Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Lauretta Koizumi Reid    14/03/2014    5 recensioni
Giocano nel Prato. La bimba con i capelli scuri e gli occhi azzurri sta ballando. Il maschietto con i riccioli biondi e gli occhi grigi si sforza di starle dietro sulle gambe paffute che muovono i primi passi. Sono adorabili. Sono innocenti e divertenti. Ma non sono miei.
La loro mamma, una donna alta e paffuta, arriva prontamente e li prende per mano, lei a destra, lui a sinistra. E per la prima volta, da anni, vedo un’immagine che ho sempre oscurato e soffocato.
Ma ora lo so: voglio essere io quella donna.
Il viaggio di Katniss alla scoperta dell’avventura che ha sempre negato: la maternità.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Altra premessa! Alcuni di voi hanno scritto, oppure penseranno, che nome darà Lauretta Koizumi alla figlia di Katniss? Ebbene, ho deciso che una cosa così importante non posso scriverla, e quindi... niente nome! Userò stratagemmi vari per nascondere codesta mancanza... mi dispiace gente, ma sento che se dessi il nome alla bambina sarebbe un “Abuso nei confronti di Suzanne Collins!” Sono matta? Forse, già. Mmh. Embè. Amen! Buona lettura!

 

 

 

- Questo è l’ultimo, Katniss! Poi abbiamo finito.

- Oh, grazie al cielo!

- Ho fatto molto male?

- No, ma sono scomoda messa così!...

- Capisco. Lasciami fare e vedrai che ora ti facciamo alzare.

Mentre l’ultimo punto - non voglio nemmeno sapere dove - mi viene dato con una stretta fastidiosa, allungo la mano per togliermi i capelli sudaticci e appiccicati dalla fronte. La mano è sporca di sangue e qualcos’altro, perché ho preso la bimba a mani nude.

“Pazzesco. Ho appena partorito.”

Non avrei mai creduto possibile una cosa del genere. Se me l’avessero detto anche solo un anno fa, avrei riso senza sosta. Ora è cambiato tutto. Allungo la testa per vedermi la pancia, ma si è sgonfiata quasi tutta. Se ne è andata via così, in un attimo. Nemmeno il tempo di salutarla, penso con una risatina. Non voglio toccarla per sentire che consistenza ha. Sarà molle, presumo.

- Ok, ci siamo! Possiamo andare su!

- Su dove? - chiedo, mentre un’ infermiera mi aiuta ad alzarmi dal lettino.

-Su, nella stanza delle signore ricoverate, Katniss. E’ uno stanzone di cinque  letti - mi sussurra all’orecchio l’infermiera, che mi prende a braccetto mentre camminiamo - francamente non è il massimo. Ma nessuno si aspettava che proprio la Ghiandaia Imitatrice partorisse in patria. Pensavamo che...

Certo. Pensavano che essendo ormai benestante forse mi sarebbe convenuto partorire in qualche distretto più attrezzato. Tipo il 5, il 3, o l’1. Con i trasporti di adesso non è difficile, se si fa in tempo, peccato che io stavo per avere la bambina sul divano di casa. Quando ero piccola, l’ospedale del Distretto 12 ti accoglieva solo se eri veramente in punto di morte, altrimenti mia madre non avrebbe avuto alcun impiego come guaritrice. E non era detto che comunque non le arrivasse davvero gente in punto di morte, visto che l’ospedale non offre cure gratuite. Immagino che le donne partorissero tutte a casa o da qualche anziana levatrice, ma di certo qui non c’era nemmeno uno sgabuzzino riservato alle madri. Madri. Aiuto, solo la parola mi dà le farfalle nello stomaco. Ora sono una madre anche io.

La stanza è veramente grande, e molte signore già dormono. Hanno più o meno tutte i miei anni, forse un paio più piccole e una ragazza che potrebbe essere mia figlia. Due letti a destra, tre a sinistra, un paio di finestroni di fronte, un solo bagno in mezzo alla stanza, e un’altra finestra sulla parete destra. Un attimo, quella non è una finestra. E’ un vetro. E al di là del vetro, una stanzetta semibuia. Credo di sapere cosa c’è al di là. Sbircio a guardare e cinque cullette con cinque piccoli esserini ricambiano il mio sguardo. No, non sono cinque. In una culla col fiocco rosa, ne manca una. La mia. Qualcuno si schiarisce la voce dietro di me.

- L’ho tenuta anche troppo, prendi. - Peeta tiene con una sola mano una piccina vestita di giallo, l’unico body che le abbiamo comprato, perché odiavo il color rosa e questa era decisamente il più grazioso. Si è ricordato di prenderlo da casa, che uomo eccezionale.

Non so come prenderla senza farle del male, e ho paura di farla cadere. Ma Peeta me la passa così velocemente addosso che è istintivo per me chiudere le braccia attorno a questo corpicino che peserà quanto un asciugamano bagnato. Mi stupisco di me stessa quando senza esitazioni la tengo saldamente. E’ assolutamente perfetta. Credo che non smetterò di guardarla per ore. Ha la carnagione rosea e morbida, le guance piene, le manine strette a pugno, gli occhi chiusi e la bocca arricciata. I capelli sono scuri e lisci come i miei, le ricoprono tutta la testina, e hanno la consistenza di piume.

- E’ stupenda - mormoro a Peeta.

- Già. Abbiamo fatto un ottimo lavoro.

- Hai avvertito qualcuno? - dico, mentre sistemo la piccola sulla spalla e appoggio il mio naso sul suo piccolo collo.

- Solo Haymitch. Si congratula con noi e dice che ci verrà a trovare domani mattina, visto che ora le visite non sono accettate. Ma non gliela faccio tenere in braccio nemmeno due secondi. - conclude con un’ espressione serissima che mi strappa una risata immediata.

Dopo di che, la bocca arricciata della bambina si spalanca e inizia a gridare, quasi sfondandomi un timpano. E’ un grido bello potente, che sveglia immediatamente la mia vicina di letto. E ora che faccio? Cosa vuole? Forse ha fame. Ma non so come si fa, non me l’ha detto nessuno. Come al solito devo seguire l’istinto. Mi siedo sul letto a gambe incrociate. Peeta mi aiuta a togliermi questa camicetta ospedaliera ormai sporca, e resto a seno nudo. Ma non ho ne’ freddo ne’ vergogna, vorrei solo che la smettesse di piangere.

Evidentemente lei ha capito già tutto, perché non appena il suo nasino invisibile sfiora il capezzolo, scuote la testa inviperita da una parte all’altra e lo afferra, succhiandolo a più non posso.

Peeta è incantato. Io stringo gli occhi e serro la bocca dal dolore. Ahia.

 - Che brava tua figlia - sussurra una voce roca. E’ la mia vicina di letto, quella che sì e no dimostra vent’anni. - il mio lo scambia ancora per un gelato. Lo lecca e ci gioca. Ma tanto so che per ora non mangiano, vogliono solo riconoscere l’odore della mamma. Poi dicono che il latte arriva dopo. Tanto il mio evidentemente ha mangiato abbastanza nella pancia, visto che comunque fa un bel po’ di cacca ed è nato solo stamattina.

Sorrido a questa ragazza, mentre si volta dall’altra parte e ritenta di dormire. L’incoscienza e la semplicità della giovinezza.

La bambina succhia ancora senza sosta, mi dispiace che si impegni così tanto per non avere nulla. Ma almeno ora è tranquilla. Con la manina così piccola tiene una salda presa sul mio dito, e mi stupisco ancora di quanto sia calda e morbida. Seppure la stanza sia abbastanza illuminata, cerca di aprire gli occhi. E li tiene aperti senza difficoltà. Tento di capire di che colore sono. Verde scuro, sembra. Ma da chi li ha presi?

- Dicono che all’inizio siano tutti così - dice Peeta, mentre mi appoggia un lenzuolo sulle spalle - il colore definitivo arriva in qualche settimana, se non in qualche mese. Me l’ha detto l’infermiera.

- Quindi è una sfida? Azzurro e grigio?

- Si, va bene - annuisce ridendo - io tifo per l’azzurro. Somiglia già a te per i capelli, dammi qualcosa di mio.

- No. Perché se avesse gli occhi come i tuoi, da grande dovrei tenerla in prigione per tutti i maschietti che le verranno a fare la corte.

- Credimi, allora anche gli occhi grigi della madre sarebbero pericolosi. Parola di Mellark. - e so che dire all’improvviso il suo cognome scatena qualcosa. Quanto avrebbe voluto che ci fossero anche suo padre e i suoi fratelli, qui. Me li immagino, in un angolo della stanza, che lo prendono in giro, col padre di Peeta che tiene senza paura la bambina in braccio, e quando è più grande la porta al Prato, ci gioca, la fa volare in aria e la riprende. Il buon vecchio Mellark. 

Fermo l’immagine di mio padre, mia madre, di Prim, Gale, Mags, Finnick, Boggs, prima che mi soffochi. Tutte queste persone, che immagino venire a trovare me e la mia famiglia felice, devono fermarsi alla porta. Non possono entrare, non ora. Il loro pensiero è una fitta al petto peggiore di quella che mi provoca la piccola attaccata al seno. So che verrà il momento di piangerli, per chi non c’è più e non può vedere questo miracolo, o di affrontarli, per chi c’è ancora. Ora però sono troppo felice per lasciare che il dolore mio o di Peeta prenda il sopravvento. Devo fare come questa giovane ragazza vicino a me, che ha i capelli colorati di moltissime sfumature diverse e la schiena piena di tagli, escoriazioni, cicatrici, persino tatuaggi. Quello che c’è ora, c’è ora. Il resto aspetta.

Mi addormento, mentre Peeta stacca la bambina e la porta di là. Lei non piange e non protesta. Prima di sprofondare nell’oblio, catturo l’immagine di Peeta con questo fagotto in braccio, mentre le appoggia le labbra sulla fronte e chiudono per un attimo gli occhi entrambi, padre e figlia.

 

 

- Katniss? Katniss? Sveglia.

Biascico qualcosa. Una dottoressa mi sta scuotendo e un’altra cerca di svegliare la giovane accanto a me.

- Che succede?

- Ci dispiace, ma abbiamo avuto diverse emergenze stanotte. Ci sono due donne che hanno assolutamente bisogno di un letto, e voi due siete le uniche abbastanza in forma da lasciare l’ospedale senza rischi.  State bene e i vostri figli non potrebbero stare meglio. Acconsenti?

Ovviamente. Che bello, subito a casa e via dall’ospedale. Anche la mia vicina, che scopro chiamarsi Maya, firma e si alza.

-Andiamo a casa, fine della pacchia. Contenta, ghiandaia?

C’è qualcosa di lei che mi ricorda Johanna Mason. Per questo mi piace.

- Sì, contenta.

In fretta e furia è pronta. Vestita, valigia in mano e bimbo nell’altra. Un bimbo piccolino e biondino, addormentato come un salame.

- Spero che il ragazzo del pane apra anche oggi la panetteria, visto che sono le cinque del mattino, ho fame e ho bisogno di dolci per fare bene questo latte.

- Riferirò - rispondo.

- Ci vediamo in giro, Katniss - dice abbracciandomi. Sento la fragilità e la magrezza fisica di Maya, contrastante con tutta la forza apparente che ha.

Che ogni neo-mamma cerca di dimostrare, compresa me. Spero davvero di rivederla.

 

 

- Casa dolce casa - esordisce Peeta aprendo la porta.

- Muoviti - dico, perché la bambina urla e piange, e ho come la sensazione che stavolta voglia essere cambiata. Ha il pannolino gonfio e ha dato manate sul seno quando gliel’ho offerto.

- Dai qua - e si dirige in bagno, dove abbiamo montato un pannello di legno apposta per lei.

Mi insegna a lavarla, ed è enormemente facile, anche perché l’acqua calda sembra piacerle parecchio e sta ferma. Molto meno stare svestita al freddo, poverina. Cambiarle il pannolino è come impacchettare un regalo. Ridiamo alla semplicità di tutto questo.

Peeta scappa a fare il pane per la giornata, e io mi chiedo davvero come farà a reggere la mattinata, dato che la piccola è nata alle 21.50, ci siamo addormentati verso mezzanotte e abbiamo dormicchiato solo fino alle cinque. Io, almeno. Per cui non ho sonno, e resto sveglia sul letto a osservarla nella culla di legno di pino che ci ha regalato Johanna, fatta con le sue mani. Anche lei è sveglia. Ci scrutiamo, lei si guarda intorno curiosa e tranquilla, muove la mani, se le mette sulla faccia, muove la testa da una sponda all’altra del lettino. Chissà a cosa pensa. Chissà cosa vede per davvero. E’ enormemente interessante, non ho mai avuto occasione di vedere neonati che non piangessero o dormissero, ma che stessero così tranquilli. So che non sarà molto educativo per gli anni a venire, ma non resisto alla tentazione di prendermela tra le braccia ancora una volta.

 

 

Il pomeriggio dopo, bussano alla porta.

- Alla buon’ora, Haymitch! Avevi detto mattino e arrivi adesso a vederla! - esordisce Peeta.

- Ragazzo, ho dovuto andare a prendere ed accompagnare qualcuno. Altrimenti non facevo così tardi, no?

Il senso di quelle parole non mi arriva fino a che non appoggio per bene la piccola nella culla. Sollevo lo sguardo, ma sono impreparata a vedere chi mi sta davanti. Annie e il figlio. Mia madre. Haymitch.

- Wow - è l’unica parola che riesco a tirare fuori.

Annie l’ho vista l’ultima volta al quinto mese. Amo la sua compagnia e quella del ragazzone quasi sedicenne che le sta vicino. Mia madre, invece, non la vedo dall’inizio di tutto questo.  

- Ciao Katniss, - mi dice, baciandomi sulla testa. La abbraccio cercando di dimenticare quanta distanza il destino ha voluto mettere tra noi. Stavamo quasi per tornare a essere una mamma e una figlia normali, dopo la prima edizione degli Hunger Games, ma la guerra ci ha tolto ancora questa possibilità. E Prim.

- Non hai affatto l’aspetto di una nonna, sai? - dichiara Peeta, dimostrando sempre di saper dire la cosa giusta al momento giusto.

- Ne’ l’avrò mai, vero? - risponde lei rallegrata.

Prendo in braccio la bambina e gliela mostro, e chiacchieriamo di tutto. Questo piccola bambolotta di tre chili e quattrocento grammi esclude la sofferenza e il nero tra di noi. Annie si unisce al coro, a modo suo. Haymitch e il figlio di Annie continuano a prenderci in giro e a fare gli inopportuni, divertendosi molto. Mangiamo qualcosa e beviamo tutto il pomeriggio. Ci salutiamo, con la promessa di rivederci presto. Quelle promesse che sai che non sarai troppo in grado di mantenere, ma il solo fatto di sancirle ti fa sentire più leggero. E che forse manterrai, perché no.

Haymitch resta sul divano con la bambina sulla spalla, battendole la mano sulla schiena per farle fare il ruttino. Deve essere un esperto, perché lei lo fa quasi subito. Certo, i ruttini di Haymitch erano quasi tutti da alcolici.

- Ci vediamo domani - afferma infine alzandosi. - vedete di insegnare presto allo scricciolo a che ora si dorme.

- Ma dai, non mi dirai che ora la notte dormi! - rido io.

- Comincio a prendere le abitudini che si cofano alla mia età, dolcezza.

Solleva il pollice in aria e chiude la porta di casa.

Come non detto, quella notte nessuno di noi tre riesce a dormire decentemente. Tra cacca e mangiare, questa volta è una bella sfida. Ma sono contenta comunque. Sono abituata alle notti in bianco, al non dormire, e anche Peeta. Giochiamo con lei, le tiriamo i calzini, affondiamo il naso nel pancino che sa di borotalco.

- Nessuno ti farà mai del male - mi scopro a dire.

- Nessuno ci farà mai del male - risponde Peeta.

Se Peeta voleva vivere per sempre il momento in cui eravamo in terrazza a giocare disperatamente prima di andare incontro a morte sicura, durante l’Edizione della Memoria, io vorrei vivere questo momento per sempre. Prima che arrivino le difficoltà, i casini, i problemi di cui ho paura. Ma ricordo le parole che mi disse Boggs, e che ancora mi consolano tante volte: ...tu non morirai. Mi aspetto che tu abbia una vita lunga e felice, soldato Everdeen.

Perché? Gli chiesi.

Perché te lo meriti. 

  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Lauretta Koizumi Reid