Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: kiku chan    13/03/2014    1 recensioni
A Trost c'è un bar.
Ma non è un bar normale.
Beh, in realtà, si... ma dato che è importante nella storia facciamo finta che sia anormale.
in questo bar, in un tavolo vicino al caminetto, si riunisce un gruppo di ragazzi, un gruppo di ragazzi speciali.
Beh, in realtà, non lo sono, ma dato che sono i nostri adorati protagonisti, faremo finta che lo siano.
Allora... questo è tutto ciò che posso dirvi e spero di avervi incuriosito.
Perciò, se mai vorrete leggere, buona lettura:)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Rivaille, Un po' tutti
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Frasi della tipa che non è l'autrice, allora, io, non sono l'autrice, come credo si sia capito, questo testo è stato scritto da una mia amica che non ha più il computer, povera cara, comunque penso che il testo sia fantastico e quindi non ho potuto lasciarlo li senza essere pubblicato, povero testo. Devo scusarmi da parte dell'autrice in quanto non ha scitto un uo commento, non so nemmeno se ha senso detto così, ma si scuserà personalmente nel prossimo capitolo. Comunque a me è piaciuto tanto, tanto, tanto e mi auguro piaccia anche a voi. Che altro posso dire se non buona lettura a tutti? Proprio nulla. Quindi... buona lettura. :)


 

destiny bar, let's meet

economia e pioggia


 

Marco sedeva su una delle sedie di plastica della sala d’aspetto dell’ospedale di Trost, torcendosi le mani. Stava sudando dall’ansia, tanto che la sua maglietta (quella della squadra di calcio in cui giocava) era zuppa e puzzolente. Aveva paura di quello che i medici gli avrebbero potuto dire, era completamente nel panico. Sua madre era stata male diverse volte, data la sua natura cagionevole, ma mai era successo che l’avessero dovuta portare in tutta fretta al pronto soccorso.

Era sempre stato un ragazzo tranquillo, e, soprattutto dopo la morte del padre, aveva sempre cercato di aiutare la madre il più possibile. Lei lavorava come commessa in un panificio, non guadagnavano molti soldi ma abbastanza da permettere a Marco di avere un’infanzia felice.

Era pieno di amici, Marco, perché era una persona sulla quale si poteva sempre fare affidamento, un giovane buono e gentile, sempre disponibile.

Anche nei momenti più difficili si faceva forza e metteva sempre la felicità degli altri davanti alla sua.

Eppure in quel frangente non riusciva a trovare nulla su cui aggrapparsi. Era tutto buio intorno a lui, ogni speranza di felicità era svanita. Cercava sempre di essere positivo ma in quel momento non poteva fare altro che pensare al peggio.

I ricordi, che spesso impiegava come punto di forza nelle sofferenze, non lo aiutavano per niente. Gli tornava in mente il funerale del padre, il giorno più brutto della sua vita. Finora.

 

-Signor Bodt?

 

Marco trasalì nel sentirsi chiamato. Alzò la testa e vide, davanti a se, un medico che teneva in mano una cartella clinica e lo guardava con una strana tristezza negli occhi. L’uomo si sistemò gli occhiali sul naso: - vede signor Bodt, - cominciò, incespicando a ogni parola – la terapia non ha funzionato, sua madre è morta.

 

Era in quel preciso momento che Marco si svegliava sudato e ansimante nel suo letto. Ed ogni volta era sollevato nel constatare che, dopotutto, era stato soltanto un incubo.

Peccato che sua madre stesse facendo davvero una terapia. A causa del cancro.

All’inizio Marco era spaventato di perderla per sempre. Non aveva più un padre e senza sua madre, nonostante avesse ormai diciannove anni compiuti, sapeva di non poter andare avanti.

La malattia l’aveva molto provata, e la stessa cosa avevano fatto tutte le terapie, rendendole impossibile continuare a lavorare. Perciò lui aveva dovuto abbandonare gli studi e cercare un posto di lavoro che gli permettesse non solo di portare a casa del cibo ma anche di comprare le medicine necessarie alla madre.

Marco, disteso sul letto, senza il coraggio di cercare di riaddormentarsi, sospirò. Nessun impegno, nel piccolo paesino in cui abitava, gli forniva la giusta somma di cui aveva bisogno.

Il ragazzo sospirò nuovamente, alzandosi dal letto. Oltrepassò il corridoio in punta di piedi per non svegliare la madre, che dormiva nella stanza accanto alla sua, vestito soltanto di una canottiera e un paio di boxer. Entrò in cucina e aprì l’anta del frigo. Come al solito. All’interno: un cartone di latte scaduto, un limone, un barattolo di ragù e una bottiglia di birra. Vuota.

Marco emise un gemito stanco e richiuse il frigo.

Fatto ciò tornò in camera, si vestì e scrisse un biglietto che lasciò attaccato al frigo.

 

Vado a fare la spesa, torno tra poco. Marco.

 

 

Marco non prese la macchina. Il mercato del piccolo paese in cui viveva era a pochi passi da casa sua. Guardò distrattamente l’orologio. Erano le 6:30 di una domenica d’inverno. Il momento perfetto per camminare e riflettere. Dopotutto il mercato apriva alle 6:00.

Arrivò a destinazione dopo dieci minuti di cammino, infreddolito e tremante.  Il mercato di Shinganshina era una bottega dove era possibile comprare quasi tutti i beni indispensabili. Era l’unico negozio del genere in tutto il paese, e tutti si servivano lì almeno una volta a settimana. Quindi, di conseguenza, tutti conoscevano la vecchia proprietaria. Infatti, appena Marco varcò la soglia della porta automatica, la vecchia, seduta alla cassa, lo salutò con un caloroso sorriso.

Marco ricambiò il sorriso. E quando Marco ricambiava un sorriso, lo faceva sul serio. Perché quando Marco sorrideva tutti si fermavano a guardarlo. Sprizzava gioia e allegria dai pori (o meglio, lentiggini).

Il ragazzo cominciò a far scorrere gli occhi sugli scaffali, infilando nella busta di carta, che si era appositamente portato da casa, i prodotti che gli servivano. Una volta alla cassa aspettò che la vecchia gli consegnasse il resto e lo scontrino e fece per uscire.

- ho sentito che cerchi un lavoro- disse la vecchia.

Marco sorrise, imbarazzato. Non amava che la gente sapesse della sua condizione economica.

- si, è vero, ma in realtà il lavoro già ce l’ho, mi servirebbe solo…-

- guadagnare più grana- terminò la vecchia al posto suo.

Marco fece per ribattere che i soldi di per se non gli interessavano, ma la donna fu più veloce di lui.

-senti, ragazzo,- continuò- ho saputo che cercano un cameriere in una città poco distante da qui. Conosco il proprietario e potrei mettere una buona parola per te -.


 


 

17:00

 

Eren era nato imperfetto ed era consapevole del fatto che sarebbe morto tale. Aveva una forza di volontà invidiabile e imparava in fretta ma veniva sempre superato in ciò che faceva.

Una volta era sua sorella, un’altra era quell’idiota di Jean, persino quella divoratrice cronica di Sasha.

Anche con tutti i buoni propositi del mondo finiva sempre con l’incazzarsi per non essere arrivato primo, picchiava il suo cuscino anti stress (compratogli dall’amico Armin, per paura che alla fine usasse lui per sfogarsi) e poi si stendeva sul letto, stremato dall’ennesima sconfitta.

Davanti alla fermata dell’autobus, appena terminò le ore di punizione che aveva accumulato in una settimana, con un’immancabile espressione incazzata, Eren osservava torvo i passanti, protetti dai loro stupidi ombrelli colorati. In realtà l’unico stupido era lui, che l’ombrello l’aveva dimenticato a casa.

Sbuffò, coprendosi i capelli, ormai bagnati, con il cappuccio della felpa. Per quanto avrebbe dovuto aspettare perché la pioggia si fermasse? Minuti? Ore?

C’era solo un modo per descrivere quella situazione: che palle.

Tutt’un tratto, una macchina gli passò a pochi metri di distanza, schizzando e bagnandolo completamente.

L’auto si fermò e dal finestrino si sporse quella faccia di cavallo di Jean. Eren si siede dell’idiota per non aver capito subito di chi si trattava.

- ehi, Eren- esclamò Jean, con quel suo ghigno da stronzo – ti trovo bagnato, che ti è successo?-

Detto ciò cominciò a ridere da solo, a un volume tale che se ci fosse stata gente in giro si sarebbero girati tutti a guardarlo.

Eren digrignò i denti, ricolmo di rabbia. – Jean sei un bastardo- urlò, lanciandosi all’inseguimento della vettura. Peccato che Jean, notando l’espressione furiosa di Eren, premette il piede sull’acceleratore, sgommando lontano.  E Eren si trovò ancora più bagnato di prima, se possibile, in mezzo alla strada come un cucciolo sperduto.

E siccome la pioggia non sembrava voler cessare dovette farsi tutta la strada verso casa a piedi, con il serio rischio di morire durante il tragitto causa scivolate.

Appena tornato a casa, appese la giacca sull’appendiabiti (evitando di pensare alla pozzanghera che si sarebbe creata in seguito) e si distese sul letto, fregandosene del fatto che anche quello si sarebbe impregnato d’acqua con lui sopra.

- Eren? Sei tu?- esclamò una voce femminile.

Mikasa apparve sulla soglia della stanza, il volto impassibile e le braccia incrociate sul petto.

Mikasa era la sorella adottiva di Eren e, in fondo, anche la sua migliore amica. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale e la famiglia di Eren si era offerta di mantenerla finché non le avessero trovato

una famiglia affidataria. Alla fine lei era rimasta con loro e di altre famiglie non se n’era più parlato. Era una delle ragazze più ammirate della scuola, non solo per la sua bellezza e i suoi tratti orientali, ma anche per la sua incredibile forza fisica.

Nonostante fossero amici (e fratelli) Mikasa soleva trattarlo come un bambino, facendolo sentire non solo inferiore ma anche imbarazzato. per di più i due ragazzi frequentavano la stessa classe, per cui Eren tornava spesso a casa arrabbiato con la sorella.

Soprattutto quando lo difendeva con Jean, palesando il fatto che lui fosse più debole fisicamente sia rispetto a lei che al ragazzo più grande. “ti fai difendere dalla sorellina, sfigato?” esclamava Jean. Ed Eren non aveva nemmeno il tempo per rispondergliene di tutti i colori che Mikasa l’aveva già afferrato per lo zaino e aveva cominciato a camminare verso casa.

- Dove sei stato?- chiese la sorella, in tono piatto.

Non era facile comprendere Mikasa ma Eren sapeva che quando non era preoccupata o in pena per lui, era arrabbiata.

- Piove- cominciò Eren – ho aspettato alla fermata dell’autobus-.

Mikasa sembrò sollevata.

- pensavo che avessi incontrato Jean- disse – stavo per uscire a cercarti-.

Eren corrugò la fronte, infastidito dall’iperprotettività della ragazza.

- non ho bisogno di te per battere Jean- esclamò, guardandola accigliato.

- ti sbagli- sussurrò la ragazza, terminando il discorso uscendo dalla camera, lasciando Eren irritato e fradicio.

Il ragazzo sbuffò, stufo di quei discorsi con Mikasa che finivano sempre con una sua sconfitta, che, verbale o fisica che fosse, lo metteva sempre di cattivo umore.

Si diresse verso il bagno, evitando strategicamente di incrociare la sorella, si spogliò e si mise sotto il getto freddo della doccia. Era quello di cui aveva bisogno per calmare i suoi bollenti spiriti. Lo faceva spesso, lo aiutava a calmare la rabbia di cui era sempre più spesso preda.

L’acqua cominciò a diventare tiepida ed Eren iniziò a focalizzare i propri pensieri sui suoi programmi per la serata. Aveva appuntamento con Connie al Rise, insieme a Sasha e al solito gruppo di amici.

I suoi genitori sarebbero tornati il lunedì seguente, siccome erano partiti per una seconda luna di miele.

Grandioso, Eren avrebbe avuto via libera per tutto il weekend.

Uscì dalla doccia, si asciugò in fretta e furia e, con ancora i capelli bagnati, si vestì.

Indossò una semplice maglietta bianca, un paio di jeans neri e un giubbotto di pelle.

Sarebbe stata una grande serata.

Andò in cucina, recuperò un biscotto dalla credenza, controllò l’orologio e si scoprì elegantemente in ritardo.

Fece per uscire dalla porta principale dell’appartamento quando una voce alle sue spalle lo fermò.

- Dove stai andando?- disse Mikasa.

- Al Rise- rispose prontamente Eren.

- Solitamente ci andiamo più tardi. Sono solo le sei.-

- Sì, ma ho dato appuntamento a Connie adesso.-

-Ci sarà anche Jean?- chiese Mikasa, dopo una piccola pausa.

- Credo di si- sussurrò il ragazzo.

-Allora vengo anche io- disse Mikasa, afferrando la giacca dall’appendiabiti e uscendo dalla porta, precedendo Eren.

Eren sospirò e chiuse la porta alle proprie spalle.

 

 

In fin dei conti, il Rise era un bel posto. Accogliente, non troppo claustrofobico, e a volte c’era pure un gruppo niente male che suonava. Era simile a uno di quei pub che si vedono in Inghilterra, perfetto per chi vuole rifugiarsi in un bel posto caldo durante una nevicata. C’era in fatti un gigantesco caminetto, dove gli avventori potevano scaldarsi e attizzare il fuoco. I mobili erano per la maggior parte di legno, ornati con fregi fioriti, mentre le pareti erano in finta pietra, così da ricreare un ambiente rustico, in contrasto con la modernità della città. Il proprietario era un certo Erwin Smith, un tipo piuttosto simpatico che aveva aperto il locale, un paio d’anni prima, quando Eren aveva appena cominciato a frequentare locali.

Ere e il suo gruppetto di amici avevano cominciato a frequentarlo per due motivi: primo, era vicino ai condomini in cui tutti loro (o quasi) vivevano e, secondo, Erwin gli aveva presi in simpatia, offrendo ad alcuni di loro un posto fisso di lavoro.

Eren raggiunse il Rise alle sei e un quarto, cercando in vano di stare al passo con Mikasa, che camminava spedita a una velocità ai limiti delle normali possibilità umane.

-Eren, finalmente!- esclamò Connie appena il ragazzo mise piede nel locale.

I due ragazzi si sedettero al solito tavolo. Insieme a loro, ad occupare un posto, c’erano Sasha, la ragazza di Connie, che salutò Eren con un abbraccio talmente stretto che il ragazzo risciò di soffocare, Reinar, che era troppo impegnato a conversare con Berthold per curarsi di Eren, Annie, che fece un piccolo cenno con la testa e Armin.

Quest’ultimo non era altri che il più vecchio degli amici di Eren, probabilmente il migliore.

- Eren!- esclamò il ragazzo biondo, lasciando posto accanto a se per l’amico.

Il gruppetto di amici cominciò a conversare del più e del meno.

- Ma l’avete vista la nuova prof. Di psicologia? Non dimostra più di quindici anni!- disse Connie, subito dopo aver salvato una scodella di patatine dalle fauci fameliche della fidanzata.

  • Parli di Petra Ral?- chiese Eren – ho saputo che faceva l’assistente sociale prima di venire a insegnare qui-

  • - Credo che il prof Bossard abbia una cotta per lei- sussurrò Reinar, sghignazzando. – in fondo, ha un bel cu…- . fece per dire il ragazzo quando una ragazza appena arrivata lo zittì tirandogli un pugno dritto in testa.

Ymir si sedette al tavolo spingendo tutti gli altri, mentre il povero Reinar si massaggiava la testa, insultandola facendo in modo che lei non sentisse.

- ehi, ragazzine, - esclamò ridendo – che si dice?- . quindi prese il bicchiere di birra di Connie e ne trangugiò metà.

- E Christa dov’è?- chiese il ragazzo, senza il coraggio di opporsi alla giovane lentigginosa.

Ymir sorrise al solo pensiero della neo fidanzata. – Fa da tutor ai ragazzini delle medie, oggi- rispose, finendo definitivamente il boccale, seguita da un profondo sospiro di Connie. Annie, immersa nella lettura di un libro, sghignazzò, guardando di sottocchio il broncio indispettito del ragazzo, mentre la risata di Reinar esplose, seguita da quella più contenuta di Berthold.  Intanto Sasha tentava invano di farsi restituire le patatine che Mikasa teneva in mano.

Eren sorrise.

In fondo, quelli erano i migliori amici che avrebbe mai sperato di avere.

-Ehi, sfigato, ti sei già asciugato-

quella voce rovinò tutta l’atmosfera gioiosa che si era creata, almeno per Eren. Perché quella voce apparteneva al suo nemico numero uno, alla sua nemesi. Jean Kirchstein.

- Jean!- sclamò Connie, sorridente. Perché, in fondo, la rivalità, era circoscritta soltanto tra quei due.

- Bastardo!- esclamò Eren, alzandosi in piedi per fronteggiare il nuovo arrivato.

Jean era in piedi davanti a lui, le braccia incrociate al petto e lo sguardo strafottente. Come suo solito, d’altronde.

- che cazzo ci fai qua?- chiese Eren, sfoderando la sua espressione più rabbiosa.

- mi ha invitato Connie- rispose calmo Jean, come se la rabbia di Eren non lo interessasse minimamente.

Eren rivolse lo sguardo verso Connie, che nel frattempo stava lentamente sprofondando sotto il tavolo.

- suvvia, ragazzi, - balbettò il ragazzo, sentendosi chiamato in causa – per una volta dimenticate le ostilità. Fatelo per il gruppo-.

Eren si sedette al suo posto, guardando Jean prendere una sedia e occupare posto al loro tavolo, e sospirò.

In fondo quello era il gruppo di amici che aveva sempre desiderato avere, escluso Jean.

 

  
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