You Could Be Happy
Is it too late to remind you how we were?
But not our last days of silence, screaming, blur
Most of what I remember makes me sure
I should have stopped you from walking out the door
Onde alte che bagnano la costa, spruzzi di spuma marina che saltano in aria, allegri, senza pensieri.
Dal punto in cui era andato a sedersi, slacciandosi la cappa dalle spalle, Jean poteva vedere tutti loro: Eren e Mikasa, aggrappati l'uno all'altra come un'ancora di salvezza, i piedi nudi affondati nella sabbia del bagnasciuga; Armin, il cui cuore sembrava poter scoppiare da un secondo all'altro dalla tanta felicità, mentre, l'acqua alla vita, si voltava a ripararsi dalle onde in arrivo. Sasha e Connie ridevano saltellando e correndo da una parte all'altra della spiaggia, tirando calci alla sabbia candida. Ymir e Christa erano sedute con le gambe immerse nell'acqua, in silenzio, spalla contro spalla. Le cicatrici sul volto e sulle braccia, segni della rivoluzione conclusasi qualche mese prima, parlavano abbastanza per entrambe.
Ma più delle presenze, più di Hanji e Moblit intenti a tirare su un'improvvisata rete nella speranza di catturare qualcuno di quegli esseri chiamati 'pesci d'acqua salata', più del caporale fermo a metri di distanza da tutti, sul volto un'ombra stanca, erano le assenze a pesare. Quella del comandante Erwin, morto durante l'ultima grande battaglia contro i titani, e quella dei loro tre compagni.
Bertholdt, Reiner, Annie. Vite strappate alla normalità, esistenze donate a una causa sbagliata fin dal principio. Il caporale, Mikasa e Eren erano arrivati a puntar loro le spade alla gola, ed era solo per un atto di pietà di Eren che i tre erano sopravvissuti. Era stato ordinato loro di prendere i rimanenti membri del loro popolo e scappare, separando la strada di una razza in estinzione da quella di una razza che dopo un secolo di prigionia tornava a vivere. Ymir non era andata con loro.
Presto sarebbero arrivati i civili. Un po' alla volta si sarebbero riversati fuori dalle mura, curiosi, impazienti, ansiosi della libertà a cui non avevano mai neanche sperato di poter agognare. E avrebbero ripopolato il mondo, sarebbero tornati agli sfarzi di un tempo, questa volta più sicuri e uniti, meno litigiosi.
E lui non avrebbe visto nulla di tutto questo. Lui che ora si sedeva accanto al suo mantello slacciato, guardandolo senza essere ricambiato. Lui che era morto invano.
- Mi dispiace. - La voce di Jean era un sussurro piegato dal dolore, a malapena udibile. Ma lui lo sentì. Lo sentiva sempre.
- Non è colpa tua. - Jean si sorprese nel sentire la sua voce. Era fresca, giovane, pregna di quelle piccole note allegre e speranzose che profumavano di Marco. Era la sua voce.
-
Lo è, invece. - continuò Jean, voltandosi nella
direzione opposta a quella dove la sua visione, spaventato all'idea
di voltarsi e confermare ancora una volta l'assenza e la morte di
Marco. - Se solo fossi rimasto zitto, se non avessi urlato di
proteggere Eren tu saresti ancora qui. Saresti ancora vivo. -
-
Non è colpa tua. Smettila, ti prego. -
- LO E', INVECE! -
alzò la voce. Sentiva l'ira afferrargli il cervello, circolare
nelle sue vene come non accadeva da lungo tempo. All'improvviso era
di nuovo un ragazzino spaventato dalla durezza della vita militare,
in lacrime su una brandina sfatta in un dormitorio freddo e vuoto. -
Stai solo dicendo che non lo è perchè è ciò
che io vorrei sentirmi dire, perchè sei solo la mia stupida
visione! Marco direbbe che sono uno scemo, che dovrei alzarmi e
andare a sorridere agli altri, che dovrei trasformare la mia paura in
forza senza tentare di mascherarmi o stronzate simili. Lui diceva
sempre questo genere di cose. Tu no. Tu no. -
Sentì il
proprio braccio stretto in una morsa calda; si voltò di
scatto, preoccupato.
Occhi nocciola gli riempirono l'anima.
C'era una punta di giallo in quegli occhi, una punta che aveva
dimenticato. Quella sfumatura che lo aveva fatto innamorare, tempo
prima. Era lì. Marco era lì, davvero lì, a
stringergli il braccio come aveva sempre fatto, senza il bisogno di
aprire bocca per dimostrare il proprio disappunto. Capelli disfati e
lentiggini scure sul volto sereno. Un volto intero, gioviale,
innegabilmente, dolorosamente bello.
- Non ho detto nulla
di tutto questo perchè sei abbastanza maturo per dirtelo da
solo, ti pare? -
Non
ebbe la forza di chiedergli perchè si trovasse lì, come
fosse possibile che sentisse la sua presenza addosso a sé.
Forse Armin aveva ragione. Forse il mondo esterno era davvero un
posto in cui i miracoli avvenivano e basta.
Si accucciò
addosso a lui, afferrando il braccio libero e gettandoselo addosso,
provocando una risata nell'altro. Era un suono così pieno di
vita, tanto bello da far sì che Jean si maledisse per non aver
fatto ridere Marco abbastanza quando ancora ne aveva la possibilità.
- Mi manchi ogni giorno. - mormorò, la voce rotta dal pianto. La mano di Marco salì fino ai suoi capelli, sfregandoli con forza, giocando con ciocche bionde, riempiendoli di sabbia. Quando la mano toccò il suo volto bagnato dalle lacrime, Jean vi posò sopra la propria e premette più forte che potè, chiudendo gli occhi, eliminando dalla propria mente il suono della risacca, le risate degli altri.
-
Non esiste più nulla. - mormorò, e anche la sua voce
arrivò attutita, lontana. - Esistiamo solo io e te. Giusto,
Marco? -
Silenzio per qualche secondo. - Tutto quello che vuoi,
Jean. -
Quando riaprì gli occhi, il sole era tramontato,
ma Marco era ancora lì, e così la sua mano, calda e
morbida sulla sua guancia, e così il suo sorriso, pieno di
speranze perse e pentimenti.
-
Dove sono finiti tutti? - sussurrò, senza muoversi.
-
Credo siano andati a mangiare. Ci sono provviste a sufficienza per
giorni, ma qualcuno deve aver pescato qualcosa di grosso. Vorranno
provarlo. -
- Oh. - Jean alzò gli occhi. Il cielo era
rosso, quasi violaceo, e pieno di stelle che non aveva mai visto. -
Vorrei tanto provarlo anch'io. -
Ma non si alzò; continuò
a guardare Marco, e ad essere guardato a sua volta. Non riusciva a
saziarsi di lui.
E quando un'altra ora fu passata, sentì
la gioia negli occhi di Marco scivolare lentamente via, e seppe cosa
stava per succedere. - No. - scosse la testa, rapido. - Non te ne
andare. Non questa volta. Ti prego... -
- Jean... - cominciò,
ma Jean strinse la mano contro il suo volto più forte di
prima, e le parole sembrarono mancare a Marco. Non era mai successo
prima.
- Non te ne andare. - ripetè Jean, gli occhi di
nuovo pieni di lacrime. - Non voglio rischiare di dimenticare. Non
voglio non ricordarmi più com'è essere toccati da te. -
non c'era più pudore nella sua voce, sicurezza nei suoi modi.
- Stringimi. Sfiorami. Marchiami a fuoco. Non mi lasciare, non
lasciarmi mai. Ti amo. -
Marco si sdraiò accanto a lui,
stringendolo a sé con una forza mai impiegata prima. Nemmeno
negli inverni trascorsi durante gli anni dell'addestramento. Nemmeno
la notte prima di Trost, quando si erano completamente donati l'uno
all'altro per la prima volta, felici, sicuri che avrebbero vissuto
per sempre insieme, realizzando quello che credevano essere il loro
più grande sogno.
La voce di Marco era un sussurro, spuma
marina che si infrange sulla sabbia. - Non preoccuparti, Jean. Questa
volta ti porto via con me. -
Gli sguardi dei membri della Legione Esplorativa si posarono sulla croce piantata a qualche metro dalla riva, riportante il nome di Jean Kirschtein.
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Chiedo scusa ;v;
- Joice