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Autore: IamShe    13/03/2014    8 recensioni
Shinichi è uscito trionfante dallo scontro con l’Organizzazione, e a distanza di tre anni, si gode a pieno la sua vita di detective nazionale ed ammirato da tutti. Non gli manca nulla, neanche l’amore di Ran. Ma quando tutto sembra andare per il verso giusto, qualcuno sfrutterà l’ingegno della sua amica Shiho per proiettarlo in un mondo che il suo cervello, altrimenti, non avrebbe mai perseguito: quello della criminalità. E non potrà più sfruttare la sua intelligenza, che presto scoprirà arma della sua stessa tortura, ma qualcosa che il suo mito Holmes riteneva stupido e debole, da evitare: le sue emozioni.
- - - - -
Shinichi non seppe come muoversi: sebbene conoscesse a memoria la sua cucina, non aveva la minima idea di dove si nascondessero i criminali che li avevano sorpresi.
«Cosa volete?» chiese, girandosi intorno e cercando di ripararsi. Pensò ad un piano che potesse mettere in salvo tutti, ma il suo istinto lo fece voltare verso la sua fidanzata: Ran giaceva a terra con gli occhi chiusi, respirando normalmente. Questa fu l’ultima cosa che vide.
«Te», fu l’ultima che sentì.
Genere: Azione, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Heiji Hattori, Nuovo personaggio, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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T o r t u r e d  M i n d

 
Ottavo capitolo Eighth chapter Huitième chapitre  Il luogo dei ricordi Octavo capìtulo Achten Kapitel 第八章  여덟 번째 장  


 
«Casa mia...»
Shinichi lo pensò tra sé e sé, ma lo disse ad alta voce; quasi senza rendersene conto, quasi come per convincersene. Quando quella meravigliosa villa si aprì ai suoi occhi fu come un tuffo nel mare oscuro dei suoi ricordi. La sua mente viaggiava, nuotava e ricercava memorie che sembrava aver perso da sempre. Era stato convinto dagli altri che quella villa era stato il teatro delle sue torture, dove avevano abusato di lui. Ma cosa era vero davvero?
“Niente” fu quello che gli disse la mente. Il suo cervello gli parlava, gli sussurrava segreti con cui lui, forse adesso, aveva la chiave giusta per aprirli. Sapeva di doversi fidare del suo istinto ed era anche abbastanza convinto che ne avrebbe trovato la risposta lì, in quella casa.
«Entriamo» disse lei. «È qui che hai vissuto la tua vita».
Lui annuì e la seguì, lasciando che le loro mani si intrecciassero e che lo portassero all’interno. Al di là del portone principale, un misto profumo di agrumi e colonia lo proiettò nella familiarità del posto. E lì ricordò quanto quella casa fosse sua più di chiunque altro. Vide se stesso salire le scale in legno davanti a lui, Ran avvicinarsi minacciosa con una bandana tra i capelli ed uno spolverino in mano per sgridarlo.
«Ancora Holmes?» stava urlando, stufata.
Holmes. Un detective come lui, qualcosa che oltrepassava il semplice personaggio immaginario ammirato: quel nome e il modo in cui risuonava nel suo cervello, erano i pilastri delle sue idee e convinzioni, delle sue esperienze, del suo lavoro. Passarono davanti alla cucina: era in disordine, con ancora alcune macchie di pizza sui mobili e i piatti sporchi nel lavabo. Il detective ne assaporò l’odore ancora prima di vederla. E vide la tavolata con lei vicino, poi il buio, un colpo alla testa. Istintivamente portò le mani al capo per proteggersi: era proprio dove aveva la ferita, ormai rimarginata.
«Seguimi» gli disse Ran, distraendolo da quei pensieri. «Adesso ti porto nel tuo covo. Credo che tu abbia passato più tempo qui che in qualsiasi altra parte del mondo.»
Aprì una porta in legno, e Shinichi fu travolto dall’odore forte e allo stesso tempo particolare di libri nuovi e libri usurati. E vide se stesso leggerli sulla poltrona in vimini e i piedi appoggiati alla scrivania, e i fascicoli dei casi che aveva risolto e stava ancora risolvendo. E una pila di libri più ordinata di altri, quelli che portavano come iscrizione “Arthur Conan Doyle”. Il detective vi si avvicinò, facendo scivolare l’indice sulla loro copertina e gustandone il cartone ruvido sotto la sua pelle.
Poi il suo cuore accelerò: vide un bambino, occhialuto, rifugiarsi dietro la scrivania e mettersi degli occhiali; e Ran che lo abbracciò, chiedendogli come si chiamasse.
«Conan Edogawa» rispose il piccolo.
“Me” pensò. E vide i detective boys, e il professore e i loro infiniti campeggi. Il dolore squarciante al fianco destro e l’odore intenso di polvere da sparo nell’aria: una pallottola che gli aveva sfiorato il rene, la corsa in ospedale e i volti di chi aveva vicino preoccupati e tremanti.
«Io ho il suo stesso gruppo sanguigno» sentì dire da lei, sempre lei, quella che c’era sempre. Ricordò di una ragazzina ramata dallo sguardo truce che piangeva sul suo petto chiedendogli perché non fosse riuscito a salvare sua sorella.
«Tu, che sei così bravo» balbettava, lacrimando. «Tu, col tuo intuito! Perché?»
“Akemi” pensò. “Shiho”, la vide, che gli preparava l’antidoto, che leggeva riviste di moda con aria seccata e che sbuffava ad ogni suo sorriso.
E seguì così la curva dei libri, accanto ai quali una bottiglia di Paikal, mezza vuota, era lì come trofeo. I suoi occhi sgranarono nell’osservarla, ripensando al primo flashback che aveva avuto diversi giorni prima, quello che l’aveva fatto svenire tra le braccia di Midori. Quello più doloroso in assoluto.
«È quella che ti portò Hattori anni fa» lo informò Ran. «Hai voluto tenerla, come simbolo di ciò che ti è successo.»
«L’organizzazione.» Sussurrò solamente, afferrandola.
«Sì», gioì lei, rilasciando un sorriso pieno di felicità. Stava ricordando tutto. «Conan Edogawa, l’organizzazione... te lo ricordi, vero?»
E poi il nero pece si aprì intorno a lui. La testa cominciò a girargli, e tutto si colorò man mano di forme indistinte: due uomini vestiti di nero come corvi, che lo stordivano. La loro base e il loro covo, il loro capo, e tutto ciò che ne aveva seguito. La loro sconfitta.
La sua rinascita, il dolore di tornare ad essere se stesso: un po’ come quello che stava avvertendo in quell’istante nella sua mente.
Lui non le rispose, ormai non ne aveva più bisogno. Avvertì il freddo della bottiglia di liquore sulle dita, e lentamente la stappò, inondandosi le narici del suo odore forte e acido. Le fitte partirono immediatamente, accompagnate dallo sbiadirsi rapido della vista e di ciò che lo circondava. Ma stavolta il detective resistette, e non si accontentò del solo profumo: fece scivolare il liquore nella sua bocca come ghiaccio sul fuoco, così velocemente da pietrificargli la testa. Shinichi sgranò gli occhi e strinse i denti, reprimendo la voglia di urlare. E mentre il suo capo gemeva di dolore, come se mille spine gli si fossero conficcate nella mente, dinanzi a lui si aprì una nuova scena. Riuscì a lasciar aperto un occhio per guardare, ma era tutto sfocato. Vide la stanza in legno di una casa, una decina di persone, sentì il suo respiro soffocato; improvvisamente gli fece male tutto, anche il corpo. Da freddo lo avvertì terribilmente caldo.
Poi una voce, la stessa che aveva sentito nel primo flashback, la stessa che aveva conosciuto al porto. Era Hattori.
«Che ti prende, Kudo?» gli stava dicendo, con un tono che man mano si sfumava di preoccupazione. «E si può sapere come facevi ad avere tutte le informazioni sul caso?»
Shinichi avvertì la sua stessa tosse da lontano, senza però farla davvero. Poi virò gli occhi leggermente verso destra, dove un’altra voce lo stava rimproverando. Non riuscì a capirla né a captarla. Era come se quell’odore fosse strettamente legato al giovane dalla carnagione olivastra, e non rivelasse altri ricordi.
«Comunque... devo farti i complimenti», il viso di Hattori si schiarì, assieme alla sua voce, che assunse un tono completamente diverso da tutte le volte che l’aveva sentita. Scorse in lui qualcosa che non aveva mai avvertito prima con nessun altro. Era stima. «Mi hai battuto su tutto, ciò che si dice di te è vero... sei davvero un grande detective.»
Le pareti della biblioteca della villa tornarono intorno a lui, accartocciato su stesso a terra dolorante, con i denti e i pugni serrati. Vide la figura di Ran accasciarsi a lui e chiedergli come stesse, ma non prima che le sue ultime parole gli risuonassero nella mente:
«Sciocco... quando si tratta di deduzioni, non esistono né vincitori né vinti. La verità è sempre una sola.»
Poi la luce. Forte, chiara, e tutto tornò come prima.
«Ran» disse in un soffio, sorreggendosi il capo. Riprese a respirare normalmente solo dopo una manciata di minuti.
«Oddio, Shinichi!», lo aiutò ad alzarsi, con fare preoccupato, ma lui si scostò. Aveva lo sguardo basso e le mani leggermente tremanti, ma sembrava sicuro di sé, come non lo era da tempo.
«Ran» ripeté ancora, come se fosse l’unica cosa in grado di dirle.
«Ti senti bene?»
Shinichi sorrise. Era uno dei suoi soliti sorrisi, un misto tra sicurezza e spavalderia, ironia e decisione. E così lei capì tutto ancora prima che lui glielo dicesse:
«sono tornato, sono io».
 
§§§
 
«Che ne facciamo della ragazza?»
Il corpo inerme e privo di sensi di Kazuha, steso a terra in modo scomposto, era accerchiato dagli uomini che avevano rapito Shinichi, al cospetto di Akira.
«La stessa fine che faremo fare al fidanzato» rispose loro, osservandola dall’alto verso il basso, con ancora in mano la pistola stordente e il razzo elettrico che la dominava. L’uomo diede uno sguardo all’entrata dove aveva visto fuggire via Midori. Si chiese quali fossero le vere intenzioni di quella ragazza: l’aveva incontrata poco dopo la morte di suo fratello, e se n’era invaghito fin da subito, fin da quando aveva capito che anche lei odiava quei detective così sbruffoni e saccenti, convinti di possedere tutta la verità a portata di tasca. Ma da quando Shinichi Kudo era stato stordito, ed il piano era iniziato, il suo atteggiamento era cambiato radicalmente. Aveva accettato la condizione della farsa della fidanzata del detective giusto per amore della sua vendetta, convinto che potesse davvero servire per non confonderlo, ma sospettava che dietro quella recita ci fosse di più di quello che lei gli dicesse.
«Rinchiudetela nella cella», la indicò con un schiocco di dita ed una leggera inclinazione del capo. «Intanto noi cerchiamo un modo per far ritrovare ad Hattori la sua fidanzata.»
Gli uomini annuirono, trasportando la giovane per le braccia verso la cella frigorifera del ristorante. Akira fece qualche passo verso questa, fermandosi per recuperare il cellulare dalla tasca. Compose velocemente un numero, portando l’apparecchio all’orecchio sinistro.
«Si può sapere dove sei andata?» chiese a Midori, dall’altra parte della cornetta.
«Shinichi è... scappato» rispose lei, in preda al panico, camminando su e giù per la villa a passo svelto.
«Ha recuperato la memoria...?» dedusse l’uomo allora. Midori non gli rispose subito. Imponendosi il raziocinio, si fermò di sbotto e cominciò a pensare, inspirando ed espirando per calmarsi.
«No», disse lei con decisione, talmente tanta che stupì anche se stessa. «L’ho trovato, è qui.»
Lui inarcò un sopracciglio. «E dov’era?»
Lei fece un sorriso sadico, sfumato d’ira. «Nel suo letto a dormire» disse, poi staccò velocemente la chiamata. Dal basso di un comodino recuperò una beretta che nascose sotto la camicia e un coltello che si infilò nei calzini. Indossando velocemente una giacca, si guardò per l’ultima volta allo specchio della camera che aveva finto fosse sua e del detective.
«Andiamo a trovare i due fidanzatini.»
 
§§§
 
«Ti è tornata la memoria?» pronunciò lentamente Ran, quasi per paura che potesse non essere vero. Shinichi era di fronte a lei con il corpo un po’ tremolante ma lo sguardo sicuro di chi sapeva dove stare e con chi stare. «Davvero?» gli chiese ancora, quasi piangendo, col labbro arrossato di sangue sotto i denti bianchi e dritti.
Il detective le si avvicinò, ma non proferì parola. Quando le baciò le labbra, le sussurrò in quel tocco tutto ciò che avrebbe voluto dirle in tutti quei giorni: dello smarrimento, della paura di non sapere chi essere, della tortura mentale che aveva ricevuto, di ciò che lo avevano convinto. Ma tacque ed il profumo alla fragola misto all’odore del Paikal, che avevano dato vita alla sua rinascita, lo trascinarono in un turbine di emozioni e pulsioni che aveva represso per fin troppo tempo. E non smise di baciarla, nemmeno quando non ebbe più fiato per farlo ed avrebbe avuto bisogno di una pausa. Ed avrebbe voluto continuare, anche quando lei si ritrasse, con gli occhi lacrimanti.
«Dimmi che non è un sogno.»
Lui sorrise e le catturò di nuovo le labbra, strappandole un morso. Ran gemette e singhiozzando di nuovo, strinse le dita intorno alla stoffa della sua maglia.
«Sapevo... lo sapevo che tornando qui ci saresti riuscito» mormorò tra un bacio ed un altro lei, mentre lui avrebbe soltanto desiderato ziitirla. Glielo fece capire, ma in modo scherzoso, nello stesso tono che lo contraddistingueva da sempre, con quella frase che le ripeteva da una vita: «smettila di parlare, sei fastidiosa» mormorò, sorridendole. Lei si finse offesa, staccandosi da lui con una spinta.
«Antipatico» disse, mettendo il broncio.
«Logorroica» ribatté lui, divertito.
«Ma non è un insulto» pensò lei, come a volerlo zittire ma non ci riuscì. Stava anche indietreggiando senza rendersene conto, con lui che la inseguiva verso il muro. Vi si fermò dopo qualche secondo, appoggiando la schiena al caldo legno intarsiato.
«Neanche antipatico lo è» disse lui. «È piuttosto un’azione-reazione.»
«Che?» chiese lei, divertita, quando le labbra del fidanzato si fermarono a pochi centimetri dalle sue. Shinichi appoggiò le braccia al muro e si strinse verso di lei, imprigionandola sotto il suo corpo.
«Se ti zittissi», e le soffiò sulla bocca, per poi baciarla. «Io diverrei incredibilmente simpatico.»
Ran rise, mentre assaporava la sua lingua tra i denti e la sua saliva sulle gengive. Lo avvertì desideroso, non più preoccupato o torturato da fitte dolorose, soltanto voglioso di qualcosa che bramava da tanto. E quel qualcosa era lei. E quando se ne rese conto, il suo cuore accelerò velocemente, colpito da scosse continue di adrenalina, che le donarono il coraggio necessario per accontentarlo: fece scivolare le mani tra i suoi capelli corvini e col corpo si slanciò verso di lui. Shinichi le afferrò le gambe e la sollevò, attraendola a sé. Fece qualche passo all’indietro per controbilanciare il peso, poi si incamminò verso la porta di fronte. Sapeva benissimo dove andare e senza alcun dubbio vi si diresse. I lunghi capelli gli solleticavano le spalle, mentre la sua bocca gli sfiorava il collo e le guance arrossate e calde. Caddero insieme sul materasso della stanza del detective, che scricchiolò al loro peso e si inarcò sotto i loro movimenti. Si spostarono sino ai cuscini, dove la schiena di Ran si inarcò e permise alla maglia di scivolare via, sotto le spinta delle dita di Shinichi. Lo imitò, incespicando con la sua maglietta e la testa, scompigliandogli i ciuffi dei capelli neri, ma non ci badò. Non si fermò e non lo fermò, desiderava più di ogni altra cosa al mondo essere nuda al suo cospetto in quel momento. Come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto nella vita.
«Ran» sussurrò lui con dolcezza, sfiorandole col fiato la linea delle labbra. La giovane gemette sotto il suo corpo, rilasciando un sospiro al suono del suo nome.
Shinichi le strinse il capo tra le mani, socchiudendo gli occhi e trattenendola a sé.
«Grazie» disse soltanto e lei capì.
“Grazie di aver sempre creduto in me”.
 
§§§
 
La cucina del ristorante era stranamente vuota. Heiji avanzò con cautela, rendendosi conto che quella sarebbe potuta essere l’ennesima trappola organizzata dal suo migliore amico, passato ormai alla parte oscura della giustizia e dell’investigazione. Ci aveva rimuginato tutta la notte, ed ancora non riusciva a capacitarsene: Shinichi sarebbe mai potuto tornare ad essere se stesso? Era stupido e forse smielato da pensare, ma gli mancava davvero.
Gli mancava parlare con lui dei casi, delle ragazze e degli sport. Gli mancava sfotterlo per quello che combinava con Ran e gli mancava esser sfottuto per ciò che lui aveva combinato con l’altra. Gli mancava vederlo illuminarsi per un caso, e gli mancava concludere le sue frasi con le sue parole.
Era sempre stato l’altra metà di lui, l’unico che potesse davvero capire le sue passioni, le sue idee e i suoi principi, e l’unico che in qualche modo riuscisse anche a condividerle.
“Non può essere finito tutto così” pensò, stringendo i pugni con rabbia.
Scosse il capo poi, liberandosi di quei pensieri, per concentrarsi soprattutto sulla ricerca delle ragazze.
«Kazuha? Miyano?» le chiamò, prima a bassa voce, poi con più forza. «Kazuha, dove siete!?»
Si girò intorno, avvertendo dei lamenti provenire da una porta in ferro blindato di colore bianco. Corse velocemente verso di essa, mentre i gemiti si fecero sempre più forti. Batté alla porta, chiamando la sua fidanzata con molta più tenacia e paura.
«Kazuha!? Sei qui dentro?!»
Dalla porta sopraggiunse una voce flebile e stanca. «Heiji?» disse con stanchezza, ma era lei. Il detective sorrise, rinfrancato.
«Kazuha! Aspettami, non ti muovere! Adesso apro la...» non concluse la frase, rendendosi conto di trovarsi di fronte ad una cella frigorifera. Alla sua sinistra vi era un termometro: la temperatura indicava meno venti gradi centigradi. Sbiancò, impaurito. Perché Kazuha era lì dentro? Quando aprì la porta, vide la ragazza in un angolino, stretta su se stessa, con alcune ferite sul corpo e sul volto. Il suo pallore, e i denti bianchi che sbattevano continuamente sul labbro ferendolo, gli certificarono quanto freddo stesse sentendo.
«Heiji» piagnucolò, terrorizzata, con le mani legate ad un tubo d’acqua lì vicino. La corda le stringeva talmente i polsi che si era formato un alone rosso intorno, che unendosi al freddo polare, le aveva spezzato la pelle in diversi punti facendo fuoriuscire del sangue.
«Kazuha!» Il detective corse verso di lei, senza ragionare oltre su quello che stava accadendo. Appena fu vicino alla sua fidanzata, la porta della cella si chiuse, e qualcuno da fuori immise un codice di sicurezza. Sebbene fosse appena entrato, Heiji avvertì i brividi trapassargli la schiena e il corpo reclamare caldo e protezione. Guardò la porta, esterrefatto, sentendosi infinitamente stupido.
La sua fidanzata era priva di forze, con le labbra e le occhiaie violacee, e lui non avrebbe potuto fare più nulla per salvarla. Provò ad operare le prime manovre di pronto soccorso: cercò di farla stare sveglia, cercò di coprirle il corpo con la sua giacca in modo da trattenerle il calore, ma non servì a nulla. Quando ebbe urlato per due tre volte in cerca di aiuto, si rese conto che era finita.
Abbassò le palpebre, e dopo averla liberata dalla corda che le stringeva il polso, l’attrasse a sé e la cullò sul suo petto. La sentì piangere e mormorare il suo nome con debolezza, mentre il freddo pungente rubava via quei pochi segni vitali che le rimanevano. A giudicare dall’apparenza, era lì già da circa mezz’ora. Ciò significava che le rimanevano solo diversi pochi minuti di vita, per poi morire per ipotermia. E a lui invece restava fin troppo tempo. Avrebbe visto spegnersi la sua ragazza tra le sue mani, ed avrebbe avuto anche il tempo di rimpiangerla. Appoggiando la testa al muro, vide un’ultima volta il volto del suo migliore amico farsi spazio nella sua mente.
“Che sono terribilmente impulsivo te lo ricordi bene però...”, strinse le dita sulle spalle della sua ragazza, stringendola a lui. Si morse le labbra, digrignando i denti come arrabbiato e rattristito allo stesso tempo, mentre lacrime gelate gli bagnarono gli occhi smeraldo. “Vero... Kudo?”
 
§§§
 
La mano destra di Midori oscillava dolcemente sotto il peso della pistola, muovendosi a passo con le sue gambe e il suo corpo, di fronte alla villa in stile occidentale dei Kudo. Fece ruotare il silenziatore davanti alla canna dell’arma, sparando un colpo sulla serratura del cancello, aprendola. Camminò lentamente verso il portone principale, deliziandosi del solo rumore dei suoi passi sui mattoni luminosi di tramonto. Quando fu davanti alla porta, la aprì sparandole. Entrò così nella villa, assaporando per qualche istante l’odore caldo di famiglia e quel profumo agrodolce che aveva sentito anche sulla sua pelle, quando s’erano baciati giorni e giorni prima.
“Mi hai così deluso” pensò tra sé e sé, attraversando l’ampio salone e salendo delicatamente sui gradini. “Io che credevo in te, nella tua giustizia...”
Scivolò con le dita sul corrimani in legno, stando attenta ad alleviare il suo passo sulle scale. Quando fu finalmente di fronte ad una porta socchiusa, con un leggero bagliore luminoso arancio rosso che si insinuava tra le insenature, strinse forte tra le mani il manico della pistola.
Aprì dolcemente la porta, ritrovandosi in una stanza quadrata dall’arredamento classico ma apparentemente lussuoso. Sul letto, tra le lenzuola candide e bianche, vi erano Shinichi e Ran, addormentati. Erano vestiti, uno accanto all’altro, ma non abbracciati. Ran era girata sul fianco verso il suo ragazzo, mentre lui dormiva supino e con le gambe distese.
Midori avanzò verso la mora, alzando la canna della pistola affinché potesse sfiorarle le tempie e i ciuffi dei capelli castani. Il suo respiro regolare era così fastidioso che avrebbe voluto conficcarle la pallottola nei polmoni.
Pressò il grilletto, quando una stretta forte le afferrò il polso e due occhi azzurri la fissarono con freddezza e coraggio.
«Non lo fare. Tuo padre non vorrebbe.»
Midori sbatté più volte le palpebre, inspirando lentamente, come se il tempo si fosse bloccato. Poi abbassò lo sguardo sotto di sé:
«S-Shinichi.»
«Ti riconobbi, poi, sai?» le disse, spostando dolcemente la pistola verso il basso. «La prima volta che ci incontrammo. Ti avevo visto piangere e disperarti per l’omicidio di tuo padre, direttore amministrativo della ditta Midori, tre anni fa. Sei la figlia dell’uomo che il fratello di Akira uccise: Ichigo.»
La giovane dai lunghi capelli cremisi emise qualche sospiro stentato, allargando sempre più le iridi smeraldo. Non era neanche più abituata a sentirsi chiamare così da quando suo padre era stato ucciso.
«Hai... recuperato la memoria?» si accertò, sebbene fosse pienamente consapevole della risposta.
«Sì» disse lui. «Questa casa... è il luogo dei miei ricordi.»
«Lei», indicò Ran col capo e con una smorfia storse il labbro. «Lei lo sapeva e ti ci ha fatto venire, è tutta colpa sua.»
«Non potevi sperare che rimanessi smemorato per sempre» replicò lui, stringendo più forte le dita intorno al suo polso, in modo da non permetterle nessun movimento. «Fin dall’inizio, il processo non ha avuto successo.»
«Di cosa stai parlando?» sputò fuori, con gli occhi arrossati. Si liberò della sua stretta ed indietreggiò di qualche passo, stringendo i pugni. «Quella scienziata, Miyano... l’ho vista utilizzare il siero giusto! Ce l’ha confermato Yuri, che lavorava con lei all’università!»
«Il siero... era sperimentale, e di conseguenza non funziona correttamente» rispose lui, alzandosi dal letto ed avvicinandola. «Sebbene il progetto della macchina fosse in cantiere da un paio di anni, il Giappone ha dato l’approvazione alla realizzazione solo un anno fa. Nel frattempo, gli scienziati che avevano già lavorato al siero della totale eliminazione della memoria, furono licenziati perché il governo aveva ritenuto il progetto pericoloso per un essere umano. Per questo venne assunta Miyano come scienziata, che dal siero iniziale e sperimentale ne ricavò uno molto più lieve, e per niente nocivo all’uomo.»
«E nessuno lo sapeva?»
«No, perché gli scienziati che furono licenziati sono emigrati all’estero, sentendosi offesi. A Miyano è arrivata solo qualche voce di corridoio, ma la verità la conoscevano in pochi.»
Midori deglutì. «E tu...come hai fatto a scoprirlo?»
«Perché io ho lavorato al caso di Akira e Shiro.»
«Non... non capisco.»
«Ti ho parlato di scienziati ed ingegneri che, lavorando al progetto della macchina, sono stati poi costretti ad emigrare, giusto? Durante il caso si scoprì che vi era un terzo fratello, oltre ad Akira e Shiro, Kichi Kitoshi: un ingegnere emigrato all’estero anni prima. Pensa un po’...»
«E... che... che c’entra con...»
«È stato Kichi a rivelargli la verità sulla macchina, in una delle sue piacevoli visite dove era carcerato quell’angioletto di suo fratello.»
La giovane sentì mancare un battito del cuore. «Cosa?!» sbottò, incredula. Scosse il capo e si mise a ridere, come a volergli dimostrare che era impossibile. «Mi stai dicendo che Akira sapeva che tu non avresti davvero perso la memoria?! Ma è ridicolo!»
Lui annuì con decisione. «A lui sarebbero bastati pochi giorni, forse ore, per attuare il suo piano. Lui voleva che io uccidessi Hattori, e solo dopo avermi fatto recuperare la memoria, avrebbe poi ucciso me. Questo... affinché noi soffrissimo allo stesso modo di come hanno sofferto lui e suo fratello anni prima. Affinché anche noi capissimo cosa significa essere mentalmente instabili, così tanto da portarci ad uccidere un amico senza nemmeno rendercene conto. E questo perché avevamo incolpato suo fratello dell’omicidio di tuo padre senza considerare le attenuanti. Ma Akira era stato in prigione poco prima, e non aveva saputo che suo fratello era ormai guarito dalla depressione che lo aveva colpito... e che quell’omicidio era volutamente intenzionale perché tuo padre non gli aveva pagato tre stipendi consecutivi.»
«Non è possibile» sbatté le palpebre Midori, indietreggiando. «Non è vero.»
Shinichi abbassò le palpebre e il capo, prendendosi una piccola pausa. Poi tornò a guardarla, e la sua voce si fece molto più sicura: «Ma qualcosa è andato storto... e quel qualcosa sei tu.»
La giovane fece vibrare i denti, avvertendo man mano l’ira impossessarsi di lei. Akira l’aveva tradita ed ingannata. «Come?»
«Ammetto di non aver capito per quale motivo» disse lui. «Ma per assurdo tu hai rallentato tutto. Dove sarebbero bastate ore, sono passati giorni e giorni. Ed anche la farsa di fingerti Ran... quella è stata una tua idea, non di Akira.»
La donna deglutì, mordendosi un labbro.
«Perché l’hai fatto?» chiese Shinichi. «Perché non gli sei stata fedele?»
«Io...» balbettò lei, mentre sul suo viso si sfumava un colore rossastro, che andava a stonare col nero pece e buio della sua pistola e dei suoi vestiti. «Io... sono sempre stata una tua fan.»
Il detective inarcò un sopracciglio. «Come?»
«Quando mio padre venne ucciso, io ero in Inghilterra a studiare, ma non ho mai smesso di seguirti. Ti adoravo da anni. Così quando scoprii che eri tu il detective che si era incaricato del caso mi eccitai al pensiero che saresti stato proprio tu quello a vendicare la memoria di mio padre e a fargli giustizia. E non rimasi delusa dalla vostra deduzione, che mise in gabbia quello psicopatico, ma allo stesso tempo mi diede l’opportunità di incontrare Akira. Era sconvolto, e dato che aveva davvero avuto pochi rapporti con suo fratello e dunque non sapeva molto di lui, non poté riconoscermi come figlia dell’uomo che Shiro aveva ucciso. Quando lo sentii blaterare minacce su di te, su come avrebbe potuto “portarti dalla sua parte” mi preoccupai per la tua salute, così agii nel modo opposto che una persona normale avrebbe fatto: me lo feci amico. Quando mi chiese il nome, optai per assurdo per quello che più mi avrebbe avvicinato a mio padre... il nome della sua ditta. Gli raccontai una menzogna secondo cui anche io avevo avuto a che fare con te e che volevo fartela pagare, e dopo un paio di mesi di frequentazione, lui si cominciò a sbottonare. Mi disse che avevano inventato una macchina capace di cancellare la memoria ad ogni essere umano, e mi confidò che se fossimo riusciti a sottometterti al processo, tu “saresti passato dalla sua parte”.»
Shinichi assottigliò gli occhi, stranito. «Scusa, ma se eri una mia fan, perché non sei venuta a dirmelo?»
«Non capisci?» sbottò lei, stringendo i pugni e riempiendo le palpebre di lacrime o magari di rabbia. La villa era silenziosa come una chiesa, anche le parole dette più flebilmente echeggiavano. «Se tu avessi perso davvero la memoria, e ti fossi dimenticato di tutto...»
Prese una pausa, come se si fosse resa conto solo in quel momento di quanto stupida era stata.
«Saresti potuto finalmente essere... mio.»

 
 
Me:
Rieccomi qui! Ebbene, siamo già arrivati all'ottavo capitolo :) il prossimo è l'ultimo e sancirà la fine di quest'altra storia, che spero che bene o male sia riuscita a prendervi. Shinichi ha recuperato la memoria grazie sia a casa sua, a Ran, sia al processo che fin dall'inizio non è andato come avrebbe dovuto andare. Ammetto che all'inizio avrei voluto rendere Shin criminale per più tempo rispetto a come ne è poi uscito nella fic, ma non ci sono proprio riuscita... XD In fondo già è stato complicato e forzato farlo così! Hattori e quel genio di Kazuha sono intrappolati nella cella frigorifera, e quella santa donna (?) di Midori giunge a casa Kudo nell'intento di uccidere i due fidanzatini, o forse solo la sua rivale in amore :)
E, in tutto ciò, i due piccioncini hanno trovato un po' di tempo comunque per amarsi, dopo parecchi chap u.u spero che la scena vi sia piaciuta!
E...niente. Ci vediamo tra 7 giorni, col nostro ultimo appuntamento.
Spoiler, e....ciao!! 
Un bacione

«Per caso di qui è passato un ragazzo alto, dalla carnagione olivastra e con un evidente accento di Osaka?!» specificò, agitato e impaurito. Era la caratteristica di Heiji che, per assurdo, lo divertiva di più e che non avrebbe mai potuto ignorare. Quell’accento così strano, che se mai avesse voluto provare ad imitare si sarebbe beccato un bel pugno in faccia, perché ad Hattori dava fastidio che uno di Tokyo potesse parlare come lui, nella sacra lingua del Kansai. Però adesso non era più divertente; quell’accento, adesso, risuonava fastidiosamente nella sua mente e non scemava più via. Adesso lo odiava.
«Ehm... mi sembra di sì» disse l’uomo, stranito dal comportamento del detective. «Ma parecchio tempo fa. È andato verso la cucina.»



Tonia
   
 
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