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Autore: GreedFan    11/03/2014    2 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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δ.


Nelle vie maleodoranti della parte bassa di Fegith poteva nascondersi senza che nessuno notasse il suo odore. Lienhard era ben consapevole de fatto che ‒ in barba alla dose ormai triplicata di progesterone ‒ nelle ultime quattro settimane la situazione non aveva fatto altro che peggiorare; se fosse stato un po' più saggio avrebbe scelto un tranquillo periodo di reclusione domestica, ma il solo pensiero di starsene chiuso in casa fino alla fine del calore gli faceva venire la nausea.

Inspirò a fondo l'aria putrida, che sapeva di cibo stantio e gas di scarico. Nei quartieri popolari gli omega non potevano sempre permettersi di arginare l'estro con i farmaci, venduti illegalmente a prezzi altissimi, ed era normale sentire il pizzicore dei ferormoni sulla lingua. Un profumo debole come quello di Lienhard sarebbe passato inosservato in quel marasma di stimoli olfattivi.

Diversamente, nel distretto universitario tutti avevano diritto ad una fornitura statale di medicine e spray atti a mascherare l'odore. Lienhard non poteva richiedere prodotti specifici per omega − per quanto distratti, gli impiegati della piccola farmacia del campus si sarebbero fatti delle domande − e sarebbe stato l'unico dell'intera Universitas a lasciare una scia facilmente individuabile.

"Ma quando arriva?". Insinuò le dita negli interstizi di un muro scurito dal fumo, grattando via un po' di malta umidiccia. In quella zona della città usavano ancora tecniche costruttive antiche, perché più economiche, e non c'era un palazzo che superasse i cinque piani d'altezza.

L'orologio appeso all'insegna sudicia di un negozio di vestiti, poco distante, segnava le undici e tre quarti. Una sensazione di fame nervosa pungeva lo stomaco di Lienhard, che, irritato, si girava in continuazione a destra e a sinistra scrutando nella folla miserabile del distretto; a prima vista poteva sembrare una distesa di fango, un vortice di stracci grigi e marroni che si agitavano sotto la spinta di correnti invisibili. Guardando con più attenzione si scorgevano le facce butterate e velate di nerofumo di chi lavorava nelle fabbriche, le loro mani coperte di escoriazioni che trattenevano i baveri delle giacche per riparare il collo dal vento. Non importava quanto caldo facesse d'estate, nei quartieri popolari di Fegith spirava sempre una brezza fredda e umida che sembrava provenire da sottoterra − melliflua, puzzolente come il respiro di un cadavere.

Le uniche donne presenti erano prostitute, appena coperte da vestiti rattoppati che arrivavano poco sotto l'inguine. Avevano volti pallidi come la luna, malaticci, occhi e bocche dipinti a colori così vivaci da disgustare − sorridevano, mostrando la dentatura corrosa dalle droghe, e strattonavano le scollature dei vestiti a mostrare il petto smagrito. Quelle loro pantomime attiravano ben pochi clienti − era troppo presto, la maggior parte degli abitanti del distretto era troppo impegnata a guadagnarsi da mangiare per cedere ai richiami della carne − e Lienhard non poteva fare a meno di provare compassione per loro, ammassate nell'ombra dei vicoli come bambole di pezza consumate dal troppo uso.

Arrivò il mezzogiorno, e con esso un odore penetrante di brodo rancido e fritto invase le strade. Lienhard stava considerando l'idea di fermarsi in una bettola qualsiasi a mangiare (aveva scoperto che le pietanze dei quartieri bassi, per quanto poco gradevoli, erano eccezionalmente nutrienti) quando un'ombra più scura delle altre sgusciò fuori da una traversa vicina e avanzò nella sua direzione. Sospirò dal sollievo, pulendosi le dita sporche di malta sui pantaloni, e accennò un saluto.

«Pensavo che non venissi».

L'altro sghignazzò, appoggiandosi al muro accanto a lui con uno sbuffo. Aveva una figura longilinea, magra, il cappuccio di una felpa tirato sul viso; dalla stoffa nerastra sfuggiva qualche ciocca di un candore lattescente che sembrava quasi privo di consistenza.

Gli occhi che si posarono su Lienhard erano grandi, languidi, l'iride rossastra come quella dei topi da laboratorio. Parevano sospesi in un vuoto tutto loro, a metà tra il piano delle percezioni fisiche e una dimensione preclusa al resto del mondo, sfere di tormalina purpurea appena velate dalle ciglia bianchissime. Erano belli di una bellezza assassina, pericolosa.

Lienhard non ci provò nemmeno, a resistere alla loro malia.

«Non ti fidi più di me, Leny». Il sorriso dell'albino sembrava sbozzato nel cristallo opaco della pelle cerea. «Perché? Ti ho deluso in qualcosa?».

«Tutt'altro». Un drappello di operai passò a meno di un metro di distanza e Lienhard schiacciò le scapole contro il muro, abbassando il viso fin quasi a toccarsi il petto con il mento. «Ma questo non è un bel posto per me, lo sai».

L'albino inarcò un sopracciglio, seguendo con lo sguardo gli operai che si allontanavano nell'intrico di vie fangose. «Hanno un buon odore, eh?». Disse, poi, torcendosi spasmodicamente le dita affusolate «Lo sento anche io. Che schifo, essere costretti a sbavare dietro un branco di bestie puzzolenti».

«Ricordati che non siamo quelli che se la passano peggio». Il borbottio di Lienhard rischiò di perdersi tra le grida sgraziate di un paio di donnacce intente a litigare, ma l'altro lo sentì benissimo. Contrasse la mascella con uno schiocco secco e ringhiò, le guance immediatamente chiazzate di rosso: «Parla per te. Io non sono il figlio di un ministro».

«Tu non sei nemmeno una fattrice in un vivaio». Il professore rispose con la solita ironia, senza la minima traccia di acredine. Sembrò sortire l'effetto desiderato: l'albino scrollò le spalle e assentì un paio di volte, poi ficcò entrambi le mani nelle tasche dei pantaloni. Lienhard lo conosceva abbastanza da sapere che non si trattava di un gesto casuale.

«Vuoi ancora quello che mi hai chiesto?».

«Perché non dovrei?». In fondo a quelle tasche, protetta da uno strato di stoffa sottile, c'era la sua salvezza.

«Perché significa che stai messo male. Te l'ho già spiegato che questa roba è instabile, Leny... non è come quella che tuo padre si fa arrivare dalle Nazioni Oltremondo. Questa la preparano dei dottori del cazzo nei loro laboratori clandestini, e quella è gente da cui non mi farei sistemare nemmeno una carie».

«Però è più forte». Lienhard si umettò le labbra, la bocca secca, e ripeté quella frase come se potesse servire a renderne meno tremendo il significato: «Però è più forte. Lo sai che non posso permettermi di farmi scoprire, e il Progestal non fa più effetto. Le molecole sintetiche sono solo una soluzione temporanea».

«Ma com'è possibile?». L'albino si grattò una guancia, scavando percorsi arrossati sulla pelle «Una cosa del genere non l'ho mai sentita. Ti sei fatto dare una controllata da tuo padre? Per queste cose è una specie di genio, no?».

«Ultimamente ho...» Il professore si schiarì la voce con un colpo di tosse «... passato molto tempo con un alfa non reclamato che non si preoccupa minimamente di coprire il suo odore. Il mio organismo ha reagito». La situazione era un po' più complessa di così, ma pretendere che qualcuno con la preparazione scientifica dell'albino capisse concetti di biologia avanzata era una barzelletta bella e buona. Del resto nemmeno Lienhard voleva soffermarsi troppo sulle dinamiche del suo organismo disfunzionale.

«Be', stai attento». Le dita, bianche come le dune calcaree dell'outland, emersero dalla tasca stringendo un pacchettino di carta stagnola dall'aria rigonfia. Lienhard lasciò che la tensione dilagasse in ogni muscolo del corpo, i tendini tesi come tiranti d'acciaio, e non smise di guardare l'involto nemmeno quando l'albino gli rivolse di nuovo la parola. Se non si fosse trattato di un amico, avrebbe già tentato di prendere quelle medicine con la forza.

Ne aveva bisogno, un bisogno disperato.

«Al massimo quattro al giorno, non una di più. Vorrei poterti dire che so esattamente cosa c'è dentro, ma probabilmente un quarto della roba con cui imbottiscono le capsule è tossica. Usano quello che possono, come filler». Intrecciò le dita alle sue − il gelo della pietra incontrò in quell'istante il tepore del velluto − e lasciò scivolare il pacchetto di carta stagnola nel palmo di Lienhard, prolungando quel contatto per un tempo appena più lungo del necessario. «Fratello mio,» disse poi, un sussurro della levità del vento, accarezzandogli il polso in punta di dita «solo le Stelle sanno quanto vorrei che non fossimo due Omega».

Heisenhover esalò un sospiro stanco e appoggiò la nuca alla parete di mattoni. La sua natura gli impediva di provare la benché minima attrazione per l'albino, relegandolo nel grigio pantano di un sodalizio che non era né amore né amicizia − eppure la bellezza di quegli occhi purpurei era struggente, il loro incantesimo inevitabile.

"Quanto ti odio". Pensò, sottraendosi al tocco con una mossa repentina. In un altro Universo l'avrebbe Reclamato anche solo per il gusto di possedere quella bellezza aliena, gli avrebbe regalato la sua vita e la sua fedeltà. Su Nenya non poteva far altro che guardarlo e maledire silenziosamente il suo destino.

L'altro lo fissò in silenzio per qualche istante, con uno sguardo così carico di sofferenza che Lienhard non provò nemmeno a sostenerlo.

«Come...» inghiottì a vuoto, una morsa di senso di colpa all'altezza del diaframma «... come va con le vendite? La prossima fornitura dovrebbe arrivare tra tre mesi».

«Uh, vende come il pane». L'albino, per dimostrare la veridicità dell'affermazione, tirò fuori un flacone di Progestal dalla tasca frontale della felpa «Il periodo dei debutti si avvicina. Un sacco di omega sui quattordici anni stanno già avendo i primi calori, a volte se ne sente l'odore a decine di metri di distanza. Tenerli nascosti è una gran fatica».

«Quanto ve n'è rimasto?».

«Due tonnellate, forse un po' di più. L'ultima consegna è stata parecchio abbondante, dovremmo farcela senza problemi».

Rimasero zitti per un po', a guardare il fiume umano che scorreva pigramente davanti ai loro occhi. Di tanto in tanto l’albino si sfregava gli occhi arrossati e li teneva chiusi per un po’ ‒ più delicati di quelli di un uomo normale, non sopportavano l’esposizione prolungata al vento o al Sole. Lienhard era tentato di congedarsi e andare via (da una parte era ben consapevole che la sua presenza lì rappresentava un notevole incomodo) ma non riusciva a decidersi; fortunatamente fu l’altro a spezzare quel momento di impasse.

«Mi è capitata una cosa strana». Mormorò, sovrappensiero «L’altro giorno avevo un appuntamento con un tizio che non conoscevo».

Lienhard strinse involontariamente i pugni. L’albino, come molti omega dei quartieri bassi, arrotondava i proventi dello spaccio di Progesterone lavorando in una casa di tolleranza d’alto bordo; era abbastanza bello da permetterselo, e nonostante lo stesso Thomas Heisenhover gli avesse proposto più volte di lasciare i settori-ghetto per lavorare da lui, nei primi distretti, non aveva mai voluto abbandonare quello stile di vita. “Mi piace la mia libertà,” diceva “sono un freelance. La dignità l’ho persa da tanto tempo, ormai, non servirebbe a niente tentare di riguadagnarmela così”.

«E allora?».

«Quando si è presentato alla porta della stanza ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Mi dava una sensazione strana». L'albino abbassò la voce fino a ridurla ad un sussurro «Poi me ne sono reso conto. Leny, so che quello che sto per dire può sembrare completamente assurdo, ma... non aveva odore».

Per Lienhard fu come se una scarica elettrica da quindicimila volt gli avesse attraversato il corpo.

Pensò che non sarebbe riuscito a rispondere. Rimase immobile, le orecchie piene di un ronzio che i battiti accelerati del cuore riuscivano a stento a coprire, e assisté in silenzio al dispiegarsi dell'infinito ventaglio di possibilità che le parole dell'albino sottintendevano; solo dopo elaborò l'informazione, e scoprì di avere il respiro corto e le mani tremanti e sudate.

«Come un beta?». Le sillabe si accalcarono le une sulle altre, troppo lente per la velocità febbricitante dei suoi pensieri «In che senso non aveva odore?».

«Be',» l'altro lo guardò per un secondo di troppo, confuso dalla reazione «no. Pensi che non abbia mai avuto clienti beta? Loro ce l'hanno, un odore. Piatto e poco attraente, ma ce l'hanno. Questo tizio sembrava... non lo so, finto. Di plastica. La sua pelle non sapeva di niente, come se il suo organismo non producesse nessun tipo di ferormoni».

Lienhard trattenne a stento un grido. Poteva esserci una sola spiegazione per un fenomeno del genere, e si fidava abbastanza dell'albino per credere a priori che non avesse preso un abbaglio. Non cercò nemmeno di mascherare il tremito delle mani quando lo afferrò per le spalle, scuotendolo leggermente.

«Stai dicendo sul serio? Ne sei assolutamente certo?».

«Come sono certo del mio nome, Leny». Senza minimamente scomporsi, l'albino appoggiò la fronte alla sua e ghignò «E vuoi sapere un'altra cosa? Aveva un accento strano, ma quello l'ho riconosciuto. Una volta sono stato con un vecchio di quasi ottant'anni, uno che per poco mi crepa sul più bello. Be', quel tipo aveva fatto il militare all'epoca in cui i viaggi oltremondani non erano ancora vietati, e mi raccontò di aver trascorso un paio d'anni su un pianeta vicino al nostro. Arcesi, si chiamava».

«Non dirmi che−»

«Mi ricordo ancora l'accento bizzarro di quel vecchio. E, per le due lune di Nenya, era quasi uguale a quello del tizio di ieri sera... solo che questo aveva al massimo una trentina d'anni».

Heisenhover sentì che il cuore stava per esplodergli. Controllò il respiro meglio che poteva e annuì freneticamente, gli occhi fissi in quelli dell'albino. Sudore freddo tra le scapole, sulla nuca.

«Ti ha detto come si chiamava? Forse posso trovare qualche informazione su di lui».

«Immagino che tu non intenda raccontarmi il perché di tutta questa eccitazione, vero?». Il tono del ragazzo era svagato, ma Lienhard colse una stilla di irritazione nella vibrazione di fondo delle sue parole «Le mie informazioni potrebbero avere un prezzo».

«Ti metterei soltanto in pericolo». Quasi supplicò, rafforzando la presa sulle sue spalle «Non servirebbe a niente. Ti prego, non ti rendi conto di quanto sia importante un'informazione del genere».

L'altro tacque, corrugando le sopracciglia quasi trasparenti. Il professore si sentì morire quando esitò, il suo viso una maschera penosa di dubbio e rassegnazione; poi, sotto lo sguardo implorante di Heisenhover, capitolò.

«Ibrahim». L'irritazione stavolta era più che tangibile. Lienhard sapeva che l'albino non avrebbe mai forzato la mano su una questione del genere, ma nel profondo doveva sentirsi offeso da quella che reputava una sua mancanza di fiducia. «Non mi ha detto il cognome, ovviamente».

«Pensi che tornerà?».

Fece una smorfia come a dire che non lo sapeva.

«Non mi ha promesso niente, ma in linea di massima credo di sì. In genere tornano».

«Kaïre,» il suo nome gli sfuggì in un sospiro, dolce come il miele sulle labbra «devi promettermi che mi avvertirai, se e quando verrà. E devi promettermi che farai quello che ti chiederò, anche se ti sembrerà una pazzia».

«Perché?». Sembrava frastornato. Lienhard non lo chiamava quasi mai per nome − ne amava così tanto il suono che gli sembrava di commettere un peccato osceno, pronunciandolo nell'oscurità umidiccia dei vicoli in cui usavano incontrarsi − e fu subito evidente come quello strappo alla regola gli facesse piacere. «Leny, dimmi che non è l'ennesimo casino potenzialmente mortale».

«Non lo sarà se tu mi aiuti».

Kaïre alzò gli occhi al cielo, ma la sua espressione seccata si sciolse ben presto in un sorriso sghembo che sapeva di divertimento e rassegnazione.

«Se dovesse succederti qualcosa e tu riuscissi comunque a cavartela, Leny,» gli baciò la fronte, un contatto appena accennato che stritolò il cuore di Lienhard «sappi che non sopravvivrai a me».

«Che minacce prive di consistenza, Kaïre». Celiò, sostenendo lo sguardo intenso dell'albino «Per una volta fidati di me».

«Vorrei tanto essere pazzo abbastanza per poterlo fare».


◦○◦


Di suo padre ricordava la punta lucida degli stivali di cuoio.

Era un cugino carnale del Gerarca, insignito del grado di generale di brigata all’età prodigiosa di ventun’anni e considerato da molti un genio della strategia militare. Freddo, distante, dedito soltanto al lavoro ‒ i suoi occhi erano lame di bronzo,  la piega rigida della sua bocca una spaccatura incisa nel fianco di un monte.

Joseph aveva passato i primi dodici anni della sua vita a fissare gli anfibi militari di suo padre, impeccabilmente puliti e ordinati (come la divisa, del resto, che non toglieva neanche quando stava a casa con il figlio). Gli sembrava di sentire ancora i rimproveri e le parole di biasimo piovere come un acquazzone gelido sulla sua testa abbassata.

Augustus Redthorn si era procurato un erede per motivi prettamente utilitaristici, per una questione di etichetta.

Un alfa di ceto medio-alto poteva scegliere due mezzi per procreare. Il primo, di anno in anno sempre più raro nell’alta società, consisteva nel trovare uno o più partner omega con cui creare una famiglia stabile: questi omega, con cui si contraeva un vincolo di unione civile inscindibile, vivevano a carico dell’alfa fino alla morte ‒ così come, ovviamente, i figli, che in nessun caso potevano venire allontanati o privati dei mezzi necessari alla sopravvivenza.

Il secondo mezzo era di gran lunga il più in voga, soprattutto nella working-class danarosa che aveva poco tempo da dedicare alle relazioni interpersonali. Fuori da Fegith, giganteschi capannoni che sembravano emersi spontaneamente dalle dune gessose, c’erano i vivai.

All’interno, sorvegliati a vista da corpi speciali dell’esercito, vivevano le eccellenze genetiche della casta omega: il loro DNA era stato sondato e rivoltato fin nella più piccola catena proteica, e l’unico compito di quegli individui, chiamati fattrici, era quello di fornire una discendenza agli alfa che erano troppo pigri ‒ o troppo libertini ‒ per affibbiarsi un consorte a cui badare. Generalmente si poteva scegliere la fattrice da un ampio listino, a seconda dei genotipi che si volevano conservare; più un cliente era ricco, migliori erano gli omega a cui aveva accesso.

L’inseminazione avveniva artificialmente, e una singola fattrice poteva dare alla luce diverse decine di figli prima di morire per consunzione. Nessuno entrava nei vivai da volontario, nessuno ne usciva se non cadavere.

Gli stessi neonati, in presenza di malformazioni o, più semplicemente, di caratteristiche sgradite al compratore, venivano espulsi dal vivaio e smaltiti. Solo in caso di corredi genetici superlativi gli scartati acquisivano il diritto alla vita, all’allevamento, e non appena raggiunta l’età puberale ‒ di solito attorno ai tredici anni ‒ cominciavano a loro volta una promettente carriera di fattrici.

Augustus Redthorn aveva staccato un assegno corposo per Joseph. Gli era stata garantita l’eccellenza, cromosomi che grazie ad una durissima selezione si presentavano epurati da ogni tara genetica; quando prese tra le braccia il neonato, quella fragile creatura di qualche settimana appena che avrebbe incarnato una delle linee di sangue più prestigiose della nazione, si limitò ad annuire con una punta di soddisfazione. Quello fu tutto il suo giubilo per la nascita del suo primo e unico figlio.

Nell’infanzia di Joseph c’era stata una schiera di balie, vecchie facce imbellettate e crani rasati e profumo di omega ormai sterile. Ricordava le loro voci calde e gracchianti, la sensazione delle carezze tra i capelli, la felicità ingenua di quegli anni in cui suo padre si era limitato a fargli visita una o due volte a settimana. Ogni volta si tratteneva per pochi minuti, e Joseph fissava quella figura alta con gli stivali neri senza spiccicare parola: si studiavano a lungo, in silenzio, l’adulto corroso da una vita di lavoro e il bambino già gravato da un peso troppo grande per lui. Quando Augustus se ne andava, il ritmo imperioso dei suoi passi a riecheggiare per gli appartamenti di Joseph, il bambino tirava un sospiro di sollievo.

«Che fai?». Gli diceva, a volte, la voce un rombo baritonale «Sta’ su, non fissarmi con quella faccia da gufo. Sei un alfa di stirpe nobile e ti comporti come un omega del ghetto».

Rabbrividiva, Joseph, si faceva ancora più minuto. A volte avrebbe voluto diventare piccolo come una formica, oppure invisibile: tutto, pur di sfuggire allo sguardo glaciale di suo padre.

Imparò molto presto che per farsi apprezzare da Augustus Redthorn doveva fingere di essere più grande degli altri, anche quando l’evidenza di quella menzogna gli faceva venire la nausea. Non era mai abbastanza per le sconfinate ambizioni di suo padre.

«Sei un Redthorn,» risuonava, terribile, la voce nelle sue orecchie «sei un alfa».

E Joseph, in un modo che chiunque avrebbe definito insultorio per un vero alfa, si piegò.

Frequentò le scuole scelte dalla sua famiglia, si inserì nei circoli più altolocati della città e intraprese la carriera militare grazie all’appoggio di suo padre. Purtroppo non dimostrava il suo talento, né l’interesse per le complicate strategie di guerra: si accontentò di fare l’ufficiale in un distretto tranquillo, recuperando ragazzi scappati di casa e rastrellando sistematicamente i depositi sotterranei alla ricerca di omega non autorizzati. Si nascondevano nei posti più impensabili per sfuggire alla condanna dei vivai.

Suo padre avrebbe avuto da ridire, ma morì anni prima che Joseph venisse stanziato nel distretto: se lo portò via un infarto, e la famiglia Redthorn rimase molto colpita da quella perdita. Joseph, che col tempo aveva imparato a detestare quel gravame sulla sua vita, l’autorità incontestabile e opprimente di un vecchio svuotato dal tempo, si sentì come se un incubo durato anni ed anni si fosse interrotto.

Pensò, erroneamente, di essere libero dalle catene di suo padre. Soltanto dopo si rese conto che una ragnatela continua ad esistere anche dopo la morte del ragno che l’ha costruita.


◦○◦


La testa di Lienhard continuava a girare.

Aveva cercato in tutti i modi di non dare a vedere le ondate di nausea che quasi lo sopraffacevano, ma il fastidio non era diminuito. Sperava soltanto che le lenti degli occhiali celassero agli studenti il suo sguardo fisso nel vuoto ‒ il contatto visivo con un qualsiasi essere umano era interdetto, visto che il mondo roteava come le pale di un mulino al minimo tentativo di concentrazione.

Ad aggiungere la beffa al danno, il libro del giorno era un tomo particolarmente complesso. Il Nome della Rosa, si chiamava, scritto da un autore ignoto al tramonto del primo millennio dell’era comune; Lienhard l’aveva letto più volte con piacere, ma gli studenti non riuscivano a cogliere la bellezza di un libro che le traduzioni avevano rovinato.

«So che è complesso». La sua vecchia copia, miracolosamente rilegata in pelle e miracolosamente in lingua originale, era qualcosa di cui amava vantarsi ai party accademici «So che racconta la storia di un periodo così lontano che per molti versi non riusciamo a capirlo. Ma a noi interessano i messaggi, gli spunti che ci può lasciare».

Lanciò un’occhiata a Joseph, seduto tranquillamente in fondo alla biblioteca. Ormai aveva perso il conto delle lezioni trascorse insieme, e con il passare del tempo il comportamento del soldato si era notevolmente ammorbidito: lasciati da parte gli sguardi sospettosi, si era rivelato un buon conversatore e un eccellente compagno di bevute (nel rispetto degli orari lavorativi, sempre meno rigidi). Per Heisenhover trovare il suo sguardo di ghiaccio tra gli studenti sonnacchiosi era un gioco più piacevole di quanto fosse lecito.

Nel complesso poteva dirsi soddisfatto della piega presa dalla situazione.

«Ad esempio,» continuò, ignorando un’improvvisa vertigine «Shaw. Una scena che ti ha particolarmente colpito?».

La ragazza ci pensò su, corrugando le sopracciglia.

«Quella della biblioteca, quando i due protagonisti incontrano il frate cieco». Esitò, arrotolando una ciocca di capelli sull’indice «Cioè… è molto bello il pezzo in cui il frate critica le illustrazioni grottesche dei codici perché pensa che siano blasfeme, e tutto il discorso sul fatto che ridere è una cosa da scimmie, sbagliata. Ti fa pensare a… be’, a un mucchio di cose».

A Lienhard non sfuggì il moto appena percettibile di Marie Shaw, uno scatto della testa nella direzione in cui stava Joseph. Non voleva che le possibilità espressive dei suoi alunni venissero limitate, nemmeno se c’era in gioco un arresto.

«Non preoccuparti, Shaw. Qualsiasi cosa tu dica, la responsabilità sarà solo mia». La posa di Joseph divenne istantaneamente meno rilassata, ma il soldato non disse nulla.

«Be’, ecco… il fatto è che per me la risata ha un valore che andrebbe privilegiato. Le persone che ridono tanto vengono sempre considerate un po’ sceme, ma se ridessimo di più delle cose veramente importanti forse la nostra società sarebbe un po’ migliore». Le orecchie della ragazza erano rosse, i suoi occhi più grandi del solito «Qualche giorno fa un tipo che aveva pubblicato delle vignette satiriche sul Gerarca è stato arrestato. Questo perché chi sta al governo lo sa, che il riso è importante… che ti aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva, a sdrammatizzare, ad avere meno paura. E loro non vogliono che noi abbiamo meno paura, che sappiamo mettere in discussione l’autorità. Solo chi protegge gli assolutismi, come la religione ortodossa del frate cieco, è nemico dell’allegria. Potremmo dire che la risata è alla base del libero pensiero».

Lienhard non aveva abbandonato lo sguardo di Joseph nemmeno per un secondo, in allerta. Le parole di Shaw violavano il regolamento imposto a partire dal primo giorno di sorveglianza, ma sorprendentemente il soldato non reagì. Rimase fermo, rilassò di nuovo la postura e accennò una scrollata di spalle.

Ne parliamo dopo”, sembrò dire. Lienhard replicò con un breve cenno d’assenso.

«Una riflessione stupenda. Adesso leggeremo insieme un pass‒» un capogiro più forte degli altri lo costrinse al silenzio. Si appoggiò con una mano al bordo della cattedra ‒ grazie al cielo aveva deciso di non salirci sopra ‒ e inspirò a fondo più volte, mentre un sudore gelido gli imperlava la schiena sotto la camicia. La nausea gli pizzicò il fondo della gola con veemenza, e per un attimo Lienhard fu sul punto di abbandonarsi ai conati di vomito nel bel mezzo della biblioteca.

«Prof, tutto bene?». Cercò di ignorare l’allarme nella voce dello studente e annuì, passandosi una mano sul viso.

«Sì, è solo un po’ di…» Kaïre, vaffanculo tu e i tuoi ormoni di merda «… stanchezza. Adesso, se volete tirare fuori gli istan-tradutt…»

Un attimo prima il pavimento era sotto i suoi piedi, un attimo dopo si trovava alla ragguardevole distanza di cinque centimetri dal suo naso. Come in un sogno, il professore sentì il tonfo del suo corpo che colpiva il pavimento e le esclamazioni inorridite degli studenti, prima che tutti e cinque i sensi venissero sostituiti da una nausea così impellente da mozzargli il fiato.

Vomitò su un tappeto che doveva valere cinque o sei mesi del suo stipendio.

Era ancora abbastanza in sé per preoccuparsi di cosa potesse esserci in quel vomito ‒ fa che le pillole si siano sciolte, fa che le pillole si siano sciolte ‒ e cercò di trattenersi più che poteva, invano. Si sdraiò su un fianco, affondando le dita nel pelo folto del tappeto, e mugugnò una sequela ininterrotta di imprecazioni. 

Gli studenti, in preda al panico, si lanciarono su di lui come un sol uomo. Qualcuno lo sollevò da dietro per evitare che si soffocasse con il contenuto del proprio stomaco, lo addossò alla scrivania e cominciò a sventolargli il viso mentre una cricca di studenti vociava sullo sfondo. Con il campo visivo scombinato e un dolore atroce a trapanargli le tempie, Lienhard riconobbe comunque l’odore inconfondibile del qualcuno che si stava prodigando in simili delicatezze.

«Joseph» biascicò, un sapore acre sulla lingua «non provare a portarmi in ospedale, capito?».

Colse un lampo di occhi azzurri sgranati e uno sbuffo di sorpresa. «Sei impazzito, Heisenhover?».

«Vaffanculo». Il fatto che qualche studente potesse sentirlo non lo toccò minimamente «Ho l’influenza. Sto bene. Tornerò nella mia stanza e mi metterò a letto».

E una volta che mi sarò ripreso andrò a trovare quell’imbecille di Kaïre e lo farò sparire dalla circolazione.

Gli ormoni homemade dell’albino ci avevano messo poco, poco più di una settimana, ad intossicarlo. Contenevano più robaccia di quanto entrambi si aspettassero, anche se, come promesso, l’odore omega era completamente sparito (a volte lo stesso Lienhard si scopriva ad annusarsi i polsi sulla scia di una traccia ormonale che si sentiva appena, sedata com’era dal Progestal). Era pronto agli effetti collaterali, ma non si aspettava quello.

«E come ci arrivi alla tua stanza? Non hai l’aria di uno che riesce a camminare».

Per un momento vomitare addosso a Joseph Redthorn gli apparve come una prospettiva felice.

Sbatté la testa contro la scrivania e gemette piano, inspirando l’aria polverosa ad ampie boccate.

«Ho capito, ti ci porto io».

Non fece in tempo a esprimere tramite mugugni tutto il suo diniego, che Joseph gli passò un braccio sotto le scapole e lo tirò in piedi come se non pesasse niente. Attraverso la stoffa della giacca poteva percepire i rilievi perfettamente delineati dei muscoli, il calore del suo corpo ‒ era una sensazione strana, protettiva, come se bastasse abbandonarsi contro quel sostegno per risolvere ogni problema.

Si sta così bene”, inebriato dall’odore dell’alfa, Lienhard lottò confusamente per mantenere un minimo di autocontrollo “ha un odore così buono…”

«Devi spiegarmi dove abiti». Mormorò Joseph, vicinissimo al suo orecchio «Capisci quello che ti dico?».

«Non sto ridotto così male». Gli sembrava che la nausea riverberasse in ogni sillaba. Inspirò a fondo il profumo di Joseph e cercò di calmarsi, mentre la sensazione di calore da ormoni in subbuglio si sovrapponeva gradualmente al capogiro. Delle due preferiva la seconda.

«Intanto usciamo fuori da questo posto, non respiro». In realtà non respirava per ben altri motivi, ma era sempre stato un mago nel mentire a se stesso e agli altri «Poi ti spiego».

Joseph imprecò sonoramente ‒ ormai nessuno faceva più caso all’etichetta ‒ e zoppicò insieme a lui finché non ebbero raggiunto l’esterno e l’ombra corroborante di un grosso albero. Da lì una brezza provvidenziale permise a Lienhard di ossigenare il sangue, ignorare l’odore di Redthorn e camminare un po’ meglio fino alla porta della sua stanza.

«Apri la porta, su».

«Tu non mi accompagni dentro, scordatelo».

Joseph non provò nemmeno ad insistere: semplicemente allentò la presa sulla schiena di Lienhard e lasciò che questi si abbattesse sul pavimento del corridoio come un sacco di patate. Gli regalò un sorrisetto sornione, uno di quelli che facevano assomigliare i suoi occhi a schegge di vetro azzurro.

Quello che uscì dalla bocca di Lienhard causò probabilmente la caduta di una religione nel sistema di Alfa Centauri. Dopo che ebbe accuratamente ingiuriato ogni divinità di sua conoscenza si aggrappò allo stipite e, con le gambe tremanti, aprì la porta dell’appartamento; le braccia di Joseph tornarono subito a sostenerlo.

Stava ridendo, il bastardo, rideva di cuore. Lienhard era troppo stordito per accorgersi che quella era la prima volta che lo vedeva così felice.

«Heisenhover, smettila di fare l’insegnante e datti allo spettacolo». Singhiozzò, in un modo che non si addiceva affatto alla sua voce cupa «Credimi, hai una carriera davanti a te».

«Muori».

Una volta dentro l’appartamento non fu difficile raggiungere la camera da letto. Fortunatamente Lienhard nascondeva il Progesterone prima di uscire di casa (in vista di eventuali controlli) e di primo acchito l’appartamento era sommerso dalla consueta baraonda di libri.

Joseph lo adagiò sul letto sfatto e gli drappeggiò attorno le coperte, storcendo il naso quando gli capitarono tra le mani un paio di camice spiegazzate. «Perdona il disordine».

«Non fatico a credere che tu ti sia beccato l’influenza…» il soldato si guardò intorno con fare costernato «… o qualsiasi altra malattia. Questo posto ha l’aria di non essere stato pulito per anni».

«Già che ci sei potresti infilarti un grembiule e sistemare un po’ in giro». Lienhard si guadagnò un’occhiata torva «Non puoi interrompere la catena di buone azioni di questa giornata, soldatino».

Si irrigidì istintivamente quando Joseph sbuffò e si sedette sul bordo del letto. Il suo cervello impazzito continuava a concentrarsi su cose poco edificanti come lenzuola, alfa, oh ma guarda che ciglia lunghe che ha, mentre lo stomaco sembrava sul punto di cominciare la sua personale edizione della Quarta Guerra Interplanetaria.

Sii civile.

«Comunque…» tossicchiò «… grazie. Sul serio, nessuno ti costringeva a farlo».

«Sono io che ringrazio te». Joseph sorrise appena, inclinando la testa da un lato «Quello che ha detto la ragazza oggi pomeriggio è stato molto bello».

«Bello? Non pericoloso o sovversivo? Che ti è preso, Redthorn?».

«Non so». Fece spallucce «Forse mi sto abituando al tuo circo itinerante. A parte il fatto che siete inoffensivi e che le vostre rimarranno solo parole». Aggiunse, con l’ennesimo sorrisetto.

«Perché, abbiamo mai avuto l’aria dei terroristi?».

«Ma non è solo questo». Joseph ignorò elegantemente la sua domanda «Immagino che condividere con uno come te queste informazioni violi buona parte del protocollo, ma sono cresciuto in una famiglia in cui “autorità” era la parola chiave. Mio padre, in particolare, non credo di averlo mai visto ridere». Sospirò, affondando le dita affusolate nel materasso «Mi sono reso conto troppo tardi ‒ come è successo per tante altre cose ‒ che forse avrei fatto meglio a ridere un po’ io. Di lui, in particolare».

Lienhard avrebbe voluto abbracciarlo, ma non si mosse. In silenzio, le palpebre a mezz’asta sugli occhi stanchi, ispezionò le fattezze di Joseph con una cura meticolosa, come se il suo animo non se ne potesse mai stancare. Lo guardò come si guarda un fiore che sboccia.

La dolce intensità di quell’attimo sospeso lo rapì.

«Io, eh…» imbarazzato, e solo le stelle sapevano quanto poco spesso gli capitasse di provare quella sensazione, Lienhard si agitò sotto le coperte «… prego. Vorrei dirti che ti capisco, ma mio padre è sempre stato un tipo a posto».

Già, un tipo così a posto da lasciargli senza remore la patata bollente di un business illegale milionario. Quantomeno il vecchio pazzo aveva sempre avuto un senso dell’umorismo invidiabile.

«Conosco molto superficialmente Thomas Heisenhover, e pur non approvando la sua condotta devo riconoscere che è un ottimo padre». Ghignò «Soprattutto quando sborsa cifre astronomiche per tirarti fuori di galera, Lienhard».

Avrebbe potuto sfoderare una delle tante battute salaci del suo repertorio, ma non lo fece. Abbandonò la testa sul cuscino, si lasciò invadere da una sensazione di leggerezza quasi insostenibile.

«Ehi,» sussurrò, dopo qualche istante di silenzio «mi hai appena chiamato per nome».

Joseph distolse lo sguardo.

















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Yep, ritardo improponibile. Chiedo perdono, ma la scuola mi ha uccisa e in più mi sono presa un po’ di tempo per riorganizzare la trama di questa… ehm cosa. Il capitolo, in compenso, è il più lungo che abbia mai scritto; ho anche modificato la formattazione perché questa, più essenziale e senza i banner (che sono una grandissima rottura) mi piace molto di più ;)

Come sempre vi ringrazio per le recensioni e per aver messo la storia tra le preferite/seguite.

Al prossimo aggiornamento,

Greedfan


   
 
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