47 La Belva
Era un oggetto come gli
altri all’interno del vasto magazzino.
Attorno a sé scorgeva
ogni sorta di paccottiglia: era uno di quei posti dove i protagonisti degli
show di History o Discovery Channel sarebbero andati in coma diabetico. Vetrate
di diversi colori e misure, un distributore di caramelle di quelli che metti la
moneta e poi giri la manovella, ovunque graffiata, strani pesci di plastica un
tempo appesi alle pareti, attrezzature di ogni tipo e per ogni gusto. Quando
c’era da spostare qualcosa, all’acquario, per dei piccoli lavori di riparazione
o semplicemente per dare il giro alle scenografie di quel ricettacolo di grazie
di Nettuno, si ricorreva immediatamente al magazzino. Quest’ultimo, a braccia
aperte, accoglieva ogni oggetto sperduto, e se lo sarebbe tenuto così stretto che,
complice l’oblio di impiegati e addetti, spesso all’acquario preferivano
ricomprare la roba, quando serviva, piuttosto che costringere qualche povero
cristo a perdere giornate e giornate per vagare tra i meandri del magazzino in
cerca di una presa tripla o di una cornice di legno.
Asuka si sentiva come
quegli oggetti. Erano stati abbandonati lì per caso o per scelta, ma
funzionavano ancora, avevano ancora uno scopo, un valore. Ma il caso o chi per
lui li avevano fatti finire là, dimenticati. Nessuna luce li avrebbe più
illuminati, nessun bambino avrebbe spesso 10 yen per estrarne una caramella
dura all’esterno e gommosa dentro. Anche lui, con tutta probabilità, non
sarebbe più uscito da quel magazzino. Forse, solamente dopo parecchi anni,
sotto la forma di alcuni irriconoscibili pezzetti d’osso. Magari rosicchiato
dai topi.
Sarebbe morto quella
sera stessa, ne era certo.
Gli omoni lo avevano
sbattuto sul pavimento con molta più violenza di prima: Asuka Daiki si era
rialzato da terra, urlando, come impazzito. Nelle orecchie il rimbombo di quei
due colpi di pistola. Fu in quel momento che uno dei due omazzi lo tramortì al
terreno con una manata che alle fiere di paese comporterebbe la vittoria del
peluche più grosso.
Esposito e Yamaguchi
erano morti – meditava, a terra, tra alcune ruote che potevano essere di
carriole o di monocicli – perché la Belva avrebbe dovuto risparmiare invece
lui?
Ci mise pochissimo a
fare uno più uno e capire l’unico, possibile, motivo: fargli domande,
torchiarlo sul perché suo padre gli stesse dando la caccia assieme agli
italiani. Poi, ovviamente, lo avrebbe ammazzato lì, sul posto. Magari lo
avrebbe finito con una pistolettata in fronte, o lo avrebbe soffocato con un
sacchetto di plastica. L’unica certezza è che entro poco non vi sarebbe stato
più nessun Asuka Daiki Junior.
Esisteva veramente una
vita dopo la morte o era un’invenzione dei preti e delle miko? Non lo sapeva.
Sapeva solo che il panico lo stava avvolgendo. Non lo avevano legato: in quel
momento era libero. Sarebbe stato – forse – anche libero di scappare. Ma tutti
sapevano che non lo avrebbe mai fatto. Ormai era impotente. Impotente come il
suo piede sinistro, che continuava a battere ripetutamente il pavimento con il
tallone. La gamba gli tremava, come in preda agli spasmi. E sì, se lo sentiva,
in pochi minuti se la sarebbe fatta addosso.
Non voleva morire, non
voleva che tutto finisse lì, in quell’istante. Suo padre sarebbe morto con lui:
non aveva altri al mondo a cui voler bene. Dopo la perdita della moglie,
infatti, nessun’altra donna era riuscita ad entrare nel suo cuore. Tutte le sue
storie con raffinate impiegate, imprenditrici, idol stagionate – infatti – si
concludevano dopo poche settimane: Asuka Daiki Junior lo sapeva benissimo.
Nonostante suo padre cercasse di sostituirla di volta in volta con milfone di
mezza età dalle ottime credenziali, nessuna sarebbe stata in grado di prendere
il suo posto. Sua madre era stata la donna della sua vita. Quand’era morta lei,
era scomparso anche quel tipo di amore, che mai si sarebbe ripetuto. L’unica
cosa che rimaneva al signor Tomoki Asuka, era quel figlio al quale aveva
trasmesso tutto, persino ogni dettaglio fisiognomico.
Non doveva spegnersi
lì. Poi, però, il terrore si trasformò nell’angoscia più nera.
«Meimi», disse, «io ti
amo», ma parlava al nulla, baciato dai sottili raggi di luna che entravano
dalle finestre in alto, che guardavano all’altezza della strada.
Non l’avrebbe più
vista. Negli occhi gli sarebbe rimasta solo la meravigliosa immagine di lei
bellissima, con i capelli raccolti e con addosso quel fantastico abito rosa.
Una principessa. E lui era il suo principe. Ma la storia non avrebbe avuto, in
quel caso, un lieto fine.
Si ricordò della
lezione di letteratura del martedì precedente, quando suor Akemi, in vista
dell’ennesimo inutile compito in classe, stava ripassando le peculiarità e i
compiti dell’Olimpo della mitologia classica. Diana – aveva appreso con stupore
– non era solo la dea della caccia e Apollo non era solo il dio del sole.
Secondo gli antichi greci, infatti, quando una ragazza nel fiore della
giovinezza e un ragazzo nel pieno della forza improvvisamente tiravano le
cuoia, stroncati da infarto o da un aneurisma, la colpa non era della sfiga o
della genetica, ma dei due fratelli olimpici, i quali, da perfetti stronzoni
invidiosi e figli di papà, quando beccavano per strada qualcuno più bello di
loro si divertivano a stenderlo con una freccia a tradimento, mandandolo al
creatore senza passare dal via.
Quella che avrebbe
dovuto affrontare da lì a pochi minuti non sarebbe stata morte istantanea, ma
sicuramente un dio l’aveva invidiato. Vestito di tutto punto, pur con lo
smoking con cui avevano seppellito Mino Reitano, aveva passato la serata con
una ragazza splendida, per la quale si era accorto sempre di più di nutrire un
amore sconfinato. In quel frangente, stretto dalla drammaticità di una fine che
ormai percepiva come prossima, non nutriva alcun dubbio: con Meimi sarebbe
potuto essere felice. Non c’era più lo spazio per le masturbazioni mentali
tipiche della sua età, e vide la situazione con una chiarezza disarmante. Fuori
da lì lo avrebbe aspettato solo amore. Dentro quel magazzino seminterrato,
invece, solo la morte.
Era già a terra: si
girò, faccia contro il pavimento, e si ritrovò a colpire le mattonelle di
terracotta con il pugno destro. Dal terrore, passando per l’angoscia, era
infine giunto alla rabbia.
«Porca puttana!».
Avrebbe perso tutto. Non le avrebbe mai detto: “Sai, non sei così brutta come
in classe”, o “Sai che mi sei simpatica” o “Ti amo, voglio passare tutto il
resto della mia vita con te”. Non l’avrebbe mai abbracciata stretta. Né
conosciuto il dolce sapore e il calore infinito che si racchiude nell’intimità
di un bacio, di una carezza, di una notte passata insieme nel bagliore di una
luce che sembra non finire mai semplicemente perché non può finire mai.
Se la Belva fosse
entrata nella stanza e gli avesse messo di fronte un modulo prestampato da
firmare, un documento che gli avrebbe garantito una settimana di libertà per
andare da Meimi, confessarle il suo amore e tutto il resto, a patto di tornare
a distanza di sette giorni per essere barbaramente ucciso, lo avrebbe siglato
all’istante.
E accanto alla figura
di Meimi gli balenò in testa il codino di Saint Tail. Anche per lei
un’attrazione infinita. Ma era amore? Forse non l’avrebbe mai scoperto.
Sarebbe tutto finito
lì.
Figuratevi lo scoppio
di gioia che lo avvolse pochi secondi dopo. Forse non ci credeva, lo ritenne
per un istante addirittura un parto della sua mente traumatizzata. Ma fu
proprio così che andò.
«Ragazzo, sta’
tranquillo. Non morirai». Non se n’era nemmeno accorto. La Belva era entrata
nel magazzino senza fare rumore. Con gli occhi offuscati dalle lacrime, vide
una macchia bianca indistinta, che in pochi secondi si concretizzò in un uomo
di mezza età, capelli argentei e che teneva con le braccia, come se la stesse
accarezzando, una robusta sedia di legno provvista di comodi bracciali.
Asuka scattò in piedi,
come un gattino impaurito. La Belva sembrò non badarci: guardava dritto e
camminava verso il centro della stanza.
«Ragazzo, te lo ripeto.
Non mi serva che tu muoia». La sua voce era glaciale: il che era meraviglioso.
Non c’era nemmeno il più piccolo indizio che stesse mentendo.
«Siediti», disse il
criminale, dopo aver posato la sedia. Erano soli nella stanza. «Siediti». La
Belva ripeté il suo messaggio: non cambiò né timbro di voce né intonazione. Ma
questo bastò ad Asuka a scattare come manco Usain Bolt a Pechino e incollare le
terga sulla sedia di legno come un magnete Pirelli a una lastra di alluminio.
Si trattava di una banale sedia da giardino, di quelle che puoi lasciare fuori
al freddo tutto l’inverno a ricoprirsi di foglie marcite e che in primavera,
con un veloce passaggio di strofinaccio, tornano pronte ad accogliere chiappe
vacanziere. Asuka junior, in condizioni normali, avrebbe fatto esattamente il
contrario di quello che gli ordinava un criminale come lo stragista italiano,
ma aveva visto in quella notte cupa un barlume di speranza, e decise di
aggrapparvisi con ogni energia residua. Del resto, non è che avesse troppe
alternative.
«Aspettami». Continuò
la Belva, voltandosi verso la porta. Il ragazzo non era legato né bloccato in
alcun modo. Nessuno però avrebbe dubitato che il giovane detective se ne
sarebbe stato lì, fermo e impalato, ben lungi dal fare sciocchezze.
Non lo voleva morto. Si
toccò la fronte con la mano destra, accorgendosi, tra lo sporco della polvere e
qualche piccolo livido, di grondare di sudore. Strano: non gli pareva di stare
sudando. Brividi freddi lo avvolgevano, mentre dalla bocca, ritmiche,
espirazioni ed inspirazioni si accavallavano facendogli gelare i denti. Odiava
la Belva Umana? Certamente: era un criminale senza scrupoli, aveva messo in
pericolo un sacco di persone, aveva ucciso e fatto uccidere delle brave
persone, quella serata. Ma in quel momento gli pareva persino bello, un dannato
fascinoso coi capelli scarmigliati che lotta da solo contro il sistema, un
criminale alla Felice Maniero, di cui tutti condannano le azioni ma per il
quale, tutti, fanno segretamente il tifo. Dopo pochi secondi, scuotendo la
testa che sentiva ormai arroventata, maledì in cuor suo la sindrome di
Stoccolma. “Chissenefrega”, ammise a sé stesso. Avrebbe fatto qualunque cosa
per uscirne vivo. Meimi sarebbe stata lì, ad aspettarlo. Anche se ferito
nell’orgoglio, si sarebbe goduto la sua vicinanza. Anzi – i neuroni del suo
cervello erano sicuramente più sfacciati di lui – avrebbe potuto sperare
addirittura che Meimi sarebbe stata travolta da un’acuta sindrome da
crocerossina.
Era lì a fantasticare
degli abbracci e degli sguardi puccettosi che avrebbe riscosso da Meimi quando
il criminale rientrò nel magazzino. Con sé, una piccola valigia. Sembrava una
banale ventiquattrore di pelle, ma il ragazzo si accorse presto che era un po’
troppo squadrata e che il braccio con cui la Belva la teneva era troppo rigido
perché dentro vi fossero solo vestiti e documenti. E, cosa ancor più
preoccupante, a differenza di prima, la Belva si era immediatamente girato
sulla porta che si chiudeva per dare due buoni giri di chiave. La speranza,
però, era troppo forte perché potesse svanire del tutto. Guardò verso il
lucernario del magazzino seminterrato. Entrava un po’ di chiarore della luna.
Quante lune piene aveva visto, dando la caccia a un’ombra profumata…
Il criminale posò la
valigia per terra e la aprì, in direzione di Asuka junior, che non ebbe dunque
modo di osservarne il contenuto. Se ne stava lì, inchiodato ai braccioli, non
muovendosi di un millimetro.
«Adesso ti dico che
facciamo», esordì la Belva, la voce ferma e serena, mentre armeggiava tra il
contenuto della valigetta. «Quello che sto tirando fuori da qui è corda. Solo
corda. Ti legherò alla sedia. Rimarrai lì tra le venti e le trenta ore. Ci
darai giusto il tempo di lasciare il paese. Poi, una telefonata anonima
avvertirà le autorità della tua presenza qui». Non stava mentendo: dal
coperchio della valigetta aperta Asuka intravide con certezza le spire di un
gomitolo di spago. Era lo spago sottile che si usa per stringere i plichi:
leggero ma resistentissimo.
La Belva si alzò. Oltre
allo spago, in mano, aveva una forbice e un rotolo di nastro adesivo da pacchi.
Asuka rimase paralizzato. 30 ore, forse addirittura due giorni, immobilizzato a
una sedia. L’avrebbero trovato stremato, in uno stato a dir poco pietoso,
incrostato di escrementi secchi e puzzolente d’urina, senza più dignità. Ma
vivo, almeno. Il ragazzo comprese. Era già fantastico così. La Belva se la
sarebbe svignata, ma non avrebbe avuto il giovane detective sulla coscienza. E
non sembrava il tipo in grado di uccidere bambini appena usciti – a malapena –
dalla fase della pubertà. Non fece alcuna resistenza dunque quando la Belva,
senza mai fissarlo negli occhi, gli afferrò il polso, lo strinse con forza al
bracciolo e iniziò a girarvi lo spago attorno. Era impotente, ma ormai Asuka
aveva fatto la sua scelta: non avrebbe potuto fare in altro modo. Sapeva che
non si sarebbe mai pentito di quella scelta.
«Che ci facevi lì?».
Ruppe il silenzio la Belva. Dopo tre secondi – interminabili – di silenzio,
Asuka domandò: «Lì dove?».
«Al museo». Precisò la
Belva, col suo solito tono di voce piatto.
«E-e-ero lì per Saint
Tail».
«Saint Tail. Ragazza
particolare, no?».
«Già». Pareva il
lamento di un broker di Wall Street, la sera, in un bar di New York di fronte a
un whiskey di riserva, dopo una dura giornata a speculare sul debito pubblico
italiano. Ma era invece solo un ragazzino che veniva legato a una sedia da un
assassino al cui confronto Ted Bundy[1] era Ned
Flanders.
«Tu dunque, saresti…».
«Quello che le dà la caccia. Mi ha dato mandato il sindaco», continuò,
mordendosi immediatamente la lingua. Stava parlando troppo. Era in piena
sindrome di Stoccolma.
«E perché le dai la
caccia?», continuava la Belva, questa volta afferrandogli un piede e
legandoglielo a una gamba della sedia.
«Perché è giusto
così…», parlò, ancora una volta senza aspettare troppo.
«Ah», sospirò la Belva,
«la giustizia. Quanta gente che parla di giustizia. Esiste la giustizia?», ma
parlava con sé stesso, in ginocchio, mentre ricopriva con lo scotch da pacchi i
giri di spago attorno alla gamba sinistra del ragazzo. E Asuka, forse
fortunatamente, non rispose a quelle domande retoriche.
«La giustizia…»,
continuava la Belva, «… come quella di tuo padre. È il capo della polizia di
qui, giusto?».
Suo padre… Che
c’entrava suo padre? Asuka rimase in silenzio alcuni istanti, nel tentativo di
formulare una risposta, ma la Belva, improvvisamente, mutò atteggiamento, e
ruggì: «Ti ho fatto una domanda». Serafico, ma dagli occhi parevano uscire
scintille.
«Sì», esordì in fretta
Asuka junior, «mio padre è il capo della polizia».
«Ed era lì stasera…»,
non era una domanda. «Sì, certamente», tremò il ragazzo. «Con Auricchio»,
concluse la Belva. Asuka Daiki rimase in silenzio.
Ormai la Belva aveva
finito il suo lavoro. Si voltò, e andò in direzione della porta. Il battito del
cuore di Asuka accelerò all’impazzata. Era l’ultima volta che lo vedeva? E se
avesse mentito? Se lo avesse lasciato lì a morire di fame? Grazie a Dio non gli
aveva coperto la bocca. Al massimo, a forza di urlare, qualcuno si sarebbe
accorto di lui. Ma non era comunque una bella prospettiva.
La Belva fece per
toccare la porta, ma la valigia – si accorse con preoccupazione Asuka – era
ancora lì a terra.
«Sai…», la Belva si
girò di nuovo verso il ragazzo, «di solito non racconto ad estranei quello che
faccio. Ma dato che siamo ormai in sintonia farò un’eccezione con te».
Asuka deglutì.
«Questa era una
faccenda esclusivamente tra italiani, che per una strana serie di coincidenze
si è svolta in trasferta, qui, in Giappone». E si avvicinò verso il giovane
legato.
«Non capisco», continuò
la Belva, «perché tuo padre e la sua polizia si siano intromessi. Ho dovuto
fare quello che ho fatto, lo capisci?». E gli mise, quasi paternamente, una
mano sulla testa. «Vedi… Nel mio lavoro, la reputazione è tutto». Si chinò verso
di lui. I suoi occhi erano a pochi centimetri da quelli di Asuka. Il ragazzo
poteva annusarne l’alito: menta freschissima, glaciale quasi quanto lui.
«Ho dovuto eliminare
quei due, il carabiniere e il vostro poliziotto. Lasciarli in vita sarebbe come
stato gridare al mondo: “Sono un debole”. Nel mio ambiente non si può fare». La
Belva si girò di scatto, quasi ridendo: «Ma che ne puoi sapere tu. Sei solo un
ragazzino». Ma aveva ben stampato negli occhi lo sguardo di disprezzo di Asuka,
che voleva sì sopravvivere ad ogni costo, ma che non poteva nascondere l’odio
che provava per quel senzadio.
«Sei solo un
ragazzino», continuò la Belva, che si mise a girare attorno alla sedia, «mi
sono informato su quella Saint Tail. Se fosse stata una professionista saresti già
morto cento volte. Ma è una ragazzina come te. Inutile. Ragazzo, mi dispiace
dirtelo, ma non vali nulla». Asuka strinse i pugni, ma la Belva era girato per
accorgersene. E comunque, era troppo per lui. «So per certo che te la sei fatta
sfuggire in un’infinita serie di occasioni. Per non parlare di come ti sei
fatto prendere stasera. Il trucco del vecchio ubriaco. Sei un dilettante».
Era la Belva in tutta
la sua scaltrezza. Perfido e distruttore. Sapeva che una delle poche ragioni
per cui Asuka Daiki Junior si svegliava la mattina era quella di diventare, un
giorno, un poliziotto. E ora, lo stava demolendo. Perché, in fondo in fondo,
Asuka, sapeva che aveva ragione. Del resto, quello che si trovava legato lì era
lui, impossibilitato a pensare alla fiducia che molti riponevano nel giovane
detective, sindaco e capo della polizia –
suo padre – compresi, del fatto
che in quel mare di uomini di legge lui era l’unico che aveva capito dove la
Belva si nascondesse e altri piccoli dettagli che non gli sovvenivano.
«Guarda. Segui il mio
consiglio. Pensa a un’altra carriera. Fa’ qualcos’altro. Sta’ sicuro e vivrai
una vita lunga». E si avvicinò di nuovo verso la porta. Asuka combatté
seriamente per non urlargli contro qualcosa. Ma ci teneva alla vita, ci teneva
a stare in salute. Ci teneva a rivedere Meimi. Forse avrebbe seguito davvero il
consiglio della Belva, ma una parte piccolissima dentro di lui gridava a gran
voce che era nato per fare il poliziotto, e sapeva, armato della virtù dei
folli, che non avrebbe mai desistito da quel disegno, seppur difficile e irto
di ostacoli di ogni tipo. Deglutì e guardò in basso. Ora voleva solo che la
Belva se ne andasse per sempre. Aveva vinto lui. Chissà dov’era la contessa, in
quel momento.
«Un’ultima cosa». La
Belva si fermò davanti alla porta. «Ho bisogno che tu rechi un messaggio a tuo
padre, Asuka Tomoki senior». In due passi era di nuovo di fronte ad Asuka.
Il ragazzo alzò gli
occhi, ma non appena alzò il volto avvertì all’altezza delle guance un brusco
spostamento d’aria. Non fece in tempo a girare le pupille verso l’origine di
quel movimento che il destro della Belva lo colpì violentemente sul naso. Sentì
un crack, un dolore secco. Improvvisamente, non riuscì più a respirare. Le
labbra in pochi istanti gli si fecero prima pesanti, poi bagnate, poi delle
gocce gli caddero sui risvolti della giacca blu e tra i bottoni della camicia
bianca.
Non
era sudore.
Gli aveva rotto il
naso. Gli aveva distrutto il fottutissimo naso.
Sputò.
Che diamine era
successo? Non lo sapeva. Sapeva solo che non era finita lì.
«Sai ragazzino»,
riprese impassibile la Belva, «come si distingue un uomo forte da uno che non
lo è?». Non attese una risposta: «L’uomo forte non ha punti deboli. Puoi
cercare quanto vuoi ma non potrai mandarlo mai al tappeto. Tuo padre, invece,
un punto debole ce l’ha. Ce l’ho io qui di fronte».
La Belva si girò, e
andò verso la valigetta. Si inginocchiò, e iniziò, di nuovo, ad armeggiare.
Asuka vide immediatamente: stava indossando un paio di guanti in lattice.
«Che fa?», sibilò, con
la stessa voce ovattata con cui Yamaguchi, poco prima, aveva pronunciato le sue
ultime parole.
«Lascio il mio
messaggio». Gelido come l’era Würm.
«Avevi detto che non mi
avresti ucciso!», urlò, disperato, sputacchiando sangue, il povero Asuka, il
cui cuore quasi smise di battere.
«Non sono un
truffatorino che racconta balle», sbuffò, e aveva ragione, «ma non ho mai
specificato in che modo ti avrei lasciato in vita. Il mio messaggio per tuo
padre sarai tu stesso, ragazzino».
Era fottuto. Asuka capì
che tutto sarebbe stato possibile, da lì a pochi minuti. Chiuse gli occhi,
iniziò a respirare affannosamente. “Devo farcela, devo farcela, devo farcela”.
Un mantra. Sarebbe stata quella la battaglia della vita. L’avrebbe superata.
Non aveva alternative. Anzi: non vedeva l’ora che la Belva iniziasse qualsiasi
cosa avesse in testa, perché tutto potesse finire entro poco, perché potesse
capire se fosse stato in grado di superare quella prova. Era il dubbio che lo
lacerava, in quei minuti. Aveva di fronte qualche altro pugno o gli avrebbe
tagliato gambe e braccia con una motosega?
«Da cosa cominciamo?».
Era in ginocchio. Frugava. Come il ragazzino che sceglie dal suo box quale
giocattolo utilizzare. «Ah sì». Afferrò qualcosa e si alzò in piedi. Asuka
strabuzzò gli occhi. Di che si trattava? Teneva stretto quest’affarino lungo
nella mano destra. Un cacciavite? Una lima? No, i manici erano due, ben
stretti. Era una pinza.
La Belva, in silenzio,
si avvicinò velocemente. Asuka si mosse sulla sedia. Dove lo avrebbe colpito?
Tremava, ansimava, ed, ecco. Se l’era persino fatta addosso. Non fece nemmeno
in tempo ad accorgersi del calore all’altezza dell’inguine sinistra che, di
nuovo, un pugno della Belva sullo zigomo destro gli sbatté il viso sullo
schienale. Il criminale gli afferrò con la mano sinistra il mento. «Fermo». Non
serviva che glielo dicesse. Ormai era alla sua mercé. Il criminale sollevò la
mano destra, con la quale teneva minacciosa quella pinza da ferramenta. Senza
farsi troppe remore, avvicinò in velocità l’attrezzo alla bocca del ragazzo. Si
fece spazio tra le labbra chiuse e colpì gli incisivi. La bocca di Asuka non
era serrata: fu uno scherzo per la Belva divaricarla del tutto.
Asuka non era tipo da
andare a messa tutte le domeniche, in quella cittadina giapponese dal più alto
tasso di cattolicità nell’estremo oriente, ma in quel momento desiderò esserci
andato più spesso. Forse per imparare le storie di quei pazzi che si facevano
fare di tutto senza praticamente sentire nulla in onore di quel falegname
galileo.
Sentiva l’alito del
mostro su di sé. Poi, però, parlò solo il dolore. Non vedeva nulla, se non il
braccio ricoperto da una manica bianca di una giacca di lusso del criminale.
Che stava facendo? Improvvisamente, sentì qualcosa che gli afferrava un dente,
uno dei molari di sinistra dell’arcata superiore. Un dente che non si vede mai,
ma che è responsabile del 90% di ogni buona masticazione. “Non può farlo”,
pensò, “non può essere così crudele”. Ma lo era.
Un crac, una torsione,
la pinza che si ritraeva. Il suo primo pensiero fu che se non era svenuto dal
dolore in quel momento nessun male fisico lo avrebbe fatto svenire in vita sua.
Pareva gli avessero infilato un chiodo nel cervello, martellando a partire dal
palato. Sentiva come dei pezzi di osso impastargli la lingua e la gola. Vide.
Sul guanto la Belva esibiva un orrendo trofeo. Non pensava che la parte interna
dei denti umani fosse così lunga.
Il dolore si fece
sempre più forte. Sapeva che mai e poi mai sarebbe potuto stare di nuovo bene.
Ormai lui stesso era composto di dolore. Il gonfiore lo abbracciava, gli
accarezzava la bocca, gli saliva per la guancia e si innestava profondo sul
cervello. Il dolore lo cullava. Come una mamma.
Sua mamma, che chissà
quanto aveva sofferto. Era con lei, ora. A soffrire, come su quel letto
d’ospedale. Espirò ed inspirò violentemente. La Belva era di fronte a lui, in
piedi, impassibile.
Poi, non sapeva nemmeno
come avvenne, ispirò su con il naso, dal retrogusto di sangue, alzò le guance,
sbadigliò e iniziò a piangere.
Aveva 16 anni, ma non
era quello il punto. Era solo un bambino, ma non era quello il punto.
Semplicemente, non riusciva a capire perché quell’uomo di fronte a lui lo
odiasse così tanto. Non se ne dava pace.
«Passiamo ad altro». La
Belva tornò nella sua valigetta degli orrori.
«NOOO!!!», urlò Asuka.
«Basta, ti prego, basta!». Era un lamento straziante, a cui nessuno, con un
briciolo d’anima, avrebbe potuto dire di no. Ma in quel frangente piangere era
come agitarsi sul pelo dell’acqua, con una ferita aperta e con una maglietta
con scritto “Foca” in un tratto d’oceano infestato dagli squali.
La Belva si rialzò,
ancora. Questa volta Asuka capì immediatamente di che si trattava. Era una chiave
inglese di quelle grosse. E dunque, di quelle particolarmente impietose se
utilizzate per questi scopi. Fu velocissimo. Due passi ed era già lì. Al terzo
passo la testa della chiave inglese incontrava a gran velocità la rotula
sinistra di Asuka Junior. Il ragazzo sobbalzò. Era troppo per lui, davvero.
La testa gli si piegò
in avanti. La gamba gli pulsava tutta. L’aveva colpito in un centimetro
quadrato, ma era come se gli fosse passato sopra con uno schiacciasassi. Mosse
per un istante i muscoli della gamba, ma semplicemente non riuscì.
Voleva sopravvivere.
Ora desiderava morire. Porre fine a tutto. In bocca, accanto al sapore del
sangue, ora c’era pure il puzzo del vomito, che gli sporcò i pantaloni già
sporchi d’altro.
«Ok. Ora l’ultimo
tocco», continuò, l’infame. Asuka non protestò. Non parlò neppure.
«Dicevo prima che non
avevi la stoffa di fare il poliziotto. Nemmeno tuo padre ce l’ha, ragazzo. E
non lo farà più, te l’assicuro. Soprattutto con un figlio disabile a cui
badare».
Figlio disabile? Alzò
il viso ormai ridotto a una maschera gonfia di sangue, con rivoli di vomito che
gli impiastricciavano il mento. Ma lo sguardo era quello dell’agnello al
macello. La Belva gli si fece accanto, posizionandosi alla sua destra, e alzò minacciosamente
la mano con la chiave inglese. «Un colpo preciso, alla giusta vertebra. Ormai
ho perso il conto di tutte le volte che l’ho fatto. Preferisco essere chiaro
con chi riceve questo trattamento: è una benedizione. Non sentirai più alcun
male. In effetti, non sentirai nulla: in effetti, se il colpo va a segno,
dovresti diventare perfettamente tetraplegico». Solo un malato di mente poteva
utilizzare i termini “perfettamente” e “tetraplegico” nella stessa frase. Ma la
Belva non era malata. «C’è chi ancora riesce a regolare gli sfinteri. Saprai se
sarai fortunato solo tra qualche settimana».
Asuka abbassò il capo.
Come a far spazio al colpo della Belva, ma in realtà, nel cuore, covava una
preghiera. Come avrebbe potuto essere felice con la ragazza dei suoi sogni,
così ridotto? In nessun modo. Era felice però. Perché pure in quel momento
stava pensando a lei. Al suo profumo di vaniglia. Alla sua pelle bianca. Ai
suoi capelli color nocciola. Alle finte litigate in classe e a quando, senza
accorgersene, la sfiorava nel passargli un libro. Alle serate passate a
rincorrersi per le vie della città. Eh, sì. Faceva una gran confusione. Quel
suo corpo così ridotto male mescolava ancora una volta le sue due ragazze. La
prima diventava la seconda e viceversa, in un tripudio di pensieri appannati.
In quella frazione di secondi pensava com’era bello dare la caccia a Meimi di
sera, nei villoni di qualche industriale, o com’era meraviglioso fissare Saint
Tail mentre lottava con le equazioni di terzo grado masticando la matita e
grattandosi quella sua bella fronte spaziosa.
Non sarebbe più servito
a nulla. La Belva lo avrebbe ucciso lì, comunque. Gli aveva fatto troppo male.
Il naso, la bocca, il ginocchio, il sangue, il vomito. Era tutto dolore. Ma era
felice. Era felice perché pure in questo mondo così schifoso, così pieno di
oscenità, di dolore, di dubbio e di confusione, aveva avuto il cuore scaldato
da lei. Da lei che non aveva mai baciato, da lei che non aveva mai stretto per
mano, da lei con cui non aveva mai fatto l’amore coccolato da calde coperte e
dai raggi della luna. E allora il mondo diveniva un posto magnifico: perché
sebbene non avesse mai potuto godere di tutte queste cose, e sebbene fosse
certo che mai le avrebbe godute, aveva capito che l’amore esisteva. L’Amore
c’era. L’Amore era presente e bussava anche al suo cuore. Sorrise, come un
pazzo sotto la ghigliottina. «Ti amo».
Sentì lo spostamento
d’aria della chiave inglese, ormai era pronto. Ma un altro spostamento d’aria,
più forte, più violento, lo sorprese. Un colpo fortissimo di vetri rotti
risuonò improvvisamente nella stanza. Qualche frammento lo colpì persino.
Un’ombra lo avvolse. Fu un flash. Un tonfo fortissimo. L’ombra tornò indietro,
sempre con la velocità di un pensiero. La chiave inglese tintinnò cadendo per
terra. Dietro di lui, subito dopo, un fragore spaventoso, accompagnato da un
altro migliaio di rumoretti attorno come di cose che cadevano. Un nugolo di
polvere. Si girò di scatto verso sinistra. Dove un istante prima c’era la
Belva, ora non c’era nessuno. Uno degli armadi, prima saldamente verticale, ora
era indubbiamente orizzontale, in un tripudio di confusione, pezzi di metallo,
di vetro, di carta e spaghi e fili di ogni tipo. Una mano emerse dalla
confusione, accompagnata da una manica bianca, a cui seguì subito il corpo di
un criminale italiano. Si stava rialzando, capelli scapigliati e uno sguardo
demoniaco.
Che diamine era
successo? Sempre più dolorante, si girò nella direzione della parte della bocca
che gli faceva più male, orfana del dente più importante. Era morto. Sicuro che
era morto. Non poteva essere più felice di così nel mondo terreno.
Al centro del magazzino
la ragazza dal lungo codino era in piedi, attenta e pronta a scattare di nuovo.
Il fiocco nero, illuminato dai raggi di luna del lucernario squarciato, faceva
danzare i suoi risvolti accompagnata da una sottile brezza che entrava nella
stanza. All’orecchio un vistoso auricolare scendeva come un filo attorcigliato
lungo il braccio. Gamba destra e braccio sinistro in avanti, teneva la mano
destra all’interno di una piccola borsa di raso scuro. Il suo volto era
sconvolto. Rosso come il sole al tramonto. Aveva pianto. E parecchio.
«Meimi…», sussurrò il
ragazzo, che ormai non capiva più niente. O forse, per la prima volta, ci stava
capendo qualcosa. Il cuore gonfio d’amore.
La ragazza non lo
guardò neppure.
«Io… Io…». Digrignava i
denti. Asuka era quasi del tutto assente, ma non potè non accorgersi che la
ragazza ansimava. E non era per la stanchezza.
«Io…». Saint Tail
tremava tutta. Non stava guardando verso di lui. Guardava oltre. Verso
l’armadio caduto e la confusione che ne derivava. Verso quel demone dai capelli
bianchi? «Io… Io non so cosa…». Ansimava, respirava affannosamente. Stringeva
il pugno. Tremava tutta. Forse stava addirittura per piangere. Asuka non
capiva, non poteva capire, ma era felice. Felice come non mai.
«Che vuoi?», ruggì la
Belva, alzandosi, mentre con una mano si scrollava la polvere di dosso e con
l’altra puntava dritta una pistola.
«VOGLIO UCCIDERTI!!!»
urlò a squarciagola Saint Tail, stringendo il pugno e agitandolo in avanti.
«VOGLIO UCCIDEEEERTIIIII!!!», ringhiò ancora, con più forza, aprendo le braccia
e chiudendo gli occhi come ad amplificare la voce. Uno sparo, una nuvola di
fumo. Asuka comprese che la battaglia era iniziata.
La ladra misteriosa
aveva combattuto fino a quel momento guidata solo da senso di giustizia. Ogni
sua azione puntava a riparare torti, ad aiutare derelitti e a dare speranza ai
più disperati. Ma ora era una furia senza controllo. Le sue lacrime sincere si
mescolavano a un’inedita quanto spaventosa sete di sangue. Non si sarebbe
fermata, no. Era una macchina da guerra. Una macchina da guerra alimentata dal
carburante più pericoloso che vi sia in natura. L’Amore.