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Autore: Ely79    14/03/2014    1 recensioni
Basta davvero poco per scatenare l'istinto di un licantropo: un rumore, un atteggiamento, una distrazione. Selene, da poco consapevole della doppia vita del suo compagno, lo capirà a sue spese.
Antefatto di "Due lune" e "Midnight cheesecake"
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Beauty of the Beast - La Bellezza della Bestia'
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Un bruciore improvviso. Dolore. Luce che fa lacrimare gli occhi. Ho freddo ma l’aria intorno a me è calda, un po’ stagnante. Sa di disinfettante. Un brivido violento mi scuote da capo a piedi, avanzo di una paura mai provata prima. I polmoni esplodono di colpo in un grido, non riesco a trattenerli. Cerco di mettermi seduta ma la testa mi gira. Sento il vuoto alla mia destra, ho l’impressione di cadere. Rumori metallici.
«Calma, calma» mormora una voce.
L’ombra a cui appartiene si allunga, schermando il chiarore di una lampada e sospingendomi delicatamente contro qualcosa di duro e scomodo. Strizzo gli occhi, confusa e sofferente. Occorre qualche istante prima che il volto di un uomo sulla settantina acquisti lineamenti più precisi. Mi sembra di averlo già visto, non ricordo dove.
Sistema un telo blu, rimboccandomelo sotto al mento. Non capisco dove sono. Eccetto la sua voce che rimbomba frusciando nella testa, non sento nulla.
«Ben svegliata» saluta lui con un sorriso cordiale anche se sbrigativo. «Remigio Setti, medico di base e soccorritore all’occorrenza. Sei nel mio ambulatorio, vicino casa vostra. Via del Molinetto, hai presente? Speravo d’incontrarti in un’occasione diversa, ma sono comunque felice di fare la tua conoscenza».
«M-mo… molto p-pia… cere» rispondo a stento.
La gola brucia in maniera insopportabile e le sillabe sembrano restarmi appese alle labbra screpolate. Stupidamente penso che vorrei il burro cacao e l’acqua che ho sul comodino. Peccato che il comodino sia altrove.
«Ora, se volessi stare ferma come se dormissi, potrei finire in poco tempo. Ci siamo quasi».
«D-dove… dove sono?» chiedo, rendendomi conto solo dopo aver posto la domanda che mi è già stato detto.
Sono veramente a pezzi, un totale disastro. Faccio per scusarmi ma proprio in quell’istante gli occhi cadono sulla mia mano destra.
Una serie di tagli incide la carne, componendo un arco che dalla base delle dita, tra indice e anulare, attraversa il polso fino a raggiungere il lato esterno del braccio. Gran parte è stata ricucita. La pelle sembra avere un colore orribile, molto più pallido del normale, ma potrei sbagliare. Ho i capogiri. Lascio cadere indietro la testa, il materassino del lettino si guarda bene dall’accoglierla.
«Stai tranquilla, è meno peggio di quel che sembra» mi rassicura il dottore. «Dev’essersi riavuto appena in tempo per evitare di rompere qualche osso o tranciarla in due».
Lo guardo perplessa chinarsi a riesaminare le ferite. Non porta occhiali da vista, è strano per la sua età.
«Avevi allungato il braccio in avanti, teso, più o meno così. Tenevi il palmo verso il pavimento, leggermente inclinato verso l’alto» dice mimando il gesto.
Per un attimo rivedo solo quel dettaglio della scena. La manica del pigiama scivolata indietro, la mano sollevata, le dita aperte. Il debole luccichio dei due anelli che porto sul medio.
Mi ritrovo di nuovo nello studio. Alle spalle dell’uomo c’è un armadio con le ante vetrate zeppo di medicinali.
«Cercavi di calmarlo o fermarlo» prosegue. «Lui ha spalancato le fauci e ha quasi inghiottito carpo, metacarpo e la porzione distale dell’ulna. Però quando ha chiuso le mascelle qualcosa l’ha distratto, forse il tuo odore, e ti ha riconosciuta».
Non ha detto “lupo”, né altre parole che possano identificare un licantropo. Allora non sa. E come potrebbe?  La loro esistenza è relegata nel mito e nei film horror. Helios dev’essersi tolto la pelliccia per portarmi qui. Prima il dottore ha detto di essere felice d’incontrarmi nonostante la circostanza. Forse lui e Helios si conoscono per altri motivi. Faccende più normali, banali, ovvie. Mediche. Umane. O magari c’è dell’altro.
Un dubbio. Rabbrividisco e il mio aspetto penoso aiuta a farlo passare per un malessere.
«Io… io non… so di cosa…» balbetto, non sapendo cosa dire di preciso.
Un timore improvviso e gelido è dilagato rapido come un allarme. Quest’uomo potrebbe non essere chi dice, potrebbe cercare di trarmi in inganno o peggio, per sapere dei Faleri. Solo ora mi rendo conto di cosa significhi difendere il segreto cui sono vincolata, di quanto sia complicato interpretare le parole altrui e non farsi sfuggire risposte che potrebbero rivelarsi pericolose.
Lui sorride di nuovo, passando un batuffolo imbevuto di disinfettante. Brucia da pazzi e arriva a irritarmi gli occhi, ma mi è impossibile smettere di guardare le ferite.
«Su, su. Selene, giusto? Non devi preoccuparti. Conosco Helios meglio di quanto tu possa immaginare».
Come faccio a fidarmi? Se si trattasse di un Venatores? Un cacciatore di licantropi? Diana ha detto che ne sono rimasti pochi e solitamente non infastidiscono i clan urbani, salvo in casi documentati di aggressioni agli umani o aspre rivalità territoriali. E questo non è il caso. Possibile si tratti di un avventuriero solitario? Uno della vecchia guardia, che magari ha del risentimento verso la famiglia Faleri? Come faccio a credergli? Anche se ha un’età potrebbe benissimo avere degli assistenti pronti a fare il lavoro sporco per lui.
«So che è stato Helios a morderti. C’è troppo spazio fra la lacerazione prodotta dal canino sul margine esterno dell’avambraccio e il taglio successivo, questo vuol dire che manca il primo premolare superiore sinistro. L’ha perso una trentina d’anni fa durante una caccia rituale, difficile non riconoscere l’impronta dentaria. Mi ricordo ancora quando gli ho tolto quel che restava del dente… che macello» ridacchia.
«Lei… lei s-sa?» azzardo.
«Se non fosse così non ti avrebbe portata da me, ti pare?»
Ha ragione, suppongo. Se fosse una minaccia, l’intero nucleo familiare sarebbe già intervenuto per allontanarlo dalla città. Però la testa mi dice di non credergli ciecamente, di non ascoltarlo. Nei libri che ha scritto, Helios ha raccontato degli stratagemmi dei Venatores per arrivare a catturare un licantropo. Li conosco a memoria.
E se invece Helios mi avesse portata da chi può dividerci solo per proteggermi? Che abbia paura di poterlo rifare senza istigazione, solo perché ora mi ritiene… una preda?
La sola idea mi gela il sangue e allo stesso tempo fa schizzare il battito del cuore a mille.
«È qui?» chiedo, rosa dal dubbio.
«In sala d’attesa. Spero mi perdonerete, ma tengo all’igiene del mio ambulatorio. Un conto è avere un lupo mannaro all’ingresso, dove posso pulire e sterilizzare un’area circoscritta, un’altra è rischiare che porti sporcizia e agenti patogeni qui dentro» si giustifica.
Sembra infastidito. A un Venatores non importerebbe più di tanto, punterebbe al risultato, alla cattura. Ho il sospetto che abbia avuto delle grane con la ASL. Lo capisco: nel bar dove lavoro viviamo con l’incubo dei controlli sanitari. Marta mi fa pulire tutto almeno cento volte al giorno con prodotti che siano marchiati come presidi sanitari, nonostante provveda già lei a fare altrettanto. Ma non è il momento di pensarci.
«Cos’è successo di preciso?» chiede controllando i punti sul palmo prima di ricominciare la sutura sul dorso.
Taccio.
«L’hai guardato?»
Silenzio. Lunghi attimi durante i quali l’ago entra ed esce dalla mia carne. Fa meno male di quanto immaginassi. E sì che al Pronto Soccorso abbiamo sentito urlare Giuliano come se lo stessero torturando, il giorno in cui si era tagliato pulendo l’affettatrice del bar. Il virus mi ha scombussolata per bene. Magari gli effetti dell’adrenalina non si sono ancora esauriti. Sarà colpa del camice, o del fatto che sono troppo stanca per sviare.
Sospiro un assenso.
Setti termina di cucire l’ultima ferita.
«Negli occhi?» s’informa.
Aspetto. Tergiverso. Dio mio, quanto mi sento stupida. È l’unica risposta che vorrei, dovrei evitare.
«Sì» ammetto.
Annuisce appena, curvo sul mio braccio con la lampada che sembra spuntargli dalla schiena. Dopo un ultimo controllo siede composto sullo sgabello, sorridendo. Ha meno rughe di quanto mi era parso al principio. Ho il sospetto che la sua immagine non rispecchi l’età anagrafica. E ha gli occhi grigi, liquidi, brillanti nella penombra come quelli di Helios. Nessun Venatores li può avere così. Un briciolo di fiducia si riaffaccia.
«Racconta».
C’è poco da raccontare. Sapevo che Helios era fuori, al raduno del clan per il Primo Quarto di Luna. Ero in camera nostra, intontita da uno di quegli stramaledetti virus che circolano verso la fine di novembre. Da giorni ero stanca e febbricitante, continuamente in cerca di un po’ d’acqua. Avevo vuotato la bottiglietta sul comodino e anziché riempirla al rubinetto del bagno, chissà perché avevo deciso di scendere in cucina a mio rischio e pericolo.
La casa era buia e silenziosa. Vuota. La vetrata sul giardino un miscuglio di inchiostri cupi che mi fissavano severi.
Lo scroscio nel lavandino era ingigantito dalla quiete, sembrava avessimo le cascate dell’Iguazù in cucina. Riecheggiava in testa e vibrava tracimando dalla plastica. Avevo bevuto un paio di sorsi prima di tornare sui miei passi, sebbene fossi sfinita. Avrei voluto dormire accanto al frigo.
Tornando avevo sentito le piastrelle freddissime, gelide, contrastare il tepore della coperta che stringevo sulle spalle. Ero scalza. Dovevo aver lasciato le pantofole ai piedi del letto.
A metà strada tra la cucina e la scala - o almeno credo di essere stata in quel punto - l’ho sentito entrare, anticipato da una folata d’umidità novembrina. Il ticchettio degli artigli sul pavimento era stata la conferma. Mi ero fermata, abbassando la testa come avevo imparato. Helios si muoveva per il soggiorno, nella mia direzione. Il suo respiro era regolare, intervallato da profonde inspirazioni. Soppesava la mia presenza.
Quando l’ho sentito allungarsi con un tonfo sul tappeto, ho ripreso ad allontanarmi. Dovevo farlo lentamente e certo non mi sarei messa a correre con i piedi intorpiditi e la testa sconvolta dal suo arrivo, oltre che dalla disidratazione.
Avevo appena raggiunto la scala quando si è levato un ringhio. Stava cercando di dirmi che qualcosa lo infastidiva. Di nuovo mi sono fermata, in attesa. Helios è salito sul divano, le imbottiture soffiavano aria dalle cuciture compresse dal suo peso. Fiutava con maggiore intensità e il suo latrare si inaspriva un secondo via l’altro. Ha allungato una mano, agganciando la coperta con le dita ibride e artigliate. L’ha strappata via, facendomi girare fino a dare le spalle ai gradini. Cercavo di reggermi in piedi, combattendo le vertigini.
Helios aveva emesso un basso ululato. La sua voce si allontanava, segno che aveva trovato la fonte del disturbo. Ho sbirciato. L’intravedevo all’altro capo del divano, accosciato, nient’altro. Grugniva.
È stato in quel momento che ho sbagliato. Ho alzato gli occhi per capire cosa stesse facendo e l’ho visto, l’ho guardato. Grande, massiccio, così scuro da sembrare nero. Orecchie tese. Le unghie affondate nel fazzoletto che avevo spruzzato d’olio essenziale di pino. Pupille tonde palpitavano azzurrate nel buio mentre, in una frazione di secondo, la mente dietro di loro decideva che avevo passato il segno. Si sono dilatate a dismisura quando con un balzo sono scattate dal divano. Hanno inghiottito il soggiorno, la casa, il mondo, ingigantendo la mia colpa. Poi sono arrivate le zanne a cancellare di nuovo ogni cosa. Lame ricurve hanno incontrato la mia carne, protesa in una stupida supplica. Non so se ho gridato o sono svenuta subito, ma ho avuto paura, una paura folle, questo lo ricordo distintamente.
«C’è gente che non se l’è cavata così a buon mercato, le cronache dei clan sono zeppe di questi incidenti» commenta Setti, armeggiando con garze sterili e altri batuffoli umidi di antisettico.
«Già» replico pensando ai racconti con cui Helios aveva cercato di mettermi in guardia. «Un momento… come fa a saperlo?»
Vorrei mordermi la lingua. Se in qualche modo è collegato ai Faleri e ai lupi mannari in generale, conoscerà di sicuro queste storie. Se poi è il medico cui si rivolgono in casi come questo - ammesso sia davvero chi dice di essere -, a maggior ragione. Perché insisto nel fare domande idiote? Sono questi gli esiti del morso? Mi ha rimbecillita del tutto? Devo sembrargli davvero idiota.
Invece Setti si limita a rispondere:
«Sono un Senza Luna».
Trascorrono secondi o millenni, difficile dirsi, durante i quali mi sembra che tutto acquisti senso.
Il Senza Luna è un membro del clan nato licantropo, che tuttavia non può considerarsi completo, sebbene la famiglia cui appartiene lo riconosca come suo congiunto. Per qualche motivo gli è stato negata l’iniziazione (o vi ha rinunciato da sé) e con essa il Manto Stregato, pertanto non ha potuto assurgere al titolo di Figlio della Grande Madre. Una specie di “figlio di serie B” della Luna. Restano legati alla famiglia d’origine rivestendo incarichi e funzioni che gli altri non potrebbero o vorrebbero assumere. Nessun licantropo ha una laurea in medicina, ora che ci penso.
Quelli come me invece, donne e uomini compagni consapevoli di lupi mannari, sono chiamati Osservanti.
Da dietro la porta arriva un brontolio stanco e il raspare nervoso di unghie sul legno.


Wrirer's Corner
So di essere impegnata con i capitoli di "Legendary Customs" e spero che i lettori non se la prendano a male, ma avevo bisogno di uno stacco per riorganizzare le idee.
D'altra parte, se qualcuno leggendo questa storia avesse bisogno di delucidazioni, non esiti a chiedere!
   
 
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