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Autore: vannagio    10/03/2014    8 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 6




Non sapeva perché quella sera avesse scelto il Goldfinger per farsi un goccio. A lui piacevano i locali più piccoli e discreti, quelli in cui gli unici posti a sedere sono di fronte al bancone, quelli in cui non c’è una band che suona ma solo un televisore acceso su una qualche partita di football, quelli in cui gli altri avventori sono ubriaconi senza speranza che ti fanno sentire un uomo molto fortunato. Eppure eccolo lì.
«Detective Martìnez, ma lei non ce l’ha un giorno libero?».
José sollevò lo sguardo. Benedetta Amato, la buttafuori del Goldfinger, era in piedi di fronte al suo tavolo e lo scrutava con sospetto. Era vestita più o meno come sempre. Una maglietta nera aderente, sotto al giubbotto di pelle (che a giudicare dal rigonfiamento non nascondeva soltanto un fisico tonico e muscoloso, ma anche una fondina ascellare munita di pistola) e un paio di pantaloni cargo. Unica differenza, il corto taglio di capelli era stato vivacizzato da una punta di gel. Oppure Amato era appena uscita dalla doccia.
«In effetti questa sera non sono in servizio. Anche se quella tizia al bancone che rimorchia a ripetizione mi fa venire voglia di esserlo».
Indicò con un cenno del mento una ragazza provocante, dalle labbra rosso fuoco e un caschetto biondo platino, che stava sussurrando qualcosa all’orecchio di un vecchio grassone. Qualcosa di molto stuzzicante, a giudicare dal sorriso del vecchio.
«Che avrà mai fatto di male quella povera ragazza?».
«Andiamo, una come quella non rimorchierebbe mai uno sgorbio simile!».
«I gusti non si discutono».
«L’ho vista entrare nella toilette tre volte nell’ultima ora e mezza. Sempre con un uomo diverso».
«Questo è un locale notturno, Detective. Non si aspetterà mica che la gente si comporti da santa, vero?».
José abbozzò un mezzo sorriso.
«Non ho idea di come faccia il suo capo a passarla liscia con la Buoncostume. Basterebbe un infiltrato con una telecamera nascosta per far chiudere questo posto in quattro e quattr’otto. Anzi, ora che ci penso un’idea ce l’ho… Il suo capo è ricco sfondato e la Buoncostume è sempre a corto di fondi. Ovviamente non ho le prove per dimostrarlo».
«Mi sta suggerendo di perquisirla, Detective?».
Chissà perché, l’idea di farsi perquisire da lei non gli dispiaceva. Ebbe un flash di se stesso, nell’ufficio della buttafuori, schiacciato contro il muro e le mani di lei che lo frugavano a fondo, molto a fondo. Bevve un sorso di whisky per arginare una fantasia decisamente inopportuna e imbavagliare l’inquilino dei piani bassi prima che si mettesse in mostra.
«Gliel’ho detto. Non sono in servizio. Sono venuto qui solo per annegare i ricordi nell’alcol».
«Devono essere ricordi molto spiacevoli».
«È l’anniversario della morte di mia moglie. I ragazzi sono da mia suocera, così ne approfitto per concedermi un goccio».
Lei serrò le labbra.
«Mi spiace. Tolgo il disturbo, allora».
L’afferrò per un braccio senza sapere il perché. Le cose di cui non sapeva il perché stavano diventando troppe, quella sera.
«In realtà, i ricordi annegano meglio se si beve in compagnia».
Amato lo fissò in silenzio, indecisa se accettare o meno. Si divincolò dalla sua presa con un gesto stizzito, ma invece di andare via come José si era aspettato, gli si sedette di fronte. Senza smettere di fissarlo con quel suo sguardo di pietra, fece un gesto alla cameriera, che portò immediatamente un altro bicchiere. José le versò il whisky e lei lo mando giù tutto in una volta.
«Che cosa le è successo?», le chiese.
Amato inarcò un sopracciglio.
«In che senso?».
«Cosa l’ha resa così?».
Era convinto che l’avrebbe mandato a ‘fanculo, invece inaspettatamente Amato scoppiò a ridere.
«Perché la gente, quando vede una come me, pensa sempre che ci sia dietro un dramma familiare o un qualche trauma infantile agghiacciante? Dove sta scritto che le prove della felicità di una donna siano le gonne a campana che indossa, i capelli cotonati che porta o i sorrisi cordiali che snocciola?».
«Quindi non ha una storia triste alle spalle?».
«Tutti abbiamo una storia più o meno triste alle spalle, ma non è detto che una storia triste ci renda quello che siamo. Per quanto mi riguarda, sono sempre stata così, taciturna e poco incline alle smancerie. Anche prima che mio padre mollasse mia madre per un’altra e che fossi costretta a lasciare la scuola per trovarmi un lavoro e aiutare mia madre con l’affitto».
«Caspita. Quanti anni aveva?».
«Sedici».
«Ed è stato allora che ha trovato lavoro al Goldfinger?».
«No, no. Venni assunta qui parecchi anni dopo, come barista. Una sera stesi un tipo che aveva cercato di palparmi il culo. Pensavo che il mio attuale capo mi avrebbe licenziata. Invece mi promosse a buttafuori. E adesso sono capo della sicurezza e pienamente soddisfatta della mia vita. Anche se non dispenso sorrisi zuccherosi come un distributore automatico e non diventerò mai un’icona di femminilità».
José si portò il bicchiere alla bocca, senza dire nulla.
«A cosa sta pensando, Detective?».
José stava pensando che la femminilità non c’entrava un cazzo con le gonne a campana o i sorrisi zuccherosi. Che la femminilità, piuttosto, aveva a che fare con la capacità di una donna di colpire un uomo. E Amato era una donna che gli uomini li stendeva, letteralmente.
«Al suo gancio destro, Amato. Deve fare un gran male».



Carlisle era appena uscito dal parcheggio del Goldfinger con la sua Mercedes, quando la vide. Marie Louise camminava a passo svelto lungo il marciapiede, con l’aria di chi non vede l’ora di entrare dentro casa.
Anche quella sera si erano incontrati nel vicolo sul retro del locale, per l'ennesima sigaretta clandestina. E dopo, quando era rientrato nel suo ufficio, Carlisle non aveva fatto che pensare all’abito di raso scollato più dietro che davanti, ai lacci dei sandali che le avvolgevano il polpaccio in modo sensuale e alla lunga collana di perle con un nodo un po’ anni trenta.
Per questo motivo, forse, la riconobbe immediatamente, anche se era lontana, anche se aveva legato i capelli in una coda improvvisata, indossava una tuta comoda, una giacca a vento e un paio di scarpe da ginnastica.
Fermò l’auto proprio accanto a lei e abbassò il finestrino.
«Ehi, Marie Louise».
Lei si voltò e la preoccupazione sul suo viso si sciolse in un sorriso.
«Oh, Cardinale, sei tu!».
«Ti serve un passaggio fino a casa?».
«No, no. Va bene così. Devo solo raggiungere la metropolitana. E poi non voglio disturbare».
«Non disturbi affatto. Avanti, sali».
Ma il viaggio in auto non fu rilassato come si era aspettato. Marie Louise se ne stava rigida sul sedile del passeggero e non apriva bocca. Aveva sbagliato qualcosa forse? Aveva oltrepassato qualche linea di confine di cui ignorava l’esistenza?
«Ho parlato con Zachariasz. Di Honey», disse per rompere il ghiaccio.
«Sei riuscito a convincerlo?», chiese lei, sempre tesa.
«All’apparenza no. Ma credo di avergli dato qualcosa su cui rimuginare».
Marie Louise sospirò. «Meglio di niente».
«Destra o sinistra?».
«Destra».
Carlisle sgranò gli occhi.
«Abiti a Bushwick?».
«Non è poi così male, come zona. E poi l’unica casa che potevo permettermi l’ho trovata lì. Williamsburg è troppo alla moda per le mie tasche».
«E tu torni a casa ogni notte in metropolitana?».
«Mantenere un’auto costa troppo».
C’era qualcosa che non tornava. Che ne faceva di tutti quei soldi che guadagnava? Era una donna sola, che a giudicare dal modo in cui vestiva fuori dall’orario di lavoro, non aveva il pallino per le grandi firme o i monili di valore. Forse stava risparmiando per un qualche progetto? Oppure, più probabile, era sommersa dai debiti.
«Ecco, abito qui».
Si fermarono davanti a una casetta unifamiliare a due piani dall’intonaco scrostato.
«Perché non me l’hai detto?», disse Carlisle. «Avrei potuto dire a Benedetta di accompagnarti. Avrei potuto accompagnarti io stesso».
«Non mi va di disturbare e non mi piace dipendere dagli altri. L’ultima volta che mi sono messa nelle mani di qualcuno, dopo mi sono ritrovata a fare la prostituta per sopravvivere».
Carlisle non faceva mai domande alle sue ragazze. L’unica cosa che gli importava sapere era che non avessero avuto guai con la legge. Non per disinteresse, ma per discrezione. Del resto lui non aveva voglia di raccontare in giro la storia di come era diventato zoppo e se qualcuno faceva domande in proposito diventava una belva. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te era la sua filosofia di vita. Adesso, però, posando lo sguardo sugli occhi tristi di Marie Louise, si rammaricò di non sapere nulla di lei e del suo passato. Forse avrebbe potuto aiutarla, anche solo comprandole un’auto.
Un ricciolo corvino era sfuggito all’elastico, glielo sistemò dietro l’orecchio.
«Chiedere aiuto agli amici non è dipendere dagli altri».
Com’era bella la sua bocca. A forma di cuore. Si chinò su di lei, ma Marie Louise si ritrasse. I suoi occhi non erano più tristi, adesso. Erano seri e risoluti.
«Cardinale, noi non siamo amici. Tu sei il mio magnaccio. Un bravo magnaccio, certo, ma pur sempre solo un magnaccio. Ed io non posso permettermi di essere in debito con te. Grazie per il passaggio, è stato molto gentile da parte tua».
Scese dall’auto e percorse il breve vialetto senza voltarsi.
Un magnaccio, solo un magnaccio! Che cazzo significa? Questa me la deve spiegare.
Si ritrovò a suonare il campanello, senza nemmeno rendersene conto. Marie Louise aprì la porta ma non la zanzariera, più stupita che arrabbiata. Lui invece era incazzato nero.
«Ti ho mai trattata da puttana, forse?», l’aggredì.
Lei sussultò, ma rimase salda sulle gambe. Incrociò le braccia sotto al seno, fissandolo attraverso la rete della zanzariera.
«No, Cardinale. Non l’hai mai fatto e, credimi, apprezzo la tua delicatezza. Ma non cambia quello che sono. Così come non cambia quello che sei tu».
Tipico. Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, a quando Eleonora lo aveva accusato di essere solo un criminale, che sfruttava la gente e non l’amava abbastanza per cambiare vita. Aveva cercato di spiegarle che non era solo questo. Aveva cercato di portarla oltre le luci violente e la musica assordante del Goldfinger, accompagnarla nella sua notte tenendola stretta perché non si spaventasse e parlarle di Benedetta, di Thresh e Liam e anche di tanti altri, farle vedere quello che erano al di là della facciata stereotipata che mostravano, regalarle la loro grandezza nascosta. Aveva cercato di dirle che Gesù a suo modo era un infermiere come lei, ma non aveva paura di camminare tra puttane e farisei, né di perdonare ladroni. Una buona cattolica come lei avrebbe dovuto capirlo. Ma Eleonora non aveva voluto ascoltarlo.
E adesso la storia si ripeteva.
«Mamma?».
Marie Louise e Carlisle sussultarono contemporaneamente, ma per motivi diversi. Un ragazzino alto quanto un soldo di cacio era apparso stropicciandosi gli occhi per il sonno.
«Alex, che ci fai sveglio a quest’ora? Dov’è Rebecca?».
«Si è addormentata davanti alla tv».
Marie Louise prese il ragazzino per mano.
«Domani cerchiamo un’altra babysitter. Rebecca si è addormentata davanti alla tv una volta di troppo».
Fece per chiudere la porta, ma si bloccò ricordandosi di Carlisle.
«Adesso capisci perché? Non sono solo quello che vedi».
Gli chiuse la porta in faccia.
Carlisle tornò in auto, dandosi del coglione. Concentrato su se stesso, preoccupato di essere stato trattato come uno stereotipo di bassa lega, non si era accorto che il primo a non essere andato oltre la facciata era stato proprio lui.
Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te.
Gran bel coglione.



«A che ora finiscono le lezioni, oggi?».
«Presto. Alle dieci. C’è l’orientamento professionale».
«Bene».
Erano imbottigliati nel traffico da circa dieci minuti. Per fortuna che erano usciti da casa con largo anticipo. Altrimenti addio orientamento professionale. Zachariasz rivolse uno sguardo di sottecchi a sua figlia, che guardava la strada con aria annoiata. Stamattina si era svegliata di buon umore. Per la prima volta dopo due settimane gli aveva dato il buongiorno senza sputarlo fuori come un boccone amaro impossibile da inghiottire.
«Se avessi preso la moto, sarei già a scuola».
«Già».
Non lo aveva detto in tono arrabbiato o risentito, era una semplice constatazione. Una constatazione appropriata, in fondo. Da quando si era sobbarcato l’onere di accompagnarla a scuola personalmente, Zachariasz trascorreva gran parte del suo tempo in auto e arrivava sempre in ritardo in palestra.
Non puoi tenerla segretata in casa a vita.
Le parole di Carlisle continuavano a ronzargli in testa, da quando avevano discusso di Honey. E anche se Zachariasz non l’avrebbe ammesso mai ad alta voce, suo cognato e sua moglie avevano ragione. Tenere Honey chiusa in casa per sempre non era né pratico, né fattibile. Soprattutto adesso che il liceo stava per finire e presto lei sarebbe andata al college.
«Papà?».
«Sì?».
Honey sganciò la cintura e si sedette a gambe incrociate sul sedile.
«Mi dispiace di averti mentito».
Zachariasz trattenne il fiato per l’emozione. Honey si stava massaggiando il polso destro, significava che aveva bisogno di racimolare il coraggio per dire qualcosa di importante.
Sai, papà. Quando ero bambina e c’era qualcosa che mi spaventava, mi bastava prenderti per mano per far passare la paura. Ero convinta che le fasce rosse sui tuoi polsi fossero magiche e che mi trasmettessero un po’ del tuo coraggio. Adesso anch’io ho delle fasce tatuate sui polsi, ogni volta che le tocco è come se ti prendessi per mano. E a quel punto niente sembra impossibile.
«Avrei dovuto affrontare la questione da adulta e parlarti subito di JD».
Zachariasz si mosse nervoso sul sedile. Slacciò la cintura anche lui, perché percepiva una stretta al petto.
«Sì, avresti dovuto».
«JD ci tiene a me. Non mi ha plagiato. Insomma, tu mi conosci meglio di chiunque altro. Lo sai che sono cocciuta come un mulo e che nessuno può farmi cambiare idea, quando mi metto in testa qualcosa».
«Questo però non mi garantisce che lui non voglia solo approfittarsi di te».
Honey si morse il labbro.
«Non potresti fidarti del mio giudizio?».
«Avrei potuto prima, forse, ma adesso…».
«D’accordo, lo capisco. Allora accetteresti di conoscere JD? Una cena. O un pranzo. O una colazione. O solo una chiacchierata. Qualsiasi cosa. Papà, a me lui piace davvero. E non ho intenzione di rinunciarci. Potrai impedirmi di vederlo fino all’inizio del college, ma poi…».
Zachariasz serrò le labbra.
«Suona come un ultimatum».
«Un po’ lo è, hai ragione. Perché devi capire che sono cresciuta, ormai. E che non potrai tenermi per sempre sotto una campana di vetro».
Devo ricordarti cosa facevi tu, invece, quando hai conosciuto Isa? Credi che io non preferissi un partito migliore per mia sorella? Qualcuno che non avesse a che fare col mio ambiente, magari? Cazzo, Zachariasz. Non dico di prendere la cosa alla leggera, ma almeno vedi di capire che tipo è, prima.
Mannaggia a Carlisle e ai suoi discorsi sensati. Al diavolo, forse si era rammollito. Forse era solo felice che sua figlia avesse deciso di rivolergli la parola. In modo civile ed educato, per giunta.
«Va bene».
Honey sgranò gli occhi. Fremeva come una molla pronta a scattare.
«Va bene cosa?».
«Voglio conoscerlo».
Si stava trattenendo dall’esultare, era palese.
«Quindi potrei invitarlo a pranzo? Diciamo oggi? Invece di venirmi a prendere a scuola, potrei prendere il pullman e andare da lui. Solo per un invito formale», si affrettò ad aggiungere notando l'occhiataccia di Zachariasz. «Poi torno a casa immediatamente. Croce sul cuore».
Lui si allacciò la cintura, la fila di auto davanti a loro stava cominciando a muoversi.
«Metti la cintura, Honey».
«É un sì?».
«Metti la cintura, Honey».
Tornò a sedersi composta sul sedile e fece come ordinato. Nel frattempo la loro auto aveva ripreso a procedere spedita, finalmente.
«Se entro un’ora non sei ancora tornata a casa, l’accordo salta. Intesi?».
Il sorriso di Honey andava da un orecchio all’altro.
«Signorsì, signore!».



«Buongiorno, Darla! Scopato bene, stanotte?».
«Io sì, e tu?».
Honey si bloccò, con gli occhi fuori dalle orbite. JD uscì dal laboratorio proprio in quel momento e lei lo fulminò con un’occhiataccia.
«JD, cazzo! Ma come ti salta in mente di raccontare una cosa del genere a lei?».
Lui la guardò come se fosse pazza.
«Guarda che io non ho raccontato un bel niente a nessuno».
Darla scoppiò a ridere.
«È vero, Honey. Non mi ha detto niente. Avevo solo un sospetto, perché stamattina è entrato in negozio fischiettando. Lui non fischietta mai. E adesso, grazie a te, ne ho avuto la conferma! Congratulazioni, tesoro! Benvenuta nel mondo delle baldracche!».
Le guance di Honey si infiammarono per la rabbia. Prese fiato, decisa a sputare addosso a Darla tutto l’odio che provava nei suoi confronti, ma JD le tappò la bocca con la mano prima che potesse fiatare alcunché.
«Se sei qui, hai parlato con tuo padre, suppongo. Come è andata?».
«Oh, la bimba ha chiesto a papino il permesso di uscire col fidanzatino?», chiese Darla, scimmiottando la voce di Honey e appoggiandosi al bancone con lo sguardo della tipica stronza pettegola. «E cosa ha risposto papino?».
Honey si divincolò dalla presa di JD e scattò in avanti a pugni serrati, ma lui la riacciuffò al volo, la sollevò di peso da terra e la portò in laboratorio. Il tutto mentre quella puttana di Darla alternava attacchi di ridarella a imitazioni della sua voce.
«La odio! Dio, quanto la odio!», esclamò Honey, dopo che JD l’ebbe messa a sedere sulla poltroncina dei clienti come una bambola. «Un giorno o l’altro perderò le staffe e la prenderò a ceffoni. Parola mia!».
JD rise.
«Quel giorno tirerò fuori la vasca che conservo in magazzino per le grandi occasioni e la riempirò di fango».
Honey si imbronciò.
«Ah, ah, ah. Sto morendo dal ridere».
«Allora?», chiese JD, improvvisamente serio. «Come è andata con tuo padre?».
«Molto meglio di quanto mi aspettassi, in realtà. Non credevo che sarebbe stato così semplice. È bastato… parlare».
«Visto?».
Gli angoli della bocca di JD si arricciarono all’insù. Diventava ancora più sexy quando sorrideva in quel modo furbo, se n’era accorta solo la scorsa notte. E ancora non capiva come aveva fatto a non accorgersene prima.
Dopo aver fatto l’amore con lui, si era aperto una specie di terzo occhio sulla sua fronte, che le permetteva di vedere e sentire cose che prima non aveva mai visto o sentito di JD.
«Ha accettato di conoscerti. Sono passata qui per comunicarti che oggi sei invitato a pranzo a casa mia».
Ecco, una delle cose di JD che prima non aveva notato e adesso invece sì era il leggerissimo tic al sopracciglio destro che scattava quando lui era preoccupato. JD manteneva sempre la calma, anche nelle situazioni più critiche, ma agli occhi di Honey, adesso, quel tic lo incastrava peggio di una dichiarazione scritta e firmata in carta bollata.
«Devo mettere la cravatta, o roba del genere?».
Honey rise.
«No, che non devi. Per me vai benissimo così».
Le si fece vicino, vicinissimo.
«Così come?».
Eccone un’altra.
Prima lei non se n’era mica accorta di come i suoi occhi brillavano quando la provocava deliberatamente. Sì, aveva capito che gli piaceva da matti farlo, ma il luccichio non l’aveva mai notato. Un luccichio che la faceva tremare di paura ed eccitazione al tempo stesso. Che la rendeva spregiudicata.
«Così», rispose.
Honey sollevò l’orlo della felpa di JD e solleticò il drago sul mento appuntito. Poi la sua mano salì, sotto il tessuto. Piano, lentamente.
JD la baciò, ovviamente.
Prima non lo aveva capito. Adesso sì. Se accarezzava i suoi tatuaggi, o se semplicemente li guardava come se morisse dalla voglia di toccarli, JD andava subito fuori giri. Quella forse era la scoperta più sensazionale di tutte. Un’arma pericolosa nelle sue mani inesperte, che però Honey aveva intenzione di imparare a usare come si deve nel più breve tempo possibile.
L’ehm ehm di Darla li interruppe per la seconda volta nel giro di due settimane.
Cazzo, ma allora dillo che lo fai a posta!



«Oh, chi non muore si rivede!».
Merda!
Suo padre l’aveva messa in guardia. Se rivedi i tipi che si sono presentati in palestra, scappa come se avessi il diavolo alle calcagna, mi hai capito bene? Quel giorno però era ancora incazzata con lui, così non aveva prestato molta attenzione al suo avvertimento, né tanto meno gli aveva chiesto spiegazioni. Trovarseli lì, al negozio di tatuaggi, la fece pentire amaramente di non averlo fatto. Soprattutto perché si era accorta del tic al sopracciglio di JD.
«Tuo padre lo sa che sei nel territorio dei Coyote?», chiese quello alto, che sembrava sempre sul punto di scoppiare a ridere. Dio, quella specie di sorrisetto le faceva venire i brividi! Che cazzo volevano da JD? Non avevano l’aria di essere interessati a un tatuaggio.
«È una cliente che se ne stava andando», si intromise JD. «Il tatuaggio che mi ha chiesto era troppo idiota per la fama di questo negozio. Darla, ti spiace accompagnarla fuori?».
«No, affatto. Ne approfitto per fumare una sigaretta».
Darla prese Honey sottobraccio e la strattonò con forza.
«Andiamo, tesoro. Questo posto non fa per te».
«Ma… aspetta, devo dire una cosa a JD! È importante».
«Spiacente, le farfalle sulla patata non sono più disponibili per oggi».
Honey rivolse un’occhiata implorante a JD, che invece scosse la testa con aria mortalmente seria. Darla riuscì a trascinarla fino alla porta. Quando passarono accanto al tizio basso e silenzioso, che se ne stava fermo e impalato di fianco all’uscita, a braccia conserte come un buttafuori, Honey intravede un segno rosso sotto al colletto della camicia, come una specie di…
MERDA!
Erano ormai fuori dal negozio, quando Honey puntò i piedi a terra e costrinse Darla a fermarsi.
«Ragazzina, possibile che tu sia così stupida? Non hai capito l’antifona?».
«Ho capito molto di più, invece! Quei due fanno parte della banda dei Polacchi, l’ex banda di mio padre. Non possiamo lasciare JD da solo con loro, sono pericolosi!».
«Hai scoperto l’acqua calda, stronzetta! Adesso ascoltami bene, corri a casa senza fermarti. Nel frattempo io andrò subito da Halona a chiederle aiuto».
«Ma…».
«Niente ma! JD sa badare a se stesso e lo farà meglio se saprà che sei al sicuro. Perciò non costringermi ad accompagnarti di persona a casa, perché perderei del tempo prezioso e andrebbe tutto a svantaggio di JD».
Honey fece per aprire bocca, ma ci ripensò. Si limitò ad annuire, massaggiandosi il polso destro.
«Mi prometti che JD starà bene?».
Darla sorrise. E per una volta non in quel modo odioso che rivolgeva solo a Honey.
«Parola di Darla».



Darla non metteva piede al Coyote Club da sette anni, dal giorno in cui Halona l’aveva licenziata come barista perché aveva scoperto che era andata a letto con suo marito Shiriki. Halona non le era mai piaciuta, una vecchia acida e incartapecorita senza un briciolo di senso dell’umorismo. Tutti a chiedersi come mai lei non avesse ancora mandato a cagare quel porco di Shiriki. Il vero mistero invece era come mai quel porco di Shiriki, la simpatia fatta persona, non avesse ancora mandato a cagare quell’incagabile e intrattabile arpia che non rideva mai.
Entrò di corsa nel locale. Sapeva che a quell’ora della mattina c’era solo la proprietaria. E al massimo Shiriki. E difatti trovò Halona dietro al bancone, intenta a studiare i libri contabili. Aveva un nuovo tatuaggio intorno al bicipite, una striscia nera simile alle fasce di stoffa che si mettono sopra i vestiti per esternare il lutto: era stato fatto da poco, perché la pelle era ancora arrossata. Quando Halona sollevò lo sguardo e vide Darla, la sua bocca, se possibile, si serrò ancora di più di quanto non fosse già normalmente.
«Hai voglia di morire, per caso?».
«No, ma si tratta di…».
«Non me ne fotte un cazzo perché sei qui. Per quanto me ne importa potresti finire sotto un treno».
Darla sbatté il pugno sul bancone.
«Cazzo, fammi parlare!».
«Osi darmi degli ordini? FUORI DAL MIO LOCALE, PUTTANA!».
«Cos’è tutto questo trambusto?».
Shiriki veniva dal retrobottega, con la solita aria pacifica di chi ne ha combinata una bella grossa e cerca di non dare nell’occhio. Come al solito portava una giacca elegante, sopra a un gilet colorato e a un paio di blue-jeans scoloriti. Ma cazzo se era invecchiato parecchio dall’ultima volta che l’aveva visto! Era molto più stempiato e la lunga treccia ormai era completamente brizzolata (quando lo aveva conosciuto c’erano solo due pennellate di grigio sulle tempie). In compenso il ragnetto tatuato sopra il sopracciglio e l’orecchino all’orecchio destro erano ancora al loro posto. Per un istante Darla rivide le mani callose e tatuate di Shiriki sui suoi seni ed ebbe un fremito. Darla, non adesso.
«Stanne fuori, Shiriki. Non sono cose che ti riguardano», abbaiò Halona.
Ovviamente lui la ignorò. Il sorriso che rivolse a Darla aveva mille sottointesi. Era una delle prime cose che l’avevano attratta di lui. Insieme al suo modo di fare che era uno strano miscuglio tra il vecchio porco e il signore elegante.
«Oh, guarda chi si rivede. La Ragazza Con La Giarrettiera. Quanto tempo! Che ci fai qui?».
«Non ci fa niente qui, se ne stava andando».
«No, che non me ne vado, fottuta stronza. Pensi che mi faccia piacere rivedere la tua faccia da vecchia arpia? JD è nei guai».
A giudicare dalla sua espressione, Halona era sul punto di sputarle addosso, ma nel sentire il nome di JD si bloccò e aggrottò la fronte. Anche Shiriki si era fatto improvvisamente serio.
«E perché non lo hai detto subito? Che tipo di guai?».
Cristo, che voglia di prenderla a sberle!
«Perché non l’ho… ah, lasciamo perdere. Due della banda dei Polacchi sono entrati nel negozio. Avevano fasce rosse intorno al collo. Immagino anche intorno ai polsi, ma non sono riuscita a vederle».
Halona e Shirki si guardarono. «Squadra di persuasione», dissero contemporaneamente.
«Vai a chiamare Sam e Bruce», disse Halona a Shiriki. «Io vado avanti con Darla».
Shirki annuì. «Ci vediamo al negozio di tatuaggi».
«Andiamo», disse Halona a Darla. «Prendiamo la mia auto».



Meno di cinque minuti e il pullman che l’avrebbe portata a casa sarebbe passato davanti alla fermata. Honey se ne stava seduta sulla panchina rigida come un pezzo di legno, massaggiandosi ossessivamente il polso destro. Cristo santo, com’era difficile fare la cosa giusta!
Pensare che in quel preciso istante JD era da solo, in balia di quei due bastardi… Si prese la testa tra le mani, per la frustrazione. Continuava a rivedere lo sguardo amareggiato di suo padre mentre le raccontava della banda dei Polacchi, dei crimini che aveva commesso quando ne faceva parte, e le veniva da piangere. Ma Darla aveva ragione, che cosa poteva fare lei per aiutare JD? Sapeva tirare qualche pugno, ma affrontare due tizi come quelli era tutto un altro paio di maniche.
Non poteva nemmeno chiedere aiuto a suo padre, perché quella mattina, da brava idiota quale era, presa dall’euforia di aver chiarito con lui, aveva dimenticato di farsi restituire il cellulare che le era stato sequestrato. E non c’erano cabine telefoniche, in quella zona. O meglio, c’erano, ma erano state tutte vandalizzate e distrutte. Cazzo, cazzo, cazzo! Avrebbe dovuto dire a Darla di telefonargli. Perché non glielo aveva detto? Perché era una cretina.
Sta’ tranquilla. JD se la caverà, lui ha sempre tutto sotto controllo. In fondo, non è mica detto che quei due siano andati da lui con l’intenzione di fargli del male, no? A tuo padre non hanno fatto niente, l’altro giorno.
Ma c’era il tic al sopracciglio destro che la perseguitava. Se perfino JD era preoccupato, allora la situazione era grave. L’unione fa la forza, in fondo. Due inesperti contro due esperti erano sempre meglio di uno inesperto contro due esperti. Honey sapeva dove JD teneva Gina: se fosse riuscita a sfrecciare dentro al negozio, cogliendo i due tizi alla sprovvista, forse sarebbe riuscita ad arrivare fin dietro al bancone e ad afferrarla. A quel punto, con un’arma in mano, lei e JD avrebbero avuto il coltello dalla parte del manico.
In fondo alla strada apparve il pullman.
Non è un piano malvagio, si disse massaggiandosi il polso destro, può funzionare. Una botta in testa ciascuno, poi avrebbero chiamato la polizia e i due stronzi non avrebbero più dato fastidio a nessuno, né a JD, né a suo padre. E poi, in ogni caso, Darla era andata a chiamare i rinforzi, giusto? Anche se le cose non fossero andate come previsto, lei e JD avrebbero dovuto soltanto guadagnare del tempo fino all’arrivo dei Coyote. Sì, poteva farcela. Era un buon piano.
Le porte del pullman si spalancarono di fronte alla fermata.
Ma Honey era già corsa via.



«Certo che ti tratti bene, eh, JD? Quella commessa è proprio una gran sventola. Quante volte al giorno te lo succhia, il cazzo? Perché ha proprio la faccia di una che adora succhiare i cazzi. E poi ho sentito dire che ha la fama di essere una gran troia».
JD non aveva nessuna intenzione di stare al suo gioco e rispondere alle provocazioni. Preferiva concentrarsi sull’individuare una via di fuga. Gina era nascosta dietro al bancone, ma tra lui e il bancone c’era Stanlio. Ollio se ne stava a braccia conserte accanto alla porta, placido e silenzioso come sempre, ma JD sapeva che se avesse tentato di uscire, lui lo avrebbe acciuffato e ributtato dentro immediatamente.
«Che poi sei pure ingordo! Non te ne basta una? Pura la figlia di Zachariasz! Com’è che non ti ha ancora ammazzato, tra l’altro? Zachariasz è sempre stato gelosissimo delle sue cose».
«Non so di cosa parli».
Il sorrisetto di Stanlio si accentuò sugli angoli.
«Non crederai che mi sia bevuto la messa in scena della cliente, vero? Ollio, la mascotte dei Coyote pensa che io sia stupido, ci pensi?».
Ollio non rispose.
«In ogni caso a me non importa chi ti scopi. A me importa che ci dai quello che ci devi».
«Io non vi devo niente».
«Oh, oh, oh. Io invece credo di sì». Stanlio aggirò il bancone e vi si appoggiò sopra con entrambi i gomiti. Sempre col sorrisetto sulle labbra, nonostante l’aria annoiata. «Sei sul territorio dei Polacchi e i Polacchi pretendono una piccola tassa dagli esercizi commerciali che si trovano sul loro territorio. Sai, in cambio di protezione».
«Ti sei sbagliato, forse. Non siamo a Greenpoint. Williamsburg Nord è il territorio dei Coyote».
«Ancora per poco».
«E non ho bisogno di protezione».
«Ah, davvero? Ti senti forte perché…», con una mano frugò sotto al bancone, «…hai questa?».
Impugnò Gina per il manico e con due colpi secchi fece schiantare a terra prima il registratore di cassa e poi il telefono. Nonostante il baccano infernale JD non fece una piega. Stanlio ridacchiò.
«Guardalo, Ollio. Gioca a fare il duro. Non ti fa tenerezza? A me sì». Sollevò lo sguardo, in direzione della foto di Wile Coyote. «In questo sei identico a tuo nonno. Nemmeno lui perdeva le staffe davanti alle manifestazioni di violenza. E quando ti menava, lo faceva con calma, senza scomporsi, come se stesse facendo saltare le patate in padella. Io lo so per esperienza».
«Già, mi ha raccontato di quella volta che te l’ha messo nel culo».
Il perenne sorrisetto scomparve dal viso di Stanlio, contraendosi in una smorfia rabbiosa. Ma durò solo per un fugace istante. Poi il sorrisetto tornò ad arricciargli gli angoli della bocca, più inquietante che mai. Ollio intanto si stava avvicinando lentamente a JD. Stanlio lo imitò, mulinando Gina e fischiettando.
«Ti hanno mai raccontato come mai Ollio non parla più? No? Strano. Povero Ollio, a lui piaceva chiacchierare, ma più di tutto, gli piaceva fare il duro. Proprio come a te. Il problema di Ollio era che quando faceva il duro, diventava impulsivo. E siccome era anche un chiacchierone… Capirai che non era quella che si dice una combinazione vincente».
JD indietreggiò. Alle sue spalle c’era l’entrata del laboratorio. Davanti a lui Stanlio e Ollio formavano una parete invalicabile.
«Un giorno Ollio fa il duro col tizio sbagliato. Insulta sua madre, sua moglie, sua figlia e fa pure lo sbruffone, lo chiama finocchio». Stanlio sospirò, affranto, scuotendo la testa in direzione del compagno. «Ollio, ma che ti diceva la testa, eh?».
JD ne approfittò per scappare in laboratorio. Non c’erano uscite lì, ma forse poteva guadagnare tempo.
«Dove vai? Non vuoi sentire come finisce la storia?».
Fece appena in tempo a trovare la mazza da golf di Darla, quella lei che aveva chiamato come Tiffany perché…
Il colpo alla schiena lo freddò come una pistolettata. Cadde sulla poltroncina dei clienti, il dolore talmente agghiacciante da non riuscire nemmeno a urlare. Stanlio era sopra di lui e soppesava la mazza con una mano.
«Allora, dov’ero rimasto? Ah, sì. Il tizio sbagliato, però, aveva tanti amici. Tizi sbagliati anche loro. E indovina un po’? Ognuno di loro aveva una mazza, proprio come questa».
JD si era appena rimesso faticosamente in piedi. Schivò il secondo colpo per un pelo, sentendo l’aria sibilare alla sua sinistra. Ma si era dimenticato di Ollio, che nel frattempo aveva caricato un pugno potentissimo contro il suo stomaco. JD si piegò su se stesso, sputando fuori aria e saliva. A quel punto schivare Gina divenne impossibile: JD cadde a terra sotto le mazzate di Stanlio e i calci di Ollio, con la sensazione di essere stato travolto da una valanga di massi.
«Quando poi si sono stancati di pestarlo, uno di loro si è tastato le tasche del giubbotto e ci ha trovato dentro un tagliacarte. Ora, a questo punto credo non sia difficile per te intuire come lo hanno usato, quel tagliacarte, vero? Ollio non parla, il tagliacarte taglia le cose…». Stanlio si guardò intorno, con sguardo perplesso. «Ollio, vedi un tagliacarte nei paraggi?».
Ollio ovviamente non rispose. Stanlio si rivolse a JD. Col sorriso sulle labbra.
«Sai mica dove posso trovare un tagliacarte?».



Tic tac, tic tac. L’orologio sulla parete della cucina scandiva il tempo. Ad ogni tic tac corrispondeva un piccolo passo in avanti della lancetta dei secondi e un ulteriore aumento del ritardo di Honey.
Zachariasz si sentiva parecchio idiota, adesso. Ripensava alla conversazione di qualche ora prima, all’espressione contrita di Honey che lo aveva quasi fatto commuovere, e non riusciva a credere di essersi fatto infinocchiare come un pivello. C’era stato un tempo in cui nessuno, nemmeno il più miserabile degli esseri umani, era capace di intenerirlo. Nel suo campo era sempre stato uno dei più duri. Ora, invece, sua figlia faceva il bello e il cattivo tempo con lui, senza nemmeno sforzarsi tanto.
«Magari ha mancato di poco il pullman e ha dovuto aspettare quello successivo, vedrai che sarà qui a momenti».
«C’è un pullman ogni dieci minuti, Isa. È in ritardo di mezz’ora, è ovvio che mi ha preso in giro un’altra volta».
Aveva chiamato di nuovo Connor, ma lui gli aveva garantito di non sapere nulla. Non si fidava, però. Connor e sua figlia avevano fatto pace di recente. Difficile che il ragazzo facesse nuovamente la spia, adesso che si erano chiariti. Zachariasz si alzò dalla sedia e indossò il cappotto.
«Dove vai?».
«Secondo te? A riprendermela».
Quel porco di un tatuatore avrebbe fatto presto i conti con lui.
Isa sospirò.
«Zachariasz…».
«Non cominciare. Lo sforzo di capirla l’ho fatto. Non puoi dire che non l’abbia fatto. Lei mi aveva promesso che si sarebbe comportata da adulta d’ora in poi. Be’, non rispettare i patti non è comportarsi da adulta».
«Sono convinta che ci sia una spiegazione valida».
Zachariasz prese le chiavi dell’auto.
«Lo scopriremo presto».
Isa si mise davanti alla porta, una profonda ruga di preoccupazione le attraversava la fronte.
«Promettimi che non perderai le staffe».
«Lo sai che non posso promettertelo».
Pugni puntellati sui fianchi. Espressione torva. Di nuovo la somiglianza di Isa con sua figlia lo mise fuori gioco per qualche istante.
«No, tu non vuoi promettermelo. È diverso».
Zachariasz roteò gli occhi.
«Farò del mio meglio per non perdere le staffe. È il massimo che posso promettermi».
Isa sorrise, si alzò sulle punte dei piedi e posò un bacio leggero sulle sue labbra.
«Bravo il mio ometto!».
Una volta messa in moto l’auto, Zachariasz non riuscì a fare a meno di pensare che Honey non era l’unica capace di infinocchiarlo come se nulla fosse. Doveva essere una specie di carattere ereditario. E lui, invece, stava proprio invecchiando.



Questa volta era veramente fottuto. Spalmato come marmellata sul pavimento del laboratorio, JD passò in rassegna tutti gli insegnamenti di Wile. Doveva essercene almeno uno che potesse aiutarlo a venire via dalla merda fino al collo in cui era cascato. Ma Non immischiarti negli affari dei Coyote e camperai cent’anni era l’unico consiglio che gli veniva in mente in quel momento. Peccato che ormai fosse troppo tardi.
Il suo corpo non doleva, bruciava. Era come trovarsi su un letto di carboni ardenti: da qualsiasi parte si girasse, la sua pelle si ustionava e le sue ossa si scioglievano per il dolore. Sentire male è positivo, significa che il tuo corpo funziona ancora. Be’, vaffanculo, Wile. Stavano per ammazzarlo, sapere che il fottuto male che provava era positivo non gli era di consolazione.
«No? Niente tagliacarte? Che peccato». Stanlio stava ancora sorridendo. Estrasse un coltello a serramanico e fece spallucce. «Vorrà dire che mi manterrò sul tradizionale».
Almeno Honey e Darla sono al sicuro.
Ecco, quella sì che era una bella consolazione.
«Allontanati da lui, subito!».
Incredibile, anche sgranare gli occhi gli procurava dolore. Non poteva essere la sua voce, quella. Vero? Ti prego, fa’ che non sia lei.
«Ollio, guarda chi è tornata a farci compagnia». Stanlio si rivolse un attimo a JD. «Visto che non era solo una cliente?».
Imprecare non gli fece male, ma non servì nemmeno a farlo stare meglio. Sollevò il capo, ignorando le fitte alla spina dorsale (sembrava che gli avessero piantato dei chiodi tra le vertebre), e ovviamente lei era là, accanto alla tenda scostata che divideva il laboratorio dalla sala d’attesa. Guardava Stanlio dritto negli occhi, ma si stava massaggiando il polso destro. Mai fare capire al tuo avversario di avere paura, Wile glielo ripeteva sempre, quando era bambino.
«Honey, vattene via», biascicò.
Ma naturalmente lei lo ignorò.
«Ho chiamato la polizia, saranno qui a breve. Vi conviene andarvene».
Oh, merda. Merda, merda, merda!
Stanlio scoppiò a ridere.
«Ollio, la bimba sta cercando di bluffare».
«L’ho chiamata sul serio e ho raccontato tutto quello che so su di voi e la vostra banda, siete in grossi guai».
JD provò ad alzarsi.
«Honey, ti prego, vai via!».
«Ollio, per piacere, non riesco a pensare con questo fastidioso ronzio di sottofondo».
Il calcio sui denti arrivò immediatamente, implacabile. Il dolore esplose sulla sua faccia come una granata: un gigantesco boom all’inizio e una pioggia di schegge subito dopo. E proprio come dopo la detonazione di una bomba, il dolore lo rese sordo. L’urlo di Honey veniva da lontano, le sue orecchie sembravano tappate con l’ovatta.
«Sai cosa stavo pensando, Ollio?».
Ollio non rispose.
«Questa ragazza, guardala bene. È tre cose in una: la figlia di Zachariasz, la nipote del Cardinale e la puttanella della mascotte dei Coyote. Riesci a vedere le sue potenzialità, Ollio?».
Silenzio.
«Be’, io sì».
«HONEY, SCAPPA!».
E finalmente lei gli diede retta.
Purtroppo Ollio, nonostante la sua mole, era molto più veloce. La raggiunse immediatamente e l’acciuffò per i capelli. Honey strillò, provò a divincolarsi scalciando a destra e sinistra, ma la presa di Ollio era salda.
«Mi rincresce, piccola. Ollio ha una fissa per i capelli delle ragazze, adora afferrarli e tirarli».
Stanlio si stava godendo lo spettacolo di Honey immobilizzata come un gattino preso per la collottola, perciò gli stava dando le spalle. Mai arrendersi, se vedi una breccia infilatici dentro a razzo, disse Wile nella sua testa. Così, in un ultimo disperato tentativo, JD afferrò Gina che era stata abbandonata lì vicino, alla sua portata, sul pavimento. Chiamò a raccolta le ultime forze rimaste e scattò in piedi. Alzò la mazza sopra la testa, pronto a colpire, ma Stanlio si voltò. E sorrise. JD si scagliò ugualmente contro di lui. Purtroppo però aveva perso l’effetto sorpresa, le sue braccia erano fatte di pongo e al posto delle gambe aveva due blocchi di cemento. Stanlio schivò il colpo, lo disarmò con una facilità inaudita e una volta venuto in possesso della mazza, ricambiò subito con…
Buio.







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Note autore:
Ed eccoci qui, al giro di boa. Con questo capitolo comincia la seconda parte di Rovi & Rose, che sarà un po’ movimentata.
Bushwick è un altro quartiere di Brooklyn.
Il passaggio “Aveva cercato di portarla oltre le luci violente e la musica assordante del Goldfinger, accompagnarla nella sua notte tenendola stretta perché non si spaventasse e parlarle di Benedetta, di Thresh e Liam e anche di tanti altri, farle vedere quello che erano al di là della facciata stereotipata che mostravano, regalarle la loro grandezza nascosta. Aveva cercato di dirle che Gesù a suo modo era un infermiere come lei, ma non aveva paura di camminare tra puttane e farisei, né di perdonare ladroni” è stato preso in prestito (con i dovuti riadattamenti) da una storia di Dragana, che purtroppo è stata cancellata. Grazie a lei per avermi dato il permesso!
E come sempre un enorme grazie a tutti voi, che seguite/ricordate/preferite/recensite o anche solo leggete Rovi & Rose.
A lunedì!
   
 
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