’immane facciata dell’eredità dei suoi antenati, si chiese per l’ultima volta cosa stesse facendo sua moglie e sperò in cuor suo che il suo umore fosse della miglior specie. Un grazioso giovanotto, di una casa editrice londinese che da tempo si era detta interessata a i lavori della signoraVictoria, stava proprio fuori sul viottolo e il signor Harold, togliendosi il cappello, lo salutò con gentilezza, rivolgendogli uno dei suoi sorrisi venusti e profondamente delicati. Il giovane, che sembrava imbarazzato sotto il suo pastrano lungo e sbiadito, rispose con un cenno breve.

«Voi dovete essere il signor Dorthwood» disse, togliendosi il cappello nero. Aveva maniere affettate, ma i suoi occhi azzurri al signor Harold apparvero sufficientemente sensibili e si augurò che anche Victoria la pensasse così. Era una donna estremamente percettiva e si accorgeva delle cose dopo una sola occhiata. Sperò che non avrebbe mandato via anche lui, accusandolo di non capire i suoi scritti. Era anche terribilmente orgogliosa.

«Molto onorato di conoscervi, signor Ryan» rispose educatamente. Lo invitò ad entrare, scusandosi per l’accoglienza poco degna, perché non avevano servitù al contrario di quanto ci si potesse aspettare e il solo uomo di servizio, il giardiniere, era occupato con la potatura di alcuni cespugli nell’ala est.

«Mia moglie sarà felice di ricevervi a breve per il tè» lo informò, mentre passeggiavano in silenzio lungo il viale principale. Il giovanotto fece di si con la testa, con le mani dietro la schiena e piccole goccioline di sudore ad imperlargli la fronte, là dove prima era coperta dal pesante cilindro.

«La primavera sta proprio arrivando»

Così il signor Harold intavolò ingenuamente una discussione, invitando il timido interlocutore a godere di quel sole e a togliersi quel pesante cappotto, senza badare alla convenienze. Era un uomo molto alla mano e, se il precedenza lo era stato meno, sposare Victoria lo aveva costretto ad abbandonare qualunque tipo di convenzionalità, per amor di lei. E, neanche a dirlo, le sue maniere dolcemente persuasive lo avevano indotto perfino a ridurre la servitù. In paese, i coniugi Dorthwood (o meglio il signor Dortwood e la signora Bradford, poiché la donna aveva scelto arbitrariamente di mantenere il suo cognome) erano presi come esempio di stranezza e bizzarria e non c’era una locanda, un’osteria nella quale ai forestieri non venissero raccontante curiose storie sul loro conto. Uno scienziato pazzo e una dispotica poetessa che vivevano arroccati in quel trascurato Eden settecentesco, con le inferriate arrugginite dal tempo e il titolo di duca caduto in disuso da decenni. C’era stato anche qualche irriverente giornalista che, assetato di scandali, aveva attribuito alla signora Victoria innumerevoli amanti, senza distinzione di sesso, ad accentuarne la gravità del peccato, e molti poveri sciocchi a quelle dicerie prestavano ascolto. Ciò che di vero c’era, tuttavia, era che avessero entrambi una gran devozione alla cultura, alla letteratura e alla filosofia e che, durante le colazioni e i pranzi, insieme al giardiniere parlassero di sostanza aristotelica o di soggetto cartesiano, delle Filippiche di Demostene o delle sentenze ciceroniane. Il fatto, poi, che non si facessero vedere alla cappella del paese da quando si erano sposati accresceva lo sdegno pubblico, che arrivava ad accusarli di idolatria verso i loro innumerevoli volumi antichi.

«Si, c’è molta gioia anche in paese. Il fornaio è stato molto gentile ad indicarmi la strada» replicò il gentiluomo, distendendo le fini labbra in un sorriso incoraggiante. Teneva in mano un taccuino e aveva le tasche piene di lettere, che ora facevano capolinea dal pastrano che aveva rifiutato discretamente di togliersi, in nome dei buoni costumi.

«Il buon John è da sempre un amico della mia casa» gli disse. Poi rimase in un religioso silenzio, aspettando che il giovane rappresentante passasse ai motivi per cui era giunto fin lì, dopo cinque ore di carrozza. E, difatti, dopo pochi minuti il signor Ryan prese in mano il discorso.

«Avete scritto qualche tempo fa alla casa editrice che rappresento, la Scott’s&Co., per richiedere la pubblicazione del romanzo della signora Dorthwood» cominciò, sfregandosi le mani. Il signor Harold lo guardò gravemente, correggendolo:

«La signora Victoria Bradford, vorrete dire»

Il giovanotto, dopo esser rimasto un po’ interdetto, fece un cenno d’assenso.

«Ebbene, sono qui per ritirare il manoscritto e fare una piccola intervista all’autrice sua moglie» proseguì, ora con calma professionale.

«La vostra è la quinta casa editrice che consultiamo, la signora Victoria vuole essere sicura che la sua operetta sia apprezzata da chi la pubblica, non vuole limitarsi a spendere una somma per la sua stampa. La giudica una cosa troppo meschina da fare alla sua perizia letteraria» raccontò e, frattanto, erano quasi giunti al portico colonnato della villa, vuoto se non per la presenza di un enorme gattone grigio e di un ragazzino dall’aria malaticcia.

«Immagino sia il vostro nipotino» fece il signor Ryan, accennando al ragazzino che ora li guardava con occhi sbarrati. Richiamò a sé il gatto e scappò, a piedi nudi, nel folto delle siepi laterali.

«Oh no, lui è Thomas, il figlio della lavandaia del villaggio. Noi non abbiamo figli e mia moglie ed io gli diamo lezioni di inglese, scienze e matematiche di tanto in tanto perché non può permettersi di andare a scuola»

Il cipiglio gentile delle sue sopracciglia bianche e cespugliose dovette convincere in ultima istanza il signor Ryan che anche le famiglie più facoltose, di tanto in tanto, possono esser buone e fare la carità senza essere assidue frequentatrici della parrocchia. Che coppia strana, dovette pensare. E, in vero, quella era una coppia curiosa e già dell’abbigliamento dandy del signor Harold forse dovette intuirlo. Tuttavia, non fece commenti e, sempre con indosso quella maschera di compita efficienza, entrò il casa salendo gli alti gradini di pietra calcarea.

«Questa casa ha un’architettura molto raffinata, sembra di un’altra epoca» si arrischiò a complimentarsi il signor Ryan e Harold annuì, felice, accettando di buon grado.

«Queste fredde mura di pietra non avrebbero, però, il calore familiare delle cose belle se mia moglie non avesse provveduto ad arredarle con gusto» disse. E il signor Ryan ebbe prova di quello squisito gusto di cui era fautrice la signora Victoria quando attraversò il vestibolo d’ingresso, dalle pareti sufficientemente riempite da tele di paesaggi campestri dipinti ad acquerello e armoniosamente equilibrate fra di loro, e quando, ancora dopo, si accomodò nell’intimo salottino, uno dei due che i signori proprietari utilizzavano dalla vasta gamma di stanze disponibili, di fronte ad una calda tazza di tè. La signora non c’era, ma aveva accomodato con previdenza il vassoio sul basso tavolino intarsiato, proprio di fronte al camino dove si snodava una ricca e minuziosa collezione di ceramiche francesi.

«Starà recuperando il manoscritto dalla biblioteca. Sapete, questa casa è molto grande e per passare da una stanza all’altra molte volte ci si mettono interi minuti» e così, tenendolo quieto, lo invitò a servirsi come se fosse a casa sua, e non in una gigantesca e fredda magione baronale vecchia di secoli. Il signor Ryan notò con delizia anche i fini tessuti degli arazzi che erano appesi alle pareti, di cui abbiamo già fatto menzione, trovando che la loro qualità era così pregiata che i colori, nonostante il tempo, erano rimasti luminosi come in una giornata d’estate.

«A sua moglie non dispiacerà se faccio qualche domanda» riprese, mentre prendeva un sorso di tè. Era molto aromatizzato, come piaceva ai due coniugi, e per un momento il signor Harold ebbe paura che il giovane non reggesse quel sapore forte di spezie indiane. Tuttavia, tornarono a parlare senza impicci.

«Mia moglie adora che le si facciano domande, è il modo meno esibizionista che ha per esibirsi» lo accomodò, con una risata profonda.

«Le piace esibirsi?» domandò allora più irriverente, tirando fuori il taccuino, ormai avvolto da quell’atmosfera di disarmante sincerità che sembrava caratterizzare il salotto signorile.

«Molto. Ma la sua esibizione non ha nulla di fittizio, non le piace far commedia né tragedia. Le piace solo che gli altri assistano al suo grandioso spettacolo esistenziale» gli spiegò, come se lui avesse capito ogni funzione di quella misteriosa macchina che era la signora Victoria. Quell’affermazione non fece altro che accrescere l’ardente curiosità del signor Ryan, che si fece più vicino al tavolino da tè, muovendosi nervosamente sulla sua poltrona rossa. Che misteriosa dama stava per incontrare!

«Immagino faccia parte del suo essere scrittrice» obiettò, sistemandosi meglio il pastrano che si era tolto sulle ginocchia. Il signor Harold lo guardò un po’ dubbioso, come se le sue parole fossero state fuori luogo o non ne riuscisse a dedurre il senso. Voleva forse dire che le scrittrici erano donne della peggior specie? Tutte le donne erano strane, scrittrici o meno!

«Immagino invece faccia parte del suo essere Victoria Bradford» alzò le spalle.

«Voi avete l’aria di uno che è spettatore da una vita» osservò acutamente Ryan.

«Piuttosto, sposandola ho comprato il biglietto a teatro e, onestamente, non mi sono mai pentito della prima fila che mi è stata riservata. Mia moglie è una donna deliziosa» replicò, quasi come orgoglio. La fiamma ardente del suo amore gli riluceva nelle vecchie pupille come se fosse un giovane che ha appena conosciuto i sentimenti. Il signor Ryan ebbe modo di giudicare da sé quanto la signora Victoria fosse effettivamente deliziosa, con i suoi occhi grandi e sempre attivi, che osservavano chi le stava di fronte con aria di velata superiorità, e il suo viso luminoso, sulla cui bellezza né gli anni né i dolori personali avevano potuto infierire, le sue ciglia lunghe che gettavano ombra sul viso di signora e i suoi capelli lunghi e scuri, tenuti austeramente sulla nuca in un’elaborata crocchia. A guardarla bene, le forme sottili che componevano il volto e l’incarnato delicatamente rosato avrebbero suggerito una patria diversa da quella inglese, giacché aveva le guance molto rosse per esser ancora quasi nel pieno della cattiva stagione e le labbra irriverenti come quelle di una dama spagnola, a piegarsi nei sorrisi seducenti di una giovinetta. Tutto questo, pensò con gravità il signor Ryan, doveva esser sintomo forse che le dicerie in paese erano vere. Eppure, c’era uno spirito diverso a pungolare dalle sue iridi: imponente tanto da occupare col suo respiro l’intero salotto, autorevole come una legge e risoluta, come se fosse ben conscia di ogni suo limite e per questo fosse illimitata. Decisamente, la signora Victoria aveva una presenza bizzarra e faceva il divertimento di ogni gentildonna della contea, alle feste o ai balli, a causa dei suoi modi puntualmente inglesi ma straordinariamente di mondo, coi suoi sguardi accecanti e le parole che le fluivano di bocca con una perizia veramente poco usuale. Il signor Dorthwood, non appena fu entrata, abbassò il capo senza accorgersene e la signora Victoria salutò gli uomini con un superbo ed elegante inchino. Sorrise loro in modo molto gentile e, accomodata sul divanetto accanto al marito, si rivolse senza preamboli al signor Ryan, dicendo:

«Avete tutta l’aria di aver viaggiato in vettura fin da Londra»

Il giovanotto tossì per l’imbarazzo di un approccio così diretto, per essere una donna avanti negli anni, ed annuì con discrezione. Di tutte le donne con manie di indipendenza, carattere fiero e spirito indomito, la signora Victoria gli suggeriva quel brivido di sconcerto che si ha di fronte agli affranti  ignoti del mondo. Il signor Harold non fece caso a nulla, rivolgendo uno sguardo affettuoso alla cara moglie.

«Si, ho fatto le mie ore di viaggio. Ma sono certo che ne sia valsa la pena» disse, per accattivarsi il favore di quell’anziana e ,al tempo stesso, giovane donna. Sentiva come se fosse lui ora quello che doveva convincerla a pubblicare un suo lavoro, tuttavia aspettò ancora un po’ per giudicare la nuova venuta.

«Questo lo vedremo. Come anche se sia valsa la pena per me tentar di nuovo con la mia operetta» sorrise la donna. Quell’autoironia, che spiazzava l’ascoltatore fino a ridurlo (il signor Harold aveva detto il vero) ad un impotente spettatore, le dava un tocco di universalità. Ciò che fosse uscito da quella bocca così imparziale doveva essere necessariamente una verità, per principio. Il signor Ryan non si scompose, prendendo il mano il volumetto che la signora Victoria gli stava porgendo. Gesti secchi, a suggerire un’indole pratica quanto riflessiva.

«So che la signora ha dedicato l’intera esistenza alla stesura di questo lavoro. Non oserei chiamarla operetta» la lusingò, perché sperava non fosse esente da quella strana propensione ai complimenti che rende il genere femminile il più gongolante al mondo. Nonostante le sue aspettative, l’austera signora non si scompose e rimase a guardarlo con occhi fissi e penetranti, quasi quello sguardo pungente fosse la spia della sua altrettanta abilità di affilare la lingua con parole acuminate. Non c’era nulla di femminile in quel suo star sempre sull’attenti, come un soldatino di piombo a cui l’artigiano ha dipinto male il sorriso, rendendolo nient’altro che un’ambigua linea ammiccante, ma dalle sue maniere spirava un vapore tutto femmineo, che le aleggiava attorno alla figura come un’aura di santità: il pensiero che, in gioventù, avesse avuto numerosi quanto sfortunati amanti era facile a nascere. Sbatteva le ciglia in modo imperioso, celando occhi profondi quanto il fondo fangoso di un lago, e nel suo modo di volgere gli occhi ora verso un lato della stanza ora verso un altro, senza mai degnar l’interlocutore di più che un distratto cenno, c’era un senso di profonda consapevolezza di sé e della società nella quale si muoveva, come se, conosciute le sue brutture, preferisse non indugiarvi se non per il necessario. Il signor Ryan si sentì parte integrante di quel terribile marchingegno che doveva essere il mondo, con le sue leggi, i suoi costumi aberranti, le sue assurde pretese, agli occhi di quella visionaria. Non aveva dubbi che il suo lavoro sarebbe stato più che pregevole, ma d’altronde si era recato a Dorhtwood Hall solo per formalità.

«Chiamatela come volete, mio caro signore, e se la giudicherete di buon cuore darò l’assenso a farla stampare dalla vostra casa editrice» disse e un’ombra di gaiezza le illuminò gli zigomi sporgenti. Ryan notò ancor più come la sua fisionomia fosse mista a qualcosa di fascinosamente tropicale. Arrischiò, così, a cominciar il suo amichevole interrogatorio:

«Per caso, signora Bradford, avete lontane parentele in Spagna? O in Italia forse»

Victoria sorrise brevemente, lasciando intravedere una ritta schiera di denti bianchi, con le labbra tese a rendere il suo viso ancora più solenne. Negli occhi, un luccichio bucolico.

«Mia madre è della Costa Azzurra, difatti il mio secondo nome è Adéle e il terzo Yvonne»

Il signor Ryan annuì, annotandoselo sul taccuino come fosse cosa di gran conto la parentela di quella severa scrittrice con una ridente donna francese.

«E voi siete cresciuta qui in Inghilterra, immagino. Avete un accento più che puro» asserì. Il signor Dorthwood spronò teneramente la moglie a parlare, ma quel tentativo di incoraggiamento sembrò esser preso dalla donna come motivo di stizza. Riservò così al marito un’occhiata di dolce insufficienza.

«Sono nata in una cittadina dello Yorkshire, mio padre era un industriale. Le lande sconfinate delle regioni del nord non hanno nulla a che vedere con la tonalità della mia carnagione, vogliate credermi. Mia madre aveva tutto l’aspetto di una nobildonna francese del sud, quanto a me sono un’inglese in tutto e per tutto. D’altronde, il francese non mi riesce nemmeno così naturale, nonostante i miei genitori mi abbiano sempre educata come perfettamente bilingue» affermò. Chiese al signor Ryan, con uno sguardo secco, il permesso di continuare.

«Ho due fratelli che ora vivono in Francia, ma io non l’ho mai vista come la mia mezza patria. Sposando Harold non ho fatto altro che confermare la mia mera appartenenza a questa terra di piogge e porridge» porse la mano a suo marito in un gesto formalmente gentile.

«Capisco. Quella ritratta sul camino è vostra madre?» chiese il giovane, alludendo alla grande tela dai toni opachi, che rappresentava una giovane donna dai tratti vagamente mediterranei mentre suonava un clavicembalo. Il signor Dorthwood tossì pesantemente, la signora Victoria alzò gli occhi dalla sua tazza di tè con una lentezza eccessiva, sintomo di un’esitazione più profonda. Sistemò con cura la teiera sul vassoietto in argento e si preparò a prender di nuovo parola.

«Quella donna è la mia defunta sorella» lo informò, con studiata freddezza. Il signor Ryan osservo come fosse delicata la curva delle labbra della giovane ritratta, come i suoi zigomi fossero dolci come pendici di una collina, come risaltasse il suo luminoso incarnato sullo sfondo del ritratto, come il suo guardo di profilo si posasse con leggera sollecitudine sui tasti dello strumento. Notò una certa somiglianza con la signora di Dorthwood Hall, ma non fu sicuro che a prima vista le avrebbe giudicate sorelle.

«Immagino sia spirata molto giovane allora» posò la tazza di ceramica sul piattino finemente decorato a filigrana d’oro, poiché lo sguardo della donna era diventato troppo greve da sostenere per un animo semplice e monocromatico come il suo.

«Morì giovane, si, a vent’anni. Fu vittima di un violento attacco di tubercolosi e i suoi polmoni non ressero all’inverno che avrebbe portato al suo ventunesimo compleanno. Spirò il ventiquattro gennaio del Milleottocentocinquantasei, ma immagino che così fosse scritto fin dall’alba dei tempi» sospirò, lasciando intravedere il suo manoscritto, che fino ad allora aveva tenuto stretto a sé e poi poggiato neglettamente sul divanetto. Lo porse al signor Ryan con fare spiccio, volendo forse cambiar argomento il più presto possibile. Ed infatti, anche il signor Dorthwood si era oscurato in volto a quella rievocazione dolorosa.

«Nonostante la mia cara Lydia desti ancora dolore in me, dopo tanti anni, avete fatto bene ad introdurre il discorso. Giacché non si può parlare di Victoria senza nominare anche la piccola Lydia. Passavamo molto tempo insieme e prima che mi sposassi compimmo numerosi viaggi fino in Belgio e in Italia. Era cagionevole di salute, ma questo non le impediva di essere una ragazza brillante, che sapeva intrattenere anche il più irrequieto degli spiriti, nonché un’ambita conquista per i giovanotti di Wakefield. Fu lei ad indirizzarmi verso la mia vocazione e il suo strenuo lavoro fu continuato dal mio caro marito Harold, che prese subito a cuore le mie aspirazioni come fossero le sue.» e qui, sporgendosi verso il signor Dorthwood, accennò ad un sorriso benevolo, solo ed unico segnale della sua venusta età. «Era parecchio attiva e le piaceva dipingere. Si fece commissionare questo ritratto dal suo amante, un pittore di bottega di Halifax, che ovviamente i miei genitori non acconsentirono mai a reputare come un partito valido per lei, ma d’altronde nemmeno Harold fu giudicato tale, all’epoca. Ebbene, fu il giovane Edward, che lei chiamava affettuosamente Eddie, a dipingere quest’effige che abbiamo deciso di esporre nel salotto principale, sia per la perizia nei dettagli che per il tenero ricordo che ci evoca. Non notate anche voi, signor Ryan, come la curva delle labbra di lei sembrino suggerire che è questo l’amore? Come se volessero indicare, con un gesto per niente volgare, che è questo ciò che deriva dal sentimento più puro: il perpetrare nel proprio stato come se si fosse soli, con la sola sicurezza di non esserlo veramente. Lydia soleva recarsi nella sua bottega, anche a costo di farsi ore in vettura senza farlo sapere ai miei genitori, e nessuno mai seppe come si conobbero, solo che si amarono. Vedete, i miei genitori lo scoprirono presto e le impedirono di recarsi ad Oxford Street, dove aveva una piccola stanza, e la sua malattia sembrò peggiorare quasi simultaneamente. Non sono così sciocca da pensare che per amor di lui lei perse il senno o la salute, ma nell’irragionevolezza dei miei ventitré anni pensai che quell’innaturale distacco avesse contribuito alla profonda vessazione fisica di mia sorella. La amo tutt’ora con tutto il cuore ed è senza lacrime che vi dico che è grazie a lei, oggi, che io sono intenzionata a pubblicare il mio lavoro»

Il signor Ryan, compito, segnò tutto sul suo taccuino, mentre Victoria continuava a discorrere, passando ora ad un’apologia più pressante.

«Vi starete chiedendo, signor Ryan, che cosa differenzi me da qualunque altra donna che vuol dilettarsi con la scrittura» disse infatti, cambiando tono, che, da che era sfumato in un morbido flusso di amorevoli parole, ora tornava ad essere un’incessante torrente evocatore di immagini e di idee. In realtà, il giovane non si era mai arrischiato a giudicare quella signora, da subito ritta contro lo stereotipo femminile, alla stregua di donne dai più bassi principi. Nonostante non avesse dato prova del suo sapere, lo si poteva intuire dal modo posato con il quale seguiva il rituale del tè e del modo ordinato di esprimersi, nonché dalla sua tendenza ad essere ampollosa, come se parlasse sulla falsariga di un’orazione ciceroniana. La lasciò comunque pronunciare la sua scusante e pensò che sarebbe stato interessante vederla all’azione.

«Innanzitutto, considero la scrittura come la più nobile delle arti. Metter insieme un discorso con parole compiute, tentar di incanalare il terribile afflusso di emozioni che ci solcano il cuore, così come le nozioni puramente razionali, in parole finite è un’arte quanto mai fine, come cesellare un vaso. Un buon artigiano, infatti, ricerca l’armonia nel suo prodotto e la decorazione deve seguire una sua maestria nel lavorare la materia prima. Solo allora può arrischiarsi a disegnar ghirigori o motivi floreali. Per cui, senza una buona cultura, nemmeno l’arte della parola può essere adempiuta come si deve ed io ritengo di aver dedicato abbastanza della mia vita alla mia formazione. Scrivere senza sapere, al di là del soggetto della nostra analisi, è quanto di più gretto e volgare possibile. Questo è il diletto, signor Ryan. Io giudico il mio un lavoro di lima, una ricerca continua. La storia in sé non conta quanto il messaggio che contiene e, ancor più, il modo in cui viene presentata. Ordine, razionalità, funzione psicagogica è quanto manca ai nostri vili pensieri. Ebbene, è la scrittura che li soddisfa tutti! Mi piace pensare di essere avulsa dalla poca originalità della gente. Certo, mi starete ora accusando con gli occhi di superbia. Non avrei niente da obiettare, a quel punto, tranne il fatto che l’ammetter chiaramente d’essere superbi è già un motivo per cui non lo si può essere. La vita, signor Ryan, ascoltatemi bene, è irraggiungibile. Inspiegabile, poco comprensibile. Lo scrittore non è altri che colui che prova a metter un ordine e, ingenuamente, con una storia, lo voglia comunicare agli altri. Io ho trovato, dopo anni ed anni di ricerca, un mio ordine che alcuni possono trovar giusto, come molti altri riprovevolmente banale. Ed in questo non c’è nulla di superbo. Voglio ora porgerlo a voi e aver fede che comprendiate quanto, intimamente, io abbia paura che il mio cuore, che è lì dentro» e fece allusione al manoscritto, «possa venir facilmente ad essere oggetto di pedanteria, ignorando che sia il puro prodotto della mia vita».

Detto ciò, la signora Victoria si alzò per sistemare sul vassoio d’argento le tazze vuote e si diresse, senza dir una parola, verso il corridoio. Il signor Harold, per nulla imbarazzato, si rivolse invece con un riso gioioso in volto al giovane Ryan.

«Credo che abbia acconsentito alla pubblicazione. Deve aver trovato in voi qualcosa che altri non avevano»

Il signor Ryan, arrossendo, ripose il suo taccuino e, gettato un ultimo sguardo alla meravigliosa dama del quadro, fu accompagnato alla porta con la gran risma di fogli finemente scritti sotto un braccio e il pastrano consunto sotto l’altro.

 «Oh, Victoria, che fantastico spettacolo è la tua vita e che profondo piacere è per me l’assistervi!» sospirò pateticamente Harold, per poi tornare in casa ad ultimare alcuni altri studi di botanica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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