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Autore: makemeup    11/03/2014    0 recensioni
Esiste una persona a cui non piace sentirsi apprezzati in società? La mia risposta è: No!
Ma poi, una volta spazzato via lo strato di nebbia condensata dalla mia mente, mi sono resa conto di quanto stupido fosse mescolarsi alla massa. Fare parte di un gregge belante che si sposta in contemporanea sempre nella stessa direzione, e cioè verso un dirupo di qualche migliaio di metri a cui non si può sopravvivere.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Threesome, Triangolo
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CAPITOLO 1

 

In ogni scuola, all'interno di qualunque classe, tra il branco di adolescenti -simil scimioni, per la maggior parte- che affollano gli stretti corridoi,  c'è sempre qualche individuo che scorre veloce tra i coetanei, preoccupandosi di schivare ogni minimo contatto con estranei. Preoccupandosi di rendersi invisibile agli altri, come un fantasma. Fantasma di cui si percepisce la presenza ma che non riesci a vedere perché, ancora prima del suono della campanella, segno che i pochi minuti di libertà messi a disposizione per gli studenti più scansafatiche, sono terminati, saranno sgattaiolati in classe per occupare il loro solito posto. ultimo banco, posto affianco al muro, fatto a posta per adagiarvici la schiena, fissare il soffitto ed iniziare a fantasticare.
Ecco, io sono uno di quei fantasmi. Una "razza" in estinzione, ormai. 
Il mio nome è Miranda, scelto dai miei genitorì perché rubato al personaggio Shakesperiano nel dramma "La Tempesta", almeno, questo è ciò che il mio vecchio professore di letteratura ha cercato di farmi credere nel corso del suo intero anno lavorativo. Non conoscendo i miei genitori. Probabilmente mia madre avrà preso spunto da una delle protagoniste di Sex and The City. Ogni volta che entro in salotto e papà è a lavoro, la trovo lì, sognante, e sono quasi certa che di fronte a quei finti amori e inciuci vari lei desideri abbandonare questa monotonia per qualche riccone e dei vestiti firmati. 
Ma tornando a noi. O meglio a me, Miranda, adagiata a quel muro, non posso fare a meno di pensare: "Ah, la mia povera generazione!". 
L'esibizionismo e lo scarso pudore per se stessi la fanno da padrone. Non che io mi reputi superiore. Non lo sono, questo è un dato di fatto, ma con non poca autostima -almeno in questo campo- arrivo a identificarmi come uno dei pochi adolescenti intenzionati a mettere in moto la materia grigia quando serve, invece di aprire le gambe al primo lurido, viscido scarafaggio in preda agli ormoni che passa di lì per caso.
Quanto astio nelle mie parole, direte. Beh se non siete più adolescenti non capirete, e se lo siete probabilmente appartenete a quel gruppo da me sopra disprezzato. Quindi tanto vale salutarci adesso.
Non ho mai avuto il coraggio di dire a qualcuno tutto ciò che penso della gente con cui sono costretta a convivere ogni giorno per circa 6-7 ore e con la quale mi è stato consigliato di intraprendere discorsi insulsi che, all'interno della mia vita, non sono di alcun peso.
Il consiglio è arrivato dalle crespe labbra dei miei genitori che, semplicemente, credono sia io quella strana. Quella poco interessante. Quella che viene esclusa dal resto del mondo, in cui i brufoli spopolano, perché considerata uno scarto. Peccato -o per fortuna, dipende dalla prospettiva in cui si guarda tutto ciò- che sia io quella che ha scelto di restare in disparte.
Okay okay! basta fare la sbruffona, lo ammetto: Ho cercato ed ottenuto anche io il mio momento di gloria in questo mondo costruito con strati di make up, addominali scolpiti, alcol, droghe e bestemmie a non finire.  Esiste una persona a cui non piace sentirsi apprezzati? La mia risposta è: No!
Ma poi, una volta spazzato via lo strato di nebbia condensata dalla mia mente, mi sono resa conto di quanto stupido fosse mescolarsi alla massa. Fare parte di un gregge belante che si sposta in contemporanea sempre nella stessa direzione, e cioè verso un dirupo di qualche migliaio di metri a cui non si può sopravvivere.
Avevo fatto la mia scelta. Avevo prediletto il rimanere sola, come il cane che sentivo ululare ogni notte dalla mia cameretta, all'amalgamarmi agli altri ed alla conseguente morte della mia personalità.
Ed ora sfreccio in mezzo ai corridoi con la speranza che nessuno metta gli occhi sul completo disastro che sono.
Ripensandoci, anche da piccola, non c'era mai stata una cosa che facessi senza correre, metaforicamente parlando, ed è tutt'ora così. 
Dalle cose basilari come camminare o leggere, a quelle un po' più difficili da intitolare come "pregio", in una persona.
Come ad esempio parlare. Parlare non era affatto il mio forte, sopratutto se dovevo confrontarmi con qualcuno che non conoscevo abbastanza o che, agli occhi degli altri, poteva essere definito migliore di me. Il che capitava e capita ancora adesso troppo frequentemente.
Tendo a farmi prendere dal panico. I miei pensieri entrano in confusione e non so più cosa dire. Ma c'è una cosa molto più imbarazzante. Si tratta della velocità con cui espongo i miei pensieri, una raffica di parole che inizia una vera e propria lotta con il muscolo che è la mia lingua. Ho attribuito tutto ciò al pensiero che a nessuno importi ciò che dico. Così, semplicemente, mi armo di fiato e sputo tutto il più velocemente possibile facendo un favore a me e a chi mi ascolta.
Noiosa. Ansiosa. Asociale. Psicologicamente instabile.
Tutti aggettivi attribuitimi da me nel corso degli anni. Devo ancora capire se sono riuscita a diagnosticarmi qualcosa di reale ma, probabilmente, è così.
Driiin! Driiin!
Il suono della campanella mi distoglie dai miei soliti pensieri con rassegnazione, sapendo che torneranno a farmi visita almeno un altro paio di volte nel corso del resto della giorno.
Il mio sguardo si posa verso l'orologio, nero e rotondo, posizionato proprio sopra la cattedra color avorio. Le 12:00. Oggi orario corto.
L'aula è già completamente vuota. Persino la professoressa di lingua francese è già scappata verso casa. Forse con il pensiero di assaporare il mitico piatto di escargots che lei sempre vanta.
    << Siamo rimasti solo io e te, tic tac, come al solito eh? >>
Scuoto la testa quando mi accorgo di essermi fermata a parlare con un orologio. Effettivamente non c'era da stupirsi se molto spesso venivo definita stramba.
L'ultima volta cui mi era stato attribuito questo aggettivo era stato esattamente 2 ore fa, durante la ricreazione. 
Camminavo a passo svelto -che novità- verso la macchinetta del caffé, approfittando della pace di quei pochi attimi, quasi tutti gli alunni erano infatti occupati a fumare nei bagni con nonchalance.
Solo due ragazzi, sul ciglio della porta che portava alla loro aula, osservavano ogni minimo spostamente nei dintorni. Me compresa.
Io abbassai la testa, in modo da non poter captare i loro sguardi su di me. 
Peccato Dio si sia dimenticato un piccolossimo dettaglio da aggiungere all'interno di una macchina così ben elaborata come il corpo umano. Un comando per poter decidere cosa ascoltare e cosa no.
I due, diversissimi tra loro -Uno di loro era biondo, occhi azzurro cielo e pelle chiarissima, quasi di porcellana. L'altro era dotato di occhi color ambra, capelli del colore della pece portati davanti in su e una carnaggione decisamente più scura dell'amico-, stavano esplicitamente commentando il mio aspetto fisico, definendomi "passabile" o giù di li "se non fosse così stramba e non si vestisse come una dodicenne". C'era stato un attimo di silenzio, mentre accelleravo visibilmente, canticchiando tra me e me nel disperato tentativo di confondere quelle voci fino all'arrivo.
Tutto qui. Ero tornata in classe, trovando il coraggio di lanciare un occhiataccia ai due, prima che la mandria, inebriata dalla nicotina e Dio solo sà cos'altro, tornasse in classe.
Raccolgo i quaderni e mi dirigo verso casa anche io. Fortunatamente si trova a pochi metri dalla scuola, quindi è una buona scusa ber sgranchirmi le gambe e far tornare in circolo il sangue dalla vita in giù.
Al mio ritorno la casa è completamente vuota. Sempre impegnati mamma e papà
Sospiro aprendo il frigo ed osservando il suo contenuto così poco invitante.
    << Per oggi passo >> Affermo estraendo libri e quaderni dalla mia ormai sfruttatissima borsa a tracolla e quasi scaraventandoli sul piano di lavoro aderente al frigorifero con lo sportello aperto. Ancora per poco. Un colpo di tallone e puff si chiude lasciandomi spazio per addentrarmi in soggiorno ed abbandonare le ballarine sul tappeto persiano, il gioiellino di mamma, guai a chi glielo tocca. Alcune volte ho persino paura a camminarci sopra.
L'ira della donna che mi ha messo al mondo è qualcosa di così terrificante da subire che non riuscirei ad augurarla nemmeno al mio peggior nemico. Per questo, con lei, la miglior tattica è sottomettersi.
Con papà invece è tutta un'altra cosa. E' lui che depila gambe ed inguine per indossare un gonnellino in questa casa, mentre mia madre porta i pantaloni.  Ed il fatto che lavorino entrambi nello stesso luogo, un aeroporto tra i più grandi del paese e, di conseguenza, guadagnino allo stesso modo, indebolisce sempre di più la virilità -se così posso chiamarla senza essere percossa da conati di vomito- di mio padre.
Mi sdraio sul lungo divano di pelle rosa sbiadito e chiudo gli occhi una manciata di secondi destinati a diventare ore.
Un frastuono, delle urla, mobili che venivano percossi.
Non potei fare a meno di alzarmi. Quei rumori, benchè da piccola sosia della bella addromentata nel bosco -o meglio, sul divano- non riuscissero ad essere ben distinti, riuscivano probabilmente a disturbare la quiete nel raggio di 5 km.
Provenivano dalla camera da letto quelle voci esasperate che conoscevo così bene. Cioè dal piano di sopra. Piano che conteneva solamente, oltre appunto alla camera dei miei, un bagno. E nessuna persona sana di mente, per quanta confusione potesse esserci nel mezzo di un litigio, si sarebbe sognata di andare a discutere in una toilette.
Non sapevo che fare, così decisi di muovere qualche passo verso la scala di legno di ciliegio, aggrapparmi alla ringhiera e tendere l'orecchio.
Mia madre piangeva, ed il rumore di alcuni passi calcati sussisteva, ma non riuscivo ad udire più nessuna parola. Rimasi lì, con il cuore chescaplitava quasi volesse scappare via, ed io sarei volentieri scappata via con lui, ma non avevo mai assistito a qualcosa di così raccapricciante. I miei genitori erano sempre andati d'amore e d'accordo. Le discussioni futili, riguardanti il colore della moquette e simili, c'erano state, ma questa riusciva a mettermi i brividi. Credo nessun adolescente desideri che i propri genitori si lascino. Io avevo sempre avuto questo terrore, nonostante preferissi passare gran parte del tempo nella mia stanza che con loro, perché mamma e papà erano e sono il mio unico supporto morale. 
Una porta che sbatte, passi svelti quasi quanto i miei che percorrevano la scala, i miei occhi nei suoi.
Un sussurro: "Torno presto, bambina mia"
Svelto svelto, quasi non volesse farsi notare, in contraddizione con i suoi passi pesanti e rumorosi, giacca di velluto nera e valigetta 24 ore alla mano,aprì la porta d'ingresso e sparì.
In sottofondo il pianto di mia madre proseguiva, ma io ero ancora troppo confusa per capire cosa fosse appena accaduto.
Ecco, è come una bella torta di compleanno. Fiorellini, glassa, scritta raffinata con tanto di "tanti auguri, ti vogliamo bene", così bella che ti dispiace tagliarla. Ma poi arriva il momento, tutti hanno fame, e allora la riduci a fette. La bellezza nel suo complesso svanisce, ma rimane buona.
Pensai proprio di fare di questa metafora il mio stile di vita d'ora in poi, perché qualcosa mi diceva che non avrei mai più rivisto mamma e papà assieme. Alle 21:39 scoprii che in parte avevo ragione.
Mamma era scesa per preparare la cena. Preparò per 3, e questo mi fece intuire che papà sarebbe tornato. In quel momento tornai a sorridere, e nonostante lei non avesse voluto raccontarmi niente dell'accaduto, decisi che ea giunto il momento di raccontare il resoconto della mia giornata per alleggerire la tensione.
Erano le 9 e mezza esatte quando il telefono fisso squillò. Orario di cena per noi, così pensai che fosse papà che chiamava per avvertire del ritardo.
Avevo appena finito di apparecchiare la tavola, posizionando l'ultimo bicchiere sul mio lato della tavolata, quando mamma mi suggerì di iniziare a cenare. Cambiai supposizione mentre lei saliva le scale per raggiungere il telefono. La telefonata sarebbe stata lunga, quindi era per certo una delle sue amiche, che mi scambiavano sempre per una bimba delle elementari regalandomi cioccolatini a forma di animaletto.
Accesi la televisione come di consueto. Il telegiornale regionale stava annunciando una news. Un tratto dell'autostrada era stato chiuso a causa di un grave incidente in cui il solito alcolista al volante aveva perso la vita. Pensai alla sua famiglia, magari aveva una moglie e dei figli. Un'esistenza rovinata e per cosa?
Sbloccai lo schermo del mio cellulare probabilmente proveniente dal paleozoico, non era certo all'ultima moda come quello dei miei compagni di scuola, ma ricevere chiamate da mia madre era l'unico suo utilizzo, per cui era più che idoneo. Segnava le 21:39. Chissà quanto avrebbe tardato papà.
Mia madre stava scendendo le scale, perché avvertii i suoi passi leggeri contro il legno lucido. Mi voltai sorridendole, e lei simulò una scivolata, facendo si che i suoi capelli biondi coprissero il suo volto. Si teneva stretta al passamano come un'anziana donna che non si regge più sulle gambe da anni. Continuai a seguire i suoi movimenti con la coda dell'occhio. Papà aveva forse cambiato nuovamente idea?
   << Devo dirti una cosa >> Annunciò con voce spezzata. Capii che stava trattenendo le lacrime mentre spostava una sedia affianco a quella in cui ero seduta e ci si accomodava sopra con sollievo. Io abbassai il volume della televisione. Pensavo di aver già capito. Niente papà a cena.
     << Papà.. ha avuto un incidente >>
Il sangue, che fin da prima scorreva lungo tutto il mio corpo, si gelò. Spalancai gli occhi quasi a convincerla di dirmi la verità. Quasi a convincermi che fosse tutto uno scherzo.
                  << Papà non c'è più >> Riuscì a sillabare, prima di scoppiare in un pianto convulso, stringendosi in se stessa come un riccio spaventato.
Mi ci vollero interi minuti prima di elaborare la frase. Minuti che sembrarono anni. Che fecero crescere in me una rabbia paurosa. Strinsi i pugni sul mio petto dolorante e iniziai ad urlare. E piangere. Urlare e piangere sembravano le uniche due cose che avrei fatto durante il restante trascorso della mia vita. Mi riuscivano così bene, così naturali che era difficile pensare non avessi mai sofferto così, prima, in vita mia.
Ripensai alla notizia passata poco prima al telegiornale, e su cui avevo riflettuto.
Quell'uomo una moglie e una figlia ce le aveva eccome. Non avrei rivisto più papà e mamma assieme. Non avrei rivisto più papà e basta.
  
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