Questa storia nasce grazie al contest "Faccia da random" di Delirious Rose, che si può trovare qui
La finestra di gesso
Capitolo uno: Dove il protagonista si presenta e strane cose disturbano la quotidianità.
Spazientito, Guglielmo osservò il più grande dei suoi figli tentare di imboccare la più piccola delle sue nipoti. Con uno scarso successo: era troppo impegnato a guardare la replica dell’ennesimo reality, piuttosto che centrare con il cucchiaio la bocca della figlioletta.
“Ti ripeto, Orazio – cercò di modulare la voce affinché il comando non suonasse come tale, ma più come un consiglio – concentrati su quello che stai facendo, per l’amor del Cielo: stai impiastricciando tutta la cucina”.
Il giovane a malapena lo considerò, facendo spallucce.
Berenike sospirò, annoiata da quello che si preannunciava l’ennesimo battibecco: da quando i suoi fratelli erano tornati a casa, non c’era più stato un attimo di requie. Era stato così bello poter godere dell’ampio attico in tutta pace… essere finalmente figlia unica, dopo decenni di imposizioni da parte dei maggiori… il rientro all’ovile di entrambi per festeggiare il compleanno della mamma l’aveva del tutto destabilizzata. Festeggiamenti e permanenza che si sarebbero prolungati per un’intera settimana. Lasciò che i lunghi capelli biondi le coprissero il viso e affondò nei cuscini del divano, afferrando le cuffie e l’Ipod: non voleva avere nulla a che fare con la tempesta in arrivo.
“Orazio, ti prego, fa un po’ attenzione!”.
“Papà, sono più che in grado di imboccare mia figlia, perché non esci dalla
cucina e non vai a fare qualcosa? Chessò, una di quelle cose che voi pensionati
fate” ribatté, stizzito dalle continue interruzioni.
Normalmente un’uscita così maleducata avrebbe generato un alterco di proporzioni epiche: Guglielmo sapeva di aver instillato ai propri figli buona educazione e rispetto, e non ammetteva che se ne dimenticassero. Ma l’accenno – voluto? – al suo recente stato di pensionamento lo sgonfiò di botto: si girò, lasciando la stanza. Lanciò un’occhiata alla figlia minore e la trovò persa nel suo mondo di musica assordante.
Vorrei poter avere anche io un mondo tutto mio dove scappare…
Sorrise, però, rendendosi conto che l’aveva. Il nuovo, gigantesco, tempo libero a sua disposizione era stato convogliato in una passione che si trascinava fin dall’adolescenza: il teatro. Una passione feroce, che contrastava talmente tanto con la sua immagine di direttore amministrativo di una delle più grandi agenzie di rating europee, da lasciare basito ben più di un conoscente. Persino sua moglie, che pure ne conosceva l’istrionica teatralità dei gesti, era rimasta sgomenta dal tempo che passava sopra e dietro il palcoscenico: ben più di quello che passava in casa, a onor del vero. Tirò un calcio a un sasso sul marciapiede, perso nelle sue riflessioni su matrimonio, età che avanza e incompatibilità di carattere. Laura era sempre stata speciale e aveva sempre accordato fiducia alle sue decisioni, perfino le più stravaganti – i nomi dei figli in primis – ma ultimamente questa remissività gli pesava. Avrebbe voluto avesse più carattere, più pepe. Un po’ come Giuditta, l’attrice protagonista dello spettacolo che stava allestendo… e che, sfortunatamente, aveva trent’anni in meno di lui. Per quanto gli risvegliasse il sangue vederla spogliarsi per indossare i costumi di scena, non riusciva proprio a vedersi con una donna di poco più giovane della maggiore delle sue figlie. Ma nemmeno si vedeva più accanto a sua moglie.
Che schifo di situazione.
Era deprimente constatare quante possibilità avesse sulla carta e quanto poco, in realtà, potesse fare per spostare la sua vita dai binari di routine e monotonia sui quali viaggiava. Ripensò a Berenike.
La più piccolina, con quel nome dal sapore greco, tratto dalla sua più amata opera di Poe, era quella più simile a lui per indole – meticolosa e puntigliosa tanto quanto sognatrice – ma era totalmente insofferente alla vita famigliare. Aveva scelto il liceo classico, nonostante lui premesse per un indirizzo di studio più pratico.
Ha come una vena di acciaio, dentro di sé, pensò calciando per l’ennesima volta il piccolo sasso, all’apparenza è fragile e minuta, ma non si lascia piegare da niente e da nessuno...
Il teatro gli regalò la gioia sperata.
“Carlo, sei una donna, la vuoi capire? Comportati da donna, per la miseria!
Quale signora si siederebbe così?” urlò al proprio protagonista, reo di essersi
lasciato andare sulla poltroncina di chintz con ben poca grazia.
“Veramente sono una donna mascherata da uomo, e quindi mi sembra che l’essere mascolino sia la scelta migliore” ribatté questo esausto: era stufo di ripetere la stessa scena ancora e ancora, tutto a causa di dettagli minori che nessuno, dalla platea, avrebbe notato.
“E quando tornerai vestito da donna? La grazia è una qualità innata, trasversale al genere” lo rimbrottò ancora il regista.
Giuditta si alzò in piedi, attirando su di lei l’attenzione.
“E allora perché non ci fa vedere come un vero uomo vestito da donna vestita da uomo si comporterebbe?” lo canzonò. Gli altri borbottarono: era l’unica che potesse permettersi certi toni e certe uscite con l’irascibile superiore.
“D’accordo” scandì questo, sorprendendo i più.
Lesto Guglielmo si avviò verso i camerini. Scelse il più
vistoso, fra gli abiti della sua taglia – una scelta comunque ristretta,
vista la mole… – afferrò una parrucca, fece un brusco cenno alla
truccatrice, già sull’orlo delle lacrime dalle risa – e le ordinò un trucco
discreto, ma visibile. Poi fu la volta dei tacchi. In dieci minuti era sul
palco. La camminata era un po’ traballante, ma cercò lo stesso di instillarvi un
certo fascino. Ancheggiò, sbattendo le ciglia, in direzione di Carlo, poi si
sedette, le ginocchia strette e una mano ad accompagnare la gonna, accanto a
lui.
“Vedi, caro, una signora si comporterebbe così – flautò – e anche travestita da
maschio come Rosalinda fa, fingendosi Ganimede, non perderebbe certo questa
compostezza” si tolse la parrucca, scalciò via i tacchi e proseguì, con la sua
solita voce “come vedi essere uomini non significa essere rozzi. Non voglio
gente rozza, nella mia commedia. E non so se tollererò ancora gli sfacciati”
terminò poi, puntando il dito contro la protagonista che piangeva dalle risate.
Non poté esimersi dal sorridere a sua volta: un omone di due metri, sessant’anni
passati, infilato in un attillato abito verde… L’ammonimento si sciolse in una
complice strizzata di occhi. A cui Giuditta, prontamente, rispose. Il gesto gli
riportò alla mente un ricordo della sua famiglia: Berenike, da piccola, faceva
spesso linguacce a tutti, e lui dopo la sgridata di rito, la rinfrancava sempre
con un occhiolino…
Era quindi con un certo buonumore che dichiarò concluse le
prove, invitando tutti a rivedersi il lunedì successivo. Seguì gli attori nei
camerini, per togliersi le ultime tracce di trucco: per quanto abituata alle sue
stravaganze, non riteneva che Laura avrebbe lasciato passare rimmel e rossetto.
Forse un motivo in più per rimanere truccato…
“Comunque ci sta provando” sentì dire a uno dei comprimari.
“Ma smettila, è vecchio, ha l’età di mio nonno!” ribatté
ridendo Giuditta.
Restò fuori, in attesa.
“Proprio per quello: è in pensione, è vecchio, vede una bella ragazza… è il
cliché più vecchio del mondo, chissà quante volte l’avrà seguito con le sue
segretarie” rincarò la dose una voce maschile che riconobbe a stento: era uno
dei fonici.
“Ragazzi, è che non lo sapete prendere: è uno scassa coglioni, sì, tutto
precisino, ma alla fine ha anche un bel senso dell’umorismo, basta far leva su
quello. E poi dai, è un ottimo regista, tutto quello che dice ha un senso… e non
sta facendo favoritismi. Siete voi che lo prendete nel verso sbagliato solo
perché vi riprende in continuazione”.
“Ci riprende perché non abbiamo i due grossi argomenti che tu hai a tuo favore – disse Carlo – ma su una cosa posso concordare: è un maledetto rompicoglioni. Mi immagino sua moglie e i suoi figli”.
“Fra l’altro ho saputo che il maschio minore è scappato di casa e lo evita come la peste, piuttosto che stare in sua presenza…”
Si allontanò: quello che aveva sentito gli era bastato.
Sentiva nel petto un peso insopportabile.
Rompicoglioni.
Non era la prima volta che qualcuno lo definiva così, ovvio. Erano chiacchiere da camerino, non erano i reali pensieri che avevano, solo maldicenze e pettegolezzi, ovvio.
Il maschio lo evita come la peste… un rompicoglioni… fai le cose che i pensionati fanno… ha l’età di mio nonno… vecchio.
Sentiva le lacrime pungergli gli occhi, ma impedì loro di uscire. Non poteva piangere per certe sciocchezze. Era solo stanco, sì.
Vecchio e stanco.
Uscì dal teatro a testa bassa, come fosse un discolo di ritorno a casa dopo la sgridata del maestro: tutto l’entusiasmo per le prove – andate benissimo, a suo parere – era evaporato come una polla d’acqua sotto il solleone, lasciando l’alone del rimpianto.
Sono davvero così stanco.
Si ripeteva, sentendo l’ansia che da varie notti lo teneva sveglio – quella dell’essere oramai inutile, un pezzo da museo – impossessarsi di lui. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, avere conforto, ma non osava: in famiglia non poteva certo dire nulla, tanto chi l’avrebbe ascoltato? I suoi due figli? Sua moglie, presa più da parrucchiere ed estetiste che dalla casa? La piccolina? Berenike, nonostante le tante somiglianze, era molto più paziente di lui, molto più comprensiva. Quegli strani occhi grigi – ereditati da chissà quale avo – avevano sempre un’aria riposata e tranquilla che invogliava al dialogo. Quando non erano incatenati alle pagine di un libro o nascosti dietro la folta frangia.
I suoi amici? Poteva contare su un paio di ex colleghi, ma temeva il loro giudizio.
Andare da uno psicologo nemmeno era fra le opzioni: non avrebbe mai pagato qualcuno per annoiarsi con le sue chiacchiere da vecchio depresso.
Vecchio depresso.
Parlarne con Marina e Stella, le sue nipotine, era stato un sollievo – ma avrebbe davvero gradito qualcosa di più di qualche gorgoglio e di sorrisi sdentati, come risposta.
Vorrei non essere io. Vorrei non essere me stesso. Vorrei non essere qui.
Ritrovò il sasso che aveva calciato all’andata, con ben altra disposizione d’animo. Lo colpì, ancora, più per noia che per reale volontà. Lasciò che la malinconia lo invadesse, trascinandolo sempre più giù, portandolo sempre più lontano, come il sasso che prendeva a calci. Sempre dritto. Piccole alterazioni e impercettibili curve, sì, ma trovava sempre poi il suo piede. Un metro più avanti. Quattro. Due. L’ultimo tirò lo spedì un po’ più lontano. Stava svogliatamente per colpirlo di nuovo, quando si fermò. Il sasso non c’era.
Guardò a destra e a sinistra, convinto di averlo spedito
fuori rotta. Nessuna traccia.
E sì che non era per niente piccolo. Forse era finito sul bordo della strada,
nascosto da qualche erbaccia… Proprio per la concentrazione con cui scrutava
alla ricerca del suo amico pietroso, non si accorse immediatamente del disegno
fatto col gesso che stava davanti ai suoi piedi. Una finestra, disegnata
sommariamente col bianco, quattro assi e una tenda vaporosa sul lato a lasciar
intendere fosse aperta. Gli ricordò un racconto che aveva letto tanti anni
prima, in un libro strano e complicato che non aveva più ripreso in mano… un
racconto nel quale, grazie a una finestra disegnata, gli uomini potevano
letteralmente saltare dentro un’altra realtà.
Sarebbe un sogno, pensò con ardore.
… perché no? Si guardò in giro con circospezione: non voleva ci fossero
testimoni a poter confermare il suo essere uscito di testa… un uomo della sua
stazza che salta su quello che era, evidentemente, il balocco di qualche
bambino! Prese un respiro, smise di pensare, chiuse gli occhi e saltò.
Il suo cervello si aspettava il subitaneo effetto della
gravità, la sensazione del terreno sotto i piedi, magari un cedimento dell’anca
malconcia e il conseguente ruzzolone.
In effetti il ruzzolone ci fu. Ma l’impatto fu più morbido del previsto: una
fresca erbetta ricopriva il terreno.
Son finito nell’aiola pubblica, si disse, sollevandosi a fatica e spolverando le ginocchia dal terriccio.
Non fu, però, una vera sorpresa lo scoprire che così non era stato. Una parte di lui aveva già colto il canto degli uccelli, lo scrosciare di acqua e il profumo pulito dell’aria. La collina scendeva dolcemente e nessun elemento antropico disturbava l’ondulato panorama davanti a lui. Ma non se ne preoccupò.
Geniale. Ho battuto la testa. Speriamo almeno che qualcuno mi raccolga prima che passi una macchina e mi investa. O che qualcuno mi derubi mentre son riverso sul marciapiede. E prego il Signore che non mi prendano per un trans, si ritrovò a riflettere, mentre un sorriso gli tendeva la bocca e lo sguardo si riempiva della bellezza che aveva davanti. Era una scena semplice, eppure lo commuoveva.
Forse sono morto e questo è il Paradiso. Allora vale davvero la pena di morire…
Avvertì per qualche secondo un senso di malinconia e il viso di sua figlia gli apparve nitido davanti agli occhi: scarmigliata e urlante, bagnata di lacrime, due grosse righe nere verticali dalle ciglia colavano fino al mento appuntito. Ma la pace che permeava il luogo era troppa, troppo gioioso il richiamo della luce che giocava con mille riflessi sul laghetto poco lontano. Dalla stessa direzione sentì provenire un muggito: incuriosito, si mosse a passo svelto.
Se questo è morire è senz’altro meglio di quello che stavo passando prima. Questa sì che è vita.
Dopo qualche metro decise di togliersi i vecchi scarponi e le calze, camminando scalzo sull’erba; immergere, poi, i piedi nell’acqua lo deliziò in tale misura da spingerlo a considerare l’idea di spogliarsi interamente e fare un bagno; si accontentò, per il momento, di immergere le mani e sfregarsi vigorosamente il viso. Il rimmel sciolto gli entrò negli occhi, facendolo imprecare per il bruciore. Intanto, i muggiti si facevano più vicini e a loro si era unito qualche lieve belato.
La prima mucca a girare l’angolo lo fissò per qualche istante, dondolando la grossa testa scura; poi, dimentica di lui, si concentrò sull’acqua, bevendo tanto che Guglielmo temette potesse scoppiare. Fu velocemente seguita da altre che si accalcarono lungo l’argine del fiumicello che scorrevo fuori dal laghetto, dando l’impressione di vecchie signore in fila per uno spettacolo. Bianche capre arrivarono ad ingrossare le fila.
Per ultimi giunsero tre giovani, due ragazze e un ragazzo. Questo strabuzzò gli occhi, sorpreso. Un piccolo grido strozzato gli sfuggì dalla bocca, prima che potesse tapparla premendovi sopra entrambe le mani, ma così facendo lasciò cadere il cesto che portava, spargendo fragole e altri piccoli frutti sull’erba, che le capre furono veloci a trangugiare. Quella che sembrava la più giovane lo raccolse e si affrettò a scacciare le bestie, senza però distogliere gli occhi da lui.
“Ciao” tentò Guglielmo, gioviale.
La piccola si riparò dietro quella che doveva essere la sorella, vista la
somiglianza. Dovevano essere tutti e tre parenti, a dire il vero: i capelli
castani e ondulati, la corporatura robusta ne erano al prova.
Quella si fece coraggio e rispose al saluto, con voce bassa e cortese.
“Chi siete?” proseguì Guglielmo, avvicinandosi lentamente, sollevato dal fatto che i tre faccini sembravano più incuriositi che spaventati.
La domanda sembrò sorprenderli, tanto che la piccola ridacchiò.
“Siamo umani!” rispose poi il maschietto, gonfiandosi il petto, come se stesse recitando bene la poesiola in classe.
“Forse viene da fuori, da oltre il mare – suggerì allora la più grande, lanciando un’occhiata ammonitrice al maschio – in quel caso, sii cortese, straniero, e seguici al nostro villaggio: sono molti anni che nessuno viene dal mare! Tutti vorranno sentire le tue storie!”.
Ancora stupito per la risposta ottenuta ad una domanda così semplice – forse in Paradiso Angeli e Umani coesistevano? E si viveva in un villaggio, non sulle nuvole? – decise di accantonare i propri dubbi e di seguire i piccoli: avvertiva che nessun pericolo poteva giungere a lui in quel luogo.