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Autore: Andrewthelord    16/03/2014    1 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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47 La Belva

 

Era un oggetto come gli altri all’interno del vasto magazzino.

Attorno a sé scorgeva ogni sorta di paccottiglia: era uno di quei posti dove i protagonisti degli show di History o Discovery Channel sarebbero andati in coma diabetico. Vetrate di diversi colori e misure, un distributore di caramelle di quelli che metti la moneta e poi giri la manovella, ovunque graffiata, strani pesci di plastica un tempo appesi alle pareti, attrezzature di ogni tipo e per ogni gusto. Quando c’era da spostare qualcosa, all’acquario, per dei piccoli lavori di riparazione o semplicemente per dare il giro alle scenografie di quel ricettacolo di grazie di Nettuno, si ricorreva immediatamente al magazzino. Quest’ultimo, a braccia aperte, accoglieva ogni oggetto sperduto, e se lo sarebbe tenuto così stretto che, complice l’oblio di impiegati e addetti, spesso all’acquario preferivano ricomprare la roba, quando serviva, piuttosto che costringere qualche povero cristo a perdere giornate e giornate per vagare tra i meandri del magazzino in cerca di una presa tripla o di una cornice di legno.

Asuka si sentiva come quegli oggetti. Erano stati abbandonati lì per caso o per scelta, ma funzionavano ancora, avevano ancora uno scopo, un valore. Ma il caso o chi per lui li avevano fatti finire là, dimenticati. Nessuna luce li avrebbe più illuminati, nessun bambino avrebbe spesso 10 yen per estrarne una caramella dura all’esterno e gommosa dentro. Anche lui, con tutta probabilità, non sarebbe più uscito da quel magazzino. Forse, solamente dopo parecchi anni, sotto la forma di alcuni irriconoscibili pezzetti d’osso. Magari rosicchiato dai topi.

Sarebbe morto quella sera stessa, ne era certo.

Gli omoni lo avevano sbattuto sul pavimento con molta più violenza di prima: Asuka Daiki si era rialzato da terra, urlando, come impazzito. Nelle orecchie il rimbombo di quei due colpi di pistola. Fu in quel momento che uno dei due omazzi lo tramortì al terreno con una manata che alle fiere di paese comporterebbe la vittoria del peluche più grosso.

Esposito e Yamaguchi erano morti – meditava, a terra, tra alcune ruote che potevano essere di carriole o di monocicli – perché la Belva avrebbe dovuto risparmiare invece lui?

Ci mise pochissimo a fare uno più uno e capire l’unico, possibile, motivo: fargli domande, torchiarlo sul perché suo padre gli stesse dando la caccia assieme agli italiani. Poi, ovviamente, lo avrebbe ammazzato lì, sul posto. Magari lo avrebbe finito con una pistolettata in fronte, o lo avrebbe soffocato con un sacchetto di plastica. L’unica certezza è che entro poco non vi sarebbe stato più nessun Asuka Daiki Junior.

Esisteva veramente una vita dopo la morte o era un’invenzione dei preti e delle miko? Non lo sapeva. Sapeva solo che il panico lo stava avvolgendo. Non lo avevano legato: in quel momento era libero. Sarebbe stato – forse – anche libero di scappare. Ma tutti sapevano che non lo avrebbe mai fatto. Ormai era impotente. Impotente come il suo piede sinistro, che continuava a battere ripetutamente il pavimento con il tallone. La gamba gli tremava, come in preda agli spasmi. E sì, se lo sentiva, in pochi minuti se la sarebbe fatta addosso.

Non voleva morire, non voleva che tutto finisse lì, in quell’istante. Suo padre sarebbe morto con lui: non aveva altri al mondo a cui voler bene. Dopo la perdita della moglie, infatti, nessun’altra donna era riuscita ad entrare nel suo cuore. Tutte le sue storie con raffinate impiegate, imprenditrici, idol stagionate – infatti – si concludevano dopo poche settimane: Asuka Daiki Junior lo sapeva benissimo. Nonostante suo padre cercasse di sostituirla di volta in volta con milfone di mezza età dalle ottime credenziali, nessuna sarebbe stata in grado di prendere il suo posto. Sua madre era stata la donna della sua vita. Quand’era morta lei, era scomparso anche quel tipo di amore, che mai si sarebbe ripetuto. L’unica cosa che rimaneva al signor Tomoki Asuka, era quel figlio al quale aveva trasmesso tutto, persino ogni dettaglio fisiognomico.

Non doveva spegnersi lì. Poi, però, il terrore si trasformò nell’angoscia più nera.

«Meimi», disse, «io ti amo», ma parlava al nulla, baciato dai sottili raggi di luna che entravano dalle finestre in alto, che guardavano all’altezza della strada.

Non l’avrebbe più vista. Negli occhi gli sarebbe rimasta solo la meravigliosa immagine di lei bellissima, con i capelli raccolti e con addosso quel fantastico abito rosa. Una principessa. E lui era il suo principe. Ma la storia non avrebbe avuto, in quel caso, un lieto fine.

Si ricordò della lezione di letteratura del martedì precedente, quando suor Akemi, in vista dell’ennesimo inutile compito in classe, stava ripassando le peculiarità e i compiti dell’Olimpo della mitologia classica. Diana – aveva appreso con stupore – non era solo la dea della caccia e Apollo non era solo il dio del sole. Secondo gli antichi greci, infatti, quando una ragazza nel fiore della giovinezza e un ragazzo nel pieno della forza improvvisamente tiravano le cuoia, stroncati da infarto o da un aneurisma, la colpa non era della sfiga o della genetica, ma dei due fratelli olimpici, i quali, da perfetti stronzoni invidiosi e figli di papà, quando beccavano per strada qualcuno più bello di loro si divertivano a stenderlo con una freccia a tradimento, mandandolo al creatore senza passare dal via.

Quella che avrebbe dovuto affrontare da lì a pochi minuti non sarebbe stata morte istantanea, ma sicuramente un dio l’aveva invidiato. Vestito di tutto punto, pur con lo smoking con cui avevano seppellito Mino Reitano, aveva passato la serata con una ragazza splendida, per la quale si era accorto sempre di più di nutrire un amore sconfinato. In quel frangente, stretto dalla drammaticità di una fine che ormai percepiva come prossima, non nutriva alcun dubbio: con Meimi sarebbe potuto essere felice. Non c’era più lo spazio per le masturbazioni mentali tipiche della sua età, e vide la situazione con una chiarezza disarmante. Fuori da lì lo avrebbe aspettato solo amore. Dentro quel magazzino seminterrato, invece, solo la morte.

Era già a terra: si girò, faccia contro il pavimento, e si ritrovò a colpire le mattonelle di terracotta con il pugno destro. Dal terrore, passando per l’angoscia, era infine giunto alla rabbia.

«Porca puttana!». Avrebbe perso tutto. Non le avrebbe mai detto: “Sai, non sei così brutta come in classe”, o “Sai che mi sei simpatica” o “Ti amo, voglio passare tutto il resto della mia vita con te”. Non l’avrebbe mai abbracciata stretta. Né conosciuto il dolce sapore e il calore infinito che si racchiude nell’intimità di un bacio, di una carezza, di una notte passata insieme nel bagliore di una luce che sembra non finire mai semplicemente perché non può finire mai.

Se la Belva fosse entrata nella stanza e gli avesse messo di fronte un modulo prestampato da firmare, un documento che gli avrebbe garantito una settimana di libertà per andare da Meimi, confessarle il suo amore e tutto il resto, a patto di tornare a distanza di sette giorni per essere barbaramente ucciso, lo avrebbe siglato all’istante.

E accanto alla figura di Meimi gli balenò in testa il codino di Saint Tail. Anche per lei un’attrazione infinita. Ma era amore? Forse non l’avrebbe mai scoperto.

Sarebbe tutto finito lì.

Figuratevi lo scoppio di gioia che lo avvolse pochi secondi dopo. Forse non ci credeva, lo ritenne per un istante addirittura un parto della sua mente traumatizzata. Ma fu proprio così che andò.

«Ragazzo, sta’ tranquillo. Non morirai». Non se n’era nemmeno accorto. La Belva era entrata nel magazzino senza fare rumore. Con gli occhi offuscati dalle lacrime, vide una macchia bianca indistinta, che in pochi secondi si concretizzò in un uomo di mezza età, capelli argentei e che teneva con le braccia, come se la stesse accarezzando, una robusta sedia di legno provvista di comodi bracciali.

Asuka scattò in piedi, come un gattino impaurito. La Belva sembrò non badarci: guardava dritto e camminava verso il centro della stanza.

«Ragazzo, te lo ripeto. Non mi serva che tu muoia». La sua voce era glaciale: il che era meraviglioso. Non c’era nemmeno il più piccolo indizio che stesse mentendo.

«Siediti», disse il criminale, dopo aver posato la sedia. Erano soli nella stanza. «Siediti». La Belva ripeté il suo messaggio: non cambiò né timbro di voce né intonazione. Ma questo bastò ad Asuka a scattare come manco Usain Bolt a Pechino e incollare le terga sulla sedia di legno come un magnete Pirelli a una lastra di alluminio. Si trattava di una banale sedia da giardino, di quelle che puoi lasciare fuori al freddo tutto l’inverno a ricoprirsi di foglie marcite e che in primavera, con un veloce passaggio di strofinaccio, tornano pronte ad accogliere chiappe vacanziere. Asuka junior, in condizioni normali, avrebbe fatto esattamente il contrario di quello che gli ordinava un criminale come lo stragista italiano, ma aveva visto in quella notte cupa un barlume di speranza, e decise di aggrapparvisi con ogni energia residua. Del resto, non è che avesse troppe alternative.

«Aspettami». Continuò la Belva, voltandosi verso la porta. Il ragazzo non era legato né bloccato in alcun modo. Nessuno però avrebbe dubitato che il giovane detective se ne sarebbe stato lì, fermo e impalato, ben lungi dal fare sciocchezze.

Non lo voleva morto. Si toccò la fronte con la mano destra, accorgendosi, tra lo sporco della polvere e qualche piccolo livido, di grondare di sudore. Strano: non gli pareva di stare sudando. Brividi freddi lo avvolgevano, mentre dalla bocca, ritmiche, espirazioni ed inspirazioni si accavallavano facendogli gelare i denti. Odiava la Belva Umana? Certamente: era un criminale senza scrupoli, aveva messo in pericolo un sacco di persone, aveva ucciso e fatto uccidere delle brave persone, quella serata. Ma in quel momento gli pareva persino bello, un dannato fascinoso coi capelli scarmigliati che lotta da solo contro il sistema, un criminale alla Felice Maniero, di cui tutti condannano le azioni ma per il quale, tutti, fanno segretamente il tifo. Dopo pochi secondi, scuotendo la testa che sentiva ormai arroventata, maledì in cuor suo la sindrome di Stoccolma. “Chissenefrega”, ammise a sé stesso. Avrebbe fatto qualunque cosa per uscirne vivo. Meimi sarebbe stata lì, ad aspettarlo. Anche se ferito nell’orgoglio, si sarebbe goduto la sua vicinanza. Anzi – i neuroni del suo cervello erano sicuramente più sfacciati di lui – avrebbe potuto sperare addirittura che Meimi sarebbe stata travolta da un’acuta sindrome da crocerossina.

Era lì a fantasticare degli abbracci e degli sguardi puccettosi che avrebbe riscosso da Meimi quando il criminale rientrò nel magazzino. Con sé, una piccola valigia. Sembrava una banale ventiquattrore di pelle, ma il ragazzo si accorse presto che era un po’ troppo squadrata e che il braccio con cui la Belva la teneva era troppo rigido perché dentro vi fossero solo vestiti e documenti. E, cosa ancor più preoccupante, a differenza di prima, la Belva si era immediatamente girato sulla porta che si chiudeva per dare due buoni giri di chiave. La speranza, però, era troppo forte perché potesse svanire del tutto. Guardò verso il lucernario del magazzino seminterrato. Entrava un po’ di chiarore della luna. Quante lune piene aveva visto, dando la caccia a un’ombra profumata…

Il criminale posò la valigia per terra e la aprì, in direzione di Asuka junior, che non ebbe dunque modo di osservarne il contenuto. Se ne stava lì, inchiodato ai braccioli, non muovendosi di un millimetro.

«Adesso ti dico che facciamo», esordì la Belva, la voce ferma e serena, mentre armeggiava tra il contenuto della valigetta. «Quello che sto tirando fuori da qui è corda. Solo corda. Ti legherò alla sedia. Rimarrai lì tra le venti e le trenta ore. Ci darai giusto il tempo di lasciare il paese. Poi, una telefonata anonima avvertirà le autorità della tua presenza qui». Non stava mentendo: dal coperchio della valigetta aperta Asuka intravide con certezza le spire di un gomitolo di spago. Era lo spago sottile che si usa per stringere i plichi: leggero ma resistentissimo.

La Belva si alzò. Oltre allo spago, in mano, aveva una forbice e un rotolo di nastro adesivo da pacchi. Asuka rimase paralizzato. 30 ore, forse addirittura due giorni, immobilizzato a una sedia. L’avrebbero trovato stremato, in uno stato a dir poco pietoso, incrostato di escrementi secchi e puzzolente d’urina, senza più dignità. Ma vivo, almeno. Il ragazzo comprese. Era già fantastico così. La Belva se la sarebbe svignata, ma non avrebbe avuto il giovane detective sulla coscienza. E non sembrava il tipo in grado di uccidere bambini appena usciti – a malapena – dalla fase della pubertà. Non fece alcuna resistenza dunque quando la Belva, senza mai fissarlo negli occhi, gli afferrò il polso, lo strinse con forza al bracciolo e iniziò a girarvi lo spago attorno. Era impotente, ma ormai Asuka aveva fatto la sua scelta: non avrebbe potuto fare in altro modo. Sapeva che non si sarebbe mai pentito di quella scelta.

«Che ci facevi lì?». Ruppe il silenzio la Belva. Dopo tre secondi – interminabili – di silenzio, Asuka domandò: «Lì dove?».

«Al museo». Precisò la Belva, col suo solito tono di voce piatto.

«E-e-ero lì per Saint Tail».

«Saint Tail. Ragazza particolare, no?».

«Già». Pareva il lamento di un broker di Wall Street, la sera, in un bar di New York di fronte a un whiskey di riserva, dopo una dura giornata a speculare sul debito pubblico italiano. Ma era invece solo un ragazzino che veniva legato a una sedia da un assassino al cui confronto Ted Bundy[1] era Ned Flanders.

«Tu dunque, saresti…». «Quello che le dà la caccia. Mi ha dato mandato il sindaco», continuò, mordendosi immediatamente la lingua. Stava parlando troppo. Era in piena sindrome di Stoccolma.

«E perché le dai la caccia?», continuava la Belva, questa volta afferrandogli un piede e legandoglielo a una gamba della sedia.

«Perché è giusto così…», parlò, ancora una volta senza aspettare troppo.

«Ah», sospirò la Belva, «la giustizia. Quanta gente che parla di giustizia. Esiste la giustizia?», ma parlava con sé stesso, in ginocchio, mentre ricopriva con lo scotch da pacchi i giri di spago attorno alla gamba sinistra del ragazzo. E Asuka, forse fortunatamente, non rispose a quelle domande retoriche.

«La giustizia…», continuava la Belva, «… come quella di tuo padre. È il capo della polizia di qui, giusto?».

Suo padre… Che c’entrava suo padre? Asuka rimase in silenzio alcuni istanti, nel tentativo di formulare una risposta, ma la Belva, improvvisamente, mutò atteggiamento, e ruggì: «Ti ho fatto una domanda». Serafico, ma dagli occhi parevano uscire scintille.

«Sì», esordì in fretta Asuka junior, «mio padre è il capo della polizia».

«Ed era lì stasera…», non era una domanda. «Sì, certamente», tremò il ragazzo. «Con Auricchio», concluse la Belva. Asuka Daiki rimase in silenzio.

Ormai la Belva aveva finito il suo lavoro. Si voltò, e andò in direzione della porta. Il battito del cuore di Asuka accelerò all’impazzata. Era l’ultima volta che lo vedeva? E se avesse mentito? Se lo avesse lasciato lì a morire di fame? Grazie a Dio non gli aveva coperto la bocca. Al massimo, a forza di urlare, qualcuno si sarebbe accorto di lui. Ma non era comunque una bella prospettiva.

La Belva fece per toccare la porta, ma la valigia – si accorse con preoccupazione Asuka – era ancora lì a terra.

«Sai…», la Belva si girò di nuovo verso il ragazzo, «di solito non racconto ad estranei quello che faccio. Ma dato che siamo ormai in sintonia farò un’eccezione con te».

Asuka deglutì.

«Questa era una faccenda esclusivamente tra italiani, che per una strana serie di coincidenze si è svolta in trasferta, qui, in Giappone». E si avvicinò verso il giovane legato.

«Non capisco», continuò la Belva, «perché tuo padre e la sua polizia si siano intromessi. Ho dovuto fare quello che ho fatto, lo capisci?». E gli mise, quasi paternamente, una mano sulla testa. «Vedi… Nel mio lavoro, la reputazione è tutto». Si chinò verso di lui. I suoi occhi erano a pochi centimetri da quelli di Asuka. Il ragazzo poteva annusarne l’alito: menta freschissima, glaciale quasi quanto lui.

«Ho dovuto eliminare quei due, il carabiniere e il vostro poliziotto. Lasciarli in vita sarebbe come stato gridare al mondo: “Sono un debole”. Nel mio ambiente non si può fare». La Belva si girò di scatto, quasi ridendo: «Ma che ne puoi sapere tu. Sei solo un ragazzino». Ma aveva ben stampato negli occhi lo sguardo di disprezzo di Asuka, che voleva sì sopravvivere ad ogni costo, ma che non poteva nascondere l’odio che provava per quel senzadio.

«Sei solo un ragazzino», continuò la Belva, che si mise a girare attorno alla sedia, «mi sono informato su quella Saint Tail. Se fosse stata una professionista saresti già morto cento volte. Ma è una ragazzina come te. Inutile. Ragazzo, mi dispiace dirtelo, ma non vali nulla». Asuka strinse i pugni, ma la Belva era girato per accorgersene. E comunque, era troppo per lui. «So per certo che te la sei fatta sfuggire in un’infinita serie di occasioni. Per non parlare di come ti sei fatto prendere stasera. Il trucco del vecchio ubriaco. Sei un dilettante».

Era la Belva in tutta la sua scaltrezza. Perfido e distruttore. Sapeva che una delle poche ragioni per cui Asuka Daiki Junior si svegliava la mattina era quella di diventare, un giorno, un poliziotto. E ora, lo stava demolendo. Perché, in fondo in fondo, Asuka, sapeva che aveva ragione. Del resto, quello che si trovava legato lì era lui, impossibilitato a pensare alla fiducia che molti riponevano nel giovane detective, sindaco e capo della polizia –  suo padre –  compresi, del fatto che in quel mare di uomini di legge lui era l’unico che aveva capito dove la Belva si nascondesse e altri piccoli dettagli che non gli sovvenivano.

«Guarda. Segui il mio consiglio. Pensa a un’altra carriera. Fa’ qualcos’altro. Sta’ sicuro e vivrai una vita lunga». E si avvicinò di nuovo verso la porta. Asuka combatté seriamente per non urlargli contro qualcosa. Ma ci teneva alla vita, ci teneva a stare in salute. Ci teneva a rivedere Meimi. Forse avrebbe seguito davvero il consiglio della Belva, ma una parte piccolissima dentro di lui gridava a gran voce che era nato per fare il poliziotto, e sapeva, armato della virtù dei folli, che non avrebbe mai desistito da quel disegno, seppur difficile e irto di ostacoli di ogni tipo. Deglutì e guardò in basso. Ora voleva solo che la Belva se ne andasse per sempre. Aveva vinto lui. Chissà dov’era la contessa, in quel momento.

«Un’ultima cosa». La Belva si fermò davanti alla porta. «Ho bisogno che tu rechi un messaggio a tuo padre, Asuka Tomoki senior». In due passi era di nuovo di fronte ad Asuka.

Il ragazzo alzò gli occhi, ma non appena alzò il volto avvertì all’altezza delle guance un brusco spostamento d’aria. Non fece in tempo a girare le pupille verso l’origine di quel movimento che il destro della Belva lo colpì violentemente sul naso. Sentì un crack, un dolore secco. Improvvisamente, non riuscì più a respirare. Le labbra in pochi istanti gli si fecero prima pesanti, poi bagnate, poi delle gocce gli caddero sui risvolti della giacca blu e tra i bottoni della camicia bianca.

Non era sudore.                                                                                                                    

Gli aveva rotto il naso. Gli aveva distrutto il fottutissimo naso.

Sputò.

Che diamine era successo? Non lo sapeva. Sapeva solo che non era finita lì.

«Sai ragazzino», riprese impassibile la Belva, «come si distingue un uomo forte da uno che non lo è?». Non attese una risposta: «L’uomo forte non ha punti deboli. Puoi cercare quanto vuoi ma non potrai mandarlo mai al tappeto. Tuo padre, invece, un punto debole ce l’ha. Ce l’ho io qui di fronte».

La Belva si girò, e andò verso la valigetta. Si inginocchiò, e iniziò, di nuovo, ad armeggiare. Asuka vide immediatamente: stava indossando un paio di guanti in lattice.

«Che fa?», sibilò, con la stessa voce ovattata con cui Yamaguchi, poco prima, aveva pronunciato le sue ultime parole.

«Lascio il mio messaggio». Gelido come l’era Würm.

«Avevi detto che non mi avresti ucciso!», urlò, disperato, sputacchiando sangue, il povero Asuka, il cui cuore quasi smise di battere.

«Non sono un truffatorino che racconta balle», sbuffò, e aveva ragione, «ma non ho mai specificato in che modo ti avrei lasciato in vita. Il mio messaggio per tuo padre sarai tu stesso, ragazzino».

Era fottuto. Asuka capì che tutto sarebbe stato possibile, da lì a pochi minuti. Chiuse gli occhi, iniziò a respirare affannosamente. “Devo farcela, devo farcela, devo farcela”. Un mantra. Sarebbe stata quella la battaglia della vita. L’avrebbe superata. Non aveva alternative. Anzi: non vedeva l’ora che la Belva iniziasse qualsiasi cosa avesse in testa, perché tutto potesse finire entro poco, perché potesse capire se fosse stato in grado di superare quella prova. Era il dubbio che lo lacerava, in quei minuti. Aveva di fronte qualche altro pugno o gli avrebbe tagliato gambe e braccia con una motosega?

«Da cosa cominciamo?». Era in ginocchio. Frugava. Come il ragazzino che sceglie dal suo box quale giocattolo utilizzare. «Ah sì». Afferrò qualcosa e si alzò in piedi. Asuka strabuzzò gli occhi. Di che si trattava? Teneva stretto quest’affarino lungo nella mano destra. Un cacciavite? Una lima? No, i manici erano due, ben stretti. Era una pinza.

La Belva, in silenzio, si avvicinò velocemente. Asuka si mosse sulla sedia. Dove lo avrebbe colpito? Tremava, ansimava, ed, ecco. Se l’era persino fatta addosso. Non fece nemmeno in tempo ad accorgersi del calore all’altezza dell’inguine sinistra che, di nuovo, un pugno della Belva sullo zigomo destro gli sbatté il viso sullo schienale. Il criminale gli afferrò con la mano sinistra il mento. «Fermo». Non serviva che glielo dicesse. Ormai era alla sua mercé. Il criminale sollevò la mano destra, con la quale teneva minacciosa quella pinza da ferramenta. Senza farsi troppe remore, avvicinò in velocità l’attrezzo alla bocca del ragazzo. Si fece spazio tra le labbra chiuse e colpì gli incisivi. La bocca di Asuka non era serrata: fu uno scherzo per la Belva divaricarla del tutto.

Asuka non era tipo da andare a messa tutte le domeniche, in quella cittadina giapponese dal più alto tasso di cattolicità nell’estremo oriente, ma in quel momento desiderò esserci andato più spesso. Forse per imparare le storie di quei pazzi che si facevano fare di tutto senza praticamente sentire nulla in onore di quel falegname galileo.

Sentiva l’alito del mostro su di sé. Poi, però, parlò solo il dolore. Non vedeva nulla, se non il braccio ricoperto da una manica bianca di una giacca di lusso del criminale. Che stava facendo? Improvvisamente, sentì qualcosa che gli afferrava un dente, uno dei molari di sinistra dell’arcata superiore. Un dente che non si vede mai, ma che è responsabile del 90% di ogni buona masticazione. “Non può farlo”, pensò, “non può essere così crudele”. Ma lo era.

Un crac, una torsione, la pinza che si ritraeva. Il suo primo pensiero fu che se non era svenuto dal dolore in quel momento nessun male fisico lo avrebbe fatto svenire in vita sua. Pareva gli avessero infilato un chiodo nel cervello, martellando a partire dal palato. Sentiva come dei pezzi di osso impastargli la lingua e la gola. Vide. Sul guanto la Belva esibiva un orrendo trofeo. Non pensava che la parte interna dei denti umani fosse così lunga.

Il dolore si fece sempre più forte. Sapeva che mai e poi mai sarebbe potuto stare di nuovo bene. Ormai lui stesso era composto di dolore. Il gonfiore lo abbracciava, gli accarezzava la bocca, gli saliva per la guancia e si innestava profondo sul cervello. Il dolore lo cullava. Come una mamma.

Sua mamma, che chissà quanto aveva sofferto. Era con lei, ora. A soffrire, come su quel letto d’ospedale. Espirò ed inspirò violentemente. La Belva era di fronte a lui, in piedi, impassibile.

Poi, non sapeva nemmeno come avvenne, ispirò su con il naso, dal retrogusto di sangue, alzò le guance, sbadigliò e iniziò a piangere.

Aveva 16 anni, ma non era quello il punto. Era solo un bambino, ma non era quello il punto. Semplicemente, non riusciva a capire perché quell’uomo di fronte a lui lo odiasse così tanto. Non se ne dava pace.

«Passiamo ad altro». La Belva tornò nella sua valigetta degli orrori.

«NOOO!!!», urlò Asuka. «Basta, ti prego, basta!». Era un lamento straziante, a cui nessuno, con un briciolo d’anima, avrebbe potuto dire di no. Ma in quel frangente piangere era come agitarsi sul pelo dell’acqua, con una ferita aperta e con una maglietta con scritto “Foca” in un tratto d’oceano infestato dagli squali.

La Belva si rialzò, ancora. Questa volta Asuka capì immediatamente di che si trattava. Era una chiave inglese di quelle grosse. E dunque, di quelle particolarmente impietose se utilizzate per questi scopi. Fu velocissimo. Due passi ed era già lì. Al terzo passo la testa della chiave inglese incontrava a gran velocità la rotula sinistra di Asuka Junior. Il ragazzo sobbalzò. Era troppo per lui, davvero.

La testa gli si piegò in avanti. La gamba gli pulsava tutta. L’aveva colpito in un centimetro quadrato, ma era come se gli fosse passato sopra con uno schiacciasassi. Mosse per un istante i muscoli della gamba, ma semplicemente non riuscì.

Voleva sopravvivere. Ora desiderava morire. Porre fine a tutto. In bocca, accanto al sapore del sangue, ora c’era pure il puzzo del vomito, che gli sporcò i pantaloni già sporchi d’altro.

«Ok. Ora l’ultimo tocco», continuò, l’infame. Asuka non protestò. Non parlò neppure.

«Dicevo prima che non avevi la stoffa di fare il poliziotto. Nemmeno tuo padre ce l’ha, ragazzo. E non lo farà più, te l’assicuro. Soprattutto con un figlio disabile a cui badare».

Figlio disabile? Alzò il viso ormai ridotto a una maschera gonfia di sangue, con rivoli di vomito che gli impiastricciavano il mento. Ma lo sguardo era quello dell’agnello al macello. La Belva gli si fece accanto, posizionandosi alla sua destra, e alzò minacciosamente la mano con la chiave inglese. «Un colpo preciso, alla giusta vertebra. Ormai ho perso il conto di tutte le volte che l’ho fatto. Preferisco essere chiaro con chi riceve questo trattamento: è una benedizione. Non sentirai più alcun male. In effetti, non sentirai nulla: in effetti, se il colpo va a segno, dovresti diventare perfettamente tetraplegico». Solo un malato di mente poteva utilizzare i termini “perfettamente” e “tetraplegico” nella stessa frase. Ma la Belva non era malata. «C’è chi ancora riesce a regolare gli sfinteri. Saprai se sarai fortunato solo tra qualche settimana».

Asuka abbassò il capo. Come a far spazio al colpo della Belva, ma in realtà, nel cuore, covava una preghiera. Come avrebbe potuto essere felice con la ragazza dei suoi sogni, così ridotto? In nessun modo. Era felice però. Perché pure in quel momento stava pensando a lei. Al suo profumo di vaniglia. Alla sua pelle bianca. Ai suoi capelli color nocciola. Alle finte litigate in classe e a quando, senza accorgersene, la sfiorava nel passargli un libro. Alle serate passate a rincorrersi per le vie della città. Eh, sì. Faceva una gran confusione. Quel suo corpo così ridotto male mescolava ancora una volta le sue due ragazze. La prima diventava la seconda e viceversa, in un tripudio di pensieri appannati. In quella frazione di secondi pensava com’era bello dare la caccia a Meimi di sera, nei villoni di qualche industriale, o com’era meraviglioso fissare Saint Tail mentre lottava con le equazioni di terzo grado masticando la matita e grattandosi quella sua bella fronte spaziosa.

Non sarebbe più servito a nulla. La Belva lo avrebbe ucciso lì, comunque. Gli aveva fatto troppo male. Il naso, la bocca, il ginocchio, il sangue, il vomito. Era tutto dolore. Ma era felice. Era felice perché pure in questo mondo così schifoso, così pieno di oscenità, di dolore, di dubbio e di confusione, aveva avuto il cuore scaldato da lei. Da lei che non aveva mai baciato, da lei che non aveva mai stretto per mano, da lei con cui non aveva mai fatto l’amore coccolato da calde coperte e dai raggi della luna. E allora il mondo diveniva un posto magnifico: perché sebbene non avesse mai potuto godere di tutte queste cose, e sebbene fosse certo che mai le avrebbe godute, aveva capito che l’amore esisteva. L’Amore c’era. L’Amore era presente e bussava anche al suo cuore. Sorrise, come un pazzo sotto la ghigliottina. «Ti amo».

Sentì lo spostamento d’aria della chiave inglese, ormai era pronto. Ma un altro spostamento d’aria, più forte, più violento, lo sorprese. Un colpo fortissimo di vetri rotti risuonò improvvisamente nella stanza. Qualche frammento lo colpì persino. Un’ombra lo avvolse. Fu un flash. Un tonfo fortissimo. L’ombra tornò indietro, sempre con la velocità di un pensiero. La chiave inglese tintinnò cadendo per terra. Dietro di lui, subito dopo, un fragore spaventoso, accompagnato da un altro migliaio di rumoretti attorno come di cose che cadevano. Un nugolo di polvere. Si girò di scatto verso sinistra. Dove un istante prima c’era la Belva, ora non c’era nessuno. Uno degli armadi, prima saldamente verticale, ora era indubbiamente orizzontale, in un tripudio di confusione, pezzi di metallo, di vetro, di carta e spaghi e fili di ogni tipo. Una mano emerse dalla confusione, accompagnata da una manica bianca, a cui seguì subito il corpo di un criminale italiano. Si stava rialzando, capelli scapigliati e uno sguardo demoniaco.

Che diamine era successo? Sempre più dolorante, si girò nella direzione della parte della bocca che gli faceva più male, orfana del dente più importante. Era morto. Sicuro che era morto. Non poteva essere più felice di così nel mondo terreno.

Al centro del magazzino la ragazza dal lungo codino era in piedi, attenta e pronta a scattare di nuovo. Il fiocco nero, illuminato dai raggi di luna del lucernario squarciato, faceva danzare i suoi risvolti accompagnata da una sottile brezza che entrava nella stanza. All’orecchio un vistoso auricolare scendeva come un filo attorcigliato lungo il braccio. Gamba destra e braccio sinistro in avanti, teneva la mano destra all’interno di una piccola borsa di raso scuro. Il suo volto era sconvolto. Rosso come il sole al tramonto. Aveva pianto. E parecchio.

«Meimi…», sussurrò il ragazzo, che ormai non capiva più niente. O forse, per la prima volta, ci stava capendo qualcosa. Il cuore gonfio d’amore.

La ragazza non lo guardò neppure.

«Io… Io…». Digrignava i denti. Asuka era quasi del tutto assente, ma non potè non accorgersi che la ragazza ansimava. E non era per la stanchezza.

«Io…». Saint Tail tremava tutta. Non stava guardando verso di lui. Guardava oltre. Verso l’armadio caduto e la confusione che ne derivava. Verso quel demone dai capelli bianchi? «Io… Io non so cosa…». Ansimava, respirava affannosamente. Stringeva il pugno. Tremava tutta. Forse stava addirittura per piangere. Asuka non capiva, non poteva capire, ma era felice. Felice come non mai.

«Che vuoi?», ruggì la Belva, alzandosi, mentre con una mano si scrollava la polvere di dosso e con l’altra puntava dritta una pistola.

«VOGLIO UCCIDERTI!!!» urlò a squarciagola Saint Tail, stringendo il pugno e agitandolo in avanti. «VOGLIO UCCIDEEEERTIIIII!!!», ringhiò ancora, con più forza, aprendo le braccia e chiudendo gli occhi come ad amplificare la voce. Uno sparo, una nuvola di fumo. Asuka comprese che la battaglia era iniziata.

La ladra misteriosa aveva combattuto fino a quel momento guidata solo da senso di giustizia. Ogni sua azione puntava a riparare torti, ad aiutare derelitti e a dare speranza ai più disperati. Ma ora era una furia senza controllo. Le sue lacrime sincere si mescolavano a un’inedita quanto spaventosa sete di sangue. Non si sarebbe fermata, no. Era una macchina da guerra. Una macchina da guerra alimentata dal carburante più pericoloso che vi sia in natura. L’Amore.

 

   
 
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