Lo vide
e lo seguì.
Lui. Il ragazzo più ricco
e simpatico della città ora ridotto a un pezzente che chiedeva l’elemosina. Si
portava fino sopra la città la puzza dell’accampamento dei lebbrosi in pianura.
Come era caduto in basso
Francesco. E perché lo seguiva? Dopo la scena di pochi mesi prima, quando si
era spogliato nudo di fronte a tutta la città e fece venire un infarto a quel
riccone di Pietro di Bernardone. Come erano rimaste le facce di suo padre e di
suo fratello. Se il vescovo non l’avesse avvolto nel suo mantello lo avrebbero
sicuramente ucciso, eppure il mantello rosso non lo privò della derisione di
tutta la città.
Poco tempo prima
commentava in taverna assieme a lui i sederi delle ragazze che passavano. Ora è
lì ad annunciare il Regno di Dio.
“Dannazione Francesco!” lo prese per la manica della sua tunica
sporca e raffazzonata fatta di sacco “Che ti è successo! Non sei un prete!”
Lui lo guardò. Erano
davanti a Santa Maria in Minerva, nel centro della città, visti da tutti. Gli
sorrise spalancando la bocca e guardandolo come se fosse un ebete.
“Gesù non è venuto solo
per i preti…” Disse mentre si girava sorridendo. Era troppo per lui.
“E allora fatti prete!”
Lo guardò mentre il cuore gli saltava in gola. Dannazione che cosa gli stava
succedendo? Perché ci stava così male? E sì che non era il suo migliore amico,
Francesco di Bernardone. Aveva avuto amici morti in guerra, amici ancora
prigionieri a Perugia, amici morti cadendo da cavallo o dopo aver preso
malattie nei bordelli. E stava così male per uno che era andato via di testa?
Sicuramente l’anno passato a Perugia lo aveva distrutto. Era da perdonare. Sì,
ma a lui, che gliene importava? Che cosa gli cambiava in tasca? Lui, nobile,
cavaliere, già promesso in sposa a una nobile Perugina, proprietario di un
palazzo nel centro di Assisi e senza problemi di nessuna natura? Cosa lo
sconvolgeva in Francesco?
“Non oserei mai farmi
prete, per ora. Io voglio essere felice. Io voglio essere libero.”
Libero. Disse la parola libertà, aveva sentito bene. Non ci vide più dalla
rabbia, lo tirò forte a sé e lo portò a calci fino a casa sua, a pochi passi
dalla piazza, aprì la porta e lo buttò dentro, con i passanti che ridevano,
nell’attesa che magari passasse per di là Pietro di Bernardone per farsi
quattro ulteriori risate.
“Libertà!”
Gli urlò, e fu fortunato a non fare uscire qualche bestemmia.
“Libertà! Sei stato un
anno dentro, Francesco! Lo so perché ci sono stato anch’io, anche se solo per
pochi mesi, lì, a Perugia, dopo quella battaglia che abbiamo perso. Tu sei
stato liberato solo dopo un anno, ma so cosa significa anch’io. So cosa
significa non vedere la luce del sole,
essere tenuto fermo con delle catene, peggio dei cani, essere picchiato dalle
guardie. Lo so. Quella è la prigionia. Ma quando sei tornato a casa, avevi
tutto quello che volevi, potevi scegliere tutto, potevi lavorare e sposarti con
una nobile, mettere su famiglia, bere ed ubriacarti e divertirti! C’eravamo
sempre noi con te! E tu invece prima a lavorare in mezzo ai sassi nella
cappella diroccata di san Damiano, poi a baciare lebbrosi, infine ad esporti al
pubblico ludibrio, nudo davanti a tutti. Quella è libertà? Essere pazzi è la
libertà?”
“Io non sono pazzo –
trasalì bonariamente Francesco – io sono libero. Vedi, tu ti affanni per le tue
nozze, per i tuoi averi, per la tua casa. Io non ho queste cose per cui
affannarmi. Io sono libero. Dio nutre persino i passeri, nutre anche me con le
elemosine. Veste i gigli dei campi, veste anche me con queste pezze. Io sono
libero di gioire della natura e godere della presenza di Dio.”
Queste parole lo fecero
trasecolare ancora di più. Lo cacciò fuori a pedate da casa sua, mentre la
gente si era accalcata per ascoltarlo. Si trovò di fronte alla folla che rideva
e Francesco, con una faccia ancora più ebete, dirgli “Dio ti benedica fratello!”.
Non ci vide più. Gli sferrò un pugno sulla faccia e lo fece sanguinare, mentre
gli assisani si rotolavano per terra dalle risate, e Francesco stava lì a
guardare il cielo e ringraziare Dio.
Prese il suo cavallo,
corse fuori, e cominciò a cavalcare lontano, verso Spello.
Dannato quel pezzente. Ma perché si era così arrabbiato. Perché? “Tu ti affanni
con le tue nozze, i tuoi averi, la tua casa”. Gli tornarono in mente le parole
di Francesco. Si disse di no, che gli affanni fanno parte della vita, che sono
funzionali ad un risultato, che lui con le nozze avrebbe avuto la discendenza,
con gli averi il benessere e con la casa il prestigio. Eppure il suo cuore era
pesante, era stanco, forse, di pensare sempre al domani e di sottomettersi
sempre ai banchieri o fare affari per riscuotere denaro dalle sue tenute. Che
cosa otteneva andando a letto rispetto a quando si era svegliato? Ma lui si
divertiva. Sì, a differenza del frate lui poteva divertirsi, festeggiare,
ubriacarsi. E poi gli vennero in mente gli amici… amici, gente che lo sfruttava
per la sua ricchezza, poi quel mal di testa dopo le sbornie, e quel senso di
vuoto dopo aver fatto l’amore con qualche cameriera.
Ma perché Francesco era
così contento? Si era detto, anzi, tutti dicevano che era pazzo, ma nel suo
intimo sapeva che non era così. Sapeva che Francesco era tutto tranne che
pazzo. Che forse era l’unico intelligente. Poi si rivide lì, prigioniero a
Perugia, anche lui, tra ferite e moribondi, con le catene strette ai polsi le
cui cicatrici non erano ancora andate via. Stava impazzendo anche lui. Vide,
mentre cavalcava, un piccolo accampamento di lebbrosi in lontananza. E sentì
risate provenire da quel posto di desolazione. Si ricordò che qualche altro
scellerato che aveva seguito Francesco che stava lì a curare le piaghe dei
lebbrosi. Il puzzo era insopportabile. Penetrò tra le tende dopo esser sceso da
cavallo, con una fortissima tentazione di scappare via a gambe levate. L’odore
era insopportabile. Bambini deformi si accalcavano attorno a lui e lo
toccavano, con gli arti ormai ridotti a moncherini, e poi vide Silvestro,
Bernardo, Elia, Egidio, tutta gente che era cresciuta assieme a lui salutarlo
come se fosse la cosa più normale del mondo. Non un senso di disgusto da parte
loro, ma solo sorrisi, solo canzoni allegre sulla natura e su Dio, basate su
melodie provenzali e strofe cortesi. Sentì il peso delle sue nozze, dei suoi
averi, della sua casa, e comprese che era veramente schiavo di queste cose:
perché solo chi non ha niente può abbracciare un lebbroso senza pensare a fare
brutta figura. Era passato da una prigionia all’altra: le catene dei perugini
erano state sostituite dalle catene della vita sfarzosa.
Non commise gesti
inconsulti. Tornò ad Assisi a notte inoltrata, bussò alla cattedrale di San
Rufino e si fece aprire dal sagrestano, poi corse verso l’altare maggiore. Si
inginocchiò e pianse. Pianse perché per ogni momento della sua prigionia aveva
pregustato la vita in libertà, ma non avrebbe mai immaginato di poter divenire
uno schiavo, di poter provare l’infelicità. Si ricordò dei giorni di cammino
per tornare ad Assisi dopo la sua prigionia, quando bevve l’acqua fresca di una
fontana e dormì all’addiaccio, contando le stelle e ringraziando per la sua
libertà, quando aveva ancora addosso la veste di prigioniero.
Una mano però gli toccò la
spalla. Era Francesco.
“Tu qui?” Chiese lui.
“Sì fratello. Dopo oggi ho
capito che presto sarei dovuto passare da te e mostrarti per filo e per segno
la nostra regola. Abbiamo intenzione di presentarla al Papa!” Disse ridendo.
“Tu sapevi che?”
“L’ho sempre saputo. Sei
sempre stato molto spirituale, non ti sei mai fermato all’apparenza delle cose.”
Gli venne improvvisamente
da piangere, abbracciò Francesco e vide quel crocifisso sull’altare. Dio, la
libertà assoluta, che si fa uccidere per amore. E poi vide le sue mani ed i
suoi polsi. Le cicatrici delle catene non c’erano più.