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Autore: hikachu    16/03/2014    2 recensioni
Amico mio dolcissimo, non lasciamo che sia questo il momento della nostra fioritura: una volta dischiusi, i fiori cadono in fretta, ed io ho visto un sogno luminoso e lunghissimo che prenderà tutta la nostra vita. Efestione osserva Alessandro, la notte prima della battaglia di Gaugamela.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Certo che ogni cosa è in boccio, certo che andremo. Poiché non siamo dei, tu ed io? … Sento nel mio sangue la rotazione di universi inesplorabili...

Ascolta—Voglio correre per tutta la mia vita, urlando a perdifiato. Voglio lasciare che la vita intera sia un ululato senza restrizioni. Come la folla che saluta il gladiatore.

Non fermarti a pensare, non interrompere l'urlo, espira, rilascia l'estasi della vita. Ogni cosa è in boccio. Ogni cosa sta volando. Ogni cosa sta gridando, soffocando delle proprie grida. Risate. Correre. Capelli sciolti. Non vi è  altro nella vita.
(Gods, V. Nabokov)

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Il Re aveva indicato uno dei tori quando oramai i più tra gli uomini si erano ritirati nelle proprie tende. Gli eteri e quelli che già erano stati i generali di Filippo restavano seduti accanto allo stesso fuoco, in attesa delle disposizioni di Alessandro. Non si parlava, e alcuni tra i più giovani si raggomitolavano gli uni vicino agli altri, sia per poter meglio comunicare con gli occhi e nascondere ai veterani i sorrisi che si rivolgevano, sia perché l'Asia, che già nelle sue giornate assolate si era rivelata più spietata dell'estate greca, di notte era ugualmente parca di misericordie, lasciando i coraggiosi – o gli schiocchi – che si accampavano nelle grandi distese desertiche senza le dovute precauzioni a battere i denti, talvolta fino alla morte. Alcuni soldati di basso rango si erano quindi avvolti nei cenci che, nelle tende, sarebbero ritornati coperte, e avevano preso a bisbigliare animatamente tra loro, producendo un rumore simile al ronzio di uno sciame d'api. Facevano ticchettare gli astragali nel palmo di una mano prima di gettarli nella polvere, e urlavano quando ciascuna vertebra di montone mostrava loro una faccia diversa. Colpo di Afrodite!, esclamavano allora, e subito alzavano gli occhi per accertarsi di non aver irritato uno dei veterani o Alessandro stesso, intento in riti sacri insieme all'antico Aristandro, il quale era addirittura stato tra quelli che avevano interpretato i presagi immediatamente precedenti alla nascita del Re. Si diceva che già allora fosse un vegliardo e, certo, vederlo rifulgere nell'oscurità con le sue vesti e la barba immacolate sembrava comprovare che appartenesse più agli spiriti che alle cose terrene con tutte le loro restrizioni.

Tra i soldati semplici che avevano scelto di rinunciare al sonno, vi erano molti che avevano fatto la loro prima battaglia in Asia, e alcuni tra questi avevano ricevuto il cinturone che li designava uomini fatti appena prima di partire; non gli era stato nemmeno concesso il tempo di crogiolarsi nell'orgoglio per quel traguardo, ma poco era importato: contro i barbari, pensavano, li attendeva una gloria ben più grande ed una riprova di quel valore ben più sicura. Era in loro un'eccitazione che l'abitudine allo scontro non aveva ancora domato. Essa rendeva la leggera cena tipica delle notti prima della battaglia come un macigno nel loro stomaco; o forse come una spugna, che dopo pochi sorsi di vino annacquato si ingigantiva fino a chiudere loro la gola. Certo, se il campo fosse stato silenzioso, sarebbe stato possibile udire le preghiere mormorate di quelli che, pure già stesi sulle loro brande da ore, ancora pregavano; eppure, quel timore composto, privato, sacro, era ben diverso dal caos dei cuori giovani: era la consapevolezza, la rassegnazione che se l'uomo convive con la morte, il soldato la tiene per mano, e talvolta se ne lascia pure trascinare quando una ferita s'infetta e non sempre può tornare indietro. Era la consapevolezza dei propri limiti, il pensiero che si rivolge, allora, ad avi ed eroi, chiedendo almeno la forza per una fine dignitosa, se fine deve essere. Che i miei figli possano ricordarmi senza vergogna, che io possa continuare a vivere in loro quando prenderanno la spada ed uccideranno il loro primo uomo. E cadevano addormentati muovendo le labbra intorno a queste parole.

Seduto accanto agli altri amici fidati del Re, Efestione era rimasto in disparte, senza parlare né bere, e taluni, notato il silenzio del loro compagno, si erano voltati nella sua direzione per cercare di capire cosa ne avesse rapito l'attenzione, ma non scorsero altro che il bagliore delle fiamme riflesso nei suoi occhi, lo sguardo lontano ed un'espressione che pareva vuota di ogni pensiero o preoccupazione per l'indomani. Ma quando la macchia luminescente che era il chitone di Alessandro tornò ad essere visibile nelle tenebre notturne, Perdicca e Tolomeo sorridente e Leonnato si rivolsero occhiate di intesa. Non erano certo sorpresi, né l'indifferenza di Efestione restava adesso incomprensibile, poiché era risaputo sin da quando erano bambini, che i due agivano come se condividessero un'anima sola, e alle volte questo significava che l'uno lasciava quel singolo cuore all'altro, assieme ai propri desideri e tutto ciò che l'animava. Se Alessandro intendeva pregare gli dei per la battaglia del giorno seguente, allora l'avrebbe fatto lui che era Re e modello e doveva mostrarsi pio ai suoi uomini. Senza dubbio conosceva i pensieri di Efestione e li avrebbe rivolti al cielo mentre incideva il collo massiccio del toro.

“Un toro su uno scudo nero,” mormorò Tolomeo, la voce appena impastata di sonno. “Come i sette che si contesero Tebe.”

Perdicca inclinò il capo. “Sacrificano a Phobos?”

“E perché no?” ribatté Cassandro e scosse le spalle. Per un attimo, i suoi capelli neri sobbalzarono, scoprendo l'ampia fronte. “Eracle stesso lo onorava, portandone la bocca dai molti denti sul proprio scudo. Alessandro ne discende per parte di padre e inoltre... Inoltre, le sue azioni non sono forse state quelle di un uomo che pare credersi più vicino agli eroi divini che agli uomini, sin da quando abbiamo lasciato la Macedonia?”

Nel dire ciò, Cassandro aveva scrutato con attenzione il volto di Efestione, ed era chiaro a tutti i presenti che alludesse al giorno in cui entrambi si erano spogliati ed unti con l'olio per correre intorno alla tomba dell'eroe divino e dell'amato Patroclo. Qualcuno – la voce aspra – ricordò allora a Cassandro che Alessandro aveva soltanto voluto rendere omaggio ad un guerriero che ogni uomo che abbia conosciuto la battaglia ed il valore ammira, e che chiunque corrispondesse a tale descrizione avrebbe desiderato di celebrare Achille e il suo compagno in Troade, se ne avesse avuto l'occasione ma Efestione, che a scapito del suo sangue freddo era molto orgoglioso e non tollerava simili dicerie, nemmeno quando queste erano giocose o provenivano dalle labbra di un amico, non ruppe il suo silenzio e, anzi, si lasciò dietro i restanti eteri ed il fuoco crepitante quando vide Alessandro e l'indovino che si fermavano infine in un punto preciso.

Aiutati da uno di quelli che si occupavano del bestiame per conto della carovana tutta, i due avevano condotto il toro – certo la bestia più bella e possente della mandria – in un luogo che fosse lontano dalle tende quanto bastava perché i rumori del campo non li raggiungessero. Si posizionarono, insomma, cosicché gli uomini potessero ben vedere e poi raccontare, a coloro che adesso riposavano, che chi li guidava rispettava gli dei come ognuno di loro, ben conscio di essere in fondo solo Alessandro, re dai natali semidivini, certo, ma pur sempre un uomo, ed un primus inter pares ben lontano dal tiranno persiano. L'avrebbero osservato, senza poter però cogliere i desideri del suo cuore, che in fondo non li riguardavano, non in quel momento, e sarebbero stati liberi di teorizzarli da sé, poiché era necessario che facessero di quell'umiltà calcolata una ragione per adorare ulteriormente Alessandro: laddove Filippo, incantato dagli anni trascorsi a Tebe, si era adoperato tutt'una vita in guerre e missioni diplomatiche per ottenere le simpatie dei greci, suo figlio aveva ereditato da Olimpiade la capacità di leggere le persone, di carpire quindi ciò che avrebbe potuto schiacciarle o dare loro l'illusione di essere invincibili e, soprattutto, indispensabili alla sua causa. Non possedeva forse l'indole paziente e misurata dell'uomo politico, ma ne condivideva la scaltrezza, e gli dei gli avevano fatto un dono ancora più raro, che era quello delle parole che riescono muovere gli animi umani.

Efestione, che tutte queste cose le conosceva e le capiva meglio di chiunque altro, rimase a debita distanza dal luogo scelto per il sacrificio, affinché fosse chiaro che egli si considerava innanzitutto un suddito di Alessandro e nessuno pretendesse mai di avere il diritto, o la possibilità, di avvicinarsi al Re come suo pari. Rimase così a fissare le spalle strette ma muscolose di Alessandro; i muscoli che si muovevano sotto il chitone e sotto la pelle e il loro guizzo improvviso quando il coltello aveva finalmente reciso la gola del toro, ed Alessandro era balzato impercettibilmente sotto lo spruzzo di sangue caldo. Aveva i capelli ancora umidi del bagno che aveva preso sia per abitudine personale, sia per purificarsi prima del rito, e l'acqua li faceva apparire più scuri anche nella semioscurità; li faceva aderire al suo collo e alla fronte che Efestione non poteva scorgere, e li faceva arricciare così che solo alcune ciocche riuscivano a sfiorargli le spalle, e a stento. In quei momenti, l'immagine del bambino che Alessandro era stato si faceva vivida nella mente di Efestione e lui assaporava sulla lingua gli odori potenti del sottobosco e dei fiori che sbocciavano a Mieza. Era quello l'odore del sogno. Ascolta, gli aveva comandato Alessandro all'epoca, una notte di tarda primavera che si erano accoccolati nello stesso giaciglio, ed Efestione non era più in grado di distinguere dove il proprio corpo finisse e dove cominciasse quello di Alessandro. Ascolta, gli aveva comandato. Aristotele ci dice che la medietà è essenziale se si vuole sbocciare come splendidi ciliegi, e che io dovrei esercitarla più di ogni altro perché sono predisposto all'irruenza e ad essere re assieme, ed io concordo su questo, poiché cosa sarebbe anche il guerriero più coraggioso se non conoscesse la paura, se non un folle che getta via la propria vita senza pensare e nulla più? E quindi io terrò in conto sempre le voci che si oppongono ai miei desideri, le lezioni di Aristotele e quello che tu, o Efestione, hai da dire, perché tu sei il me stesso che riesce a vedere tutte quelle cose che sfuggono a questi due occhi. Tuttavia, amico mio dolcissimo, non lasciamo che sia questo il momento della nostra fioritura: una volta dischiusi, i fiori cadono in fretta, ed io ho visto un sogno luminoso e lunghissimo che prenderà tutta la nostra vita. Così aveva detto, ed Efestione aveva annuito nel buio, trattenendo il respiro, sentendo che il confine tra loro andava sfumandosi sempre di più.

Chiuse gli occhi mentre uno schiavo aiutava Aristandro a girare il corpo riverso dell'animale, in modo che l'indovino potesse squarciarne il ventre con facilità. Poteva figurarsi dai rumori le viscere che scivolavano sulle rocce, fumanti, ed Aristandro che le aiutava a venire fuori con le sue mani scheletriche come un'ostetrica bizzarra che dà morte. Il rumore di cose umide e viscide che si sfregavano le une contro le altre si intensificò, rivelando ad Efestione che Alessandro stava ora mormorando i suoi giuramenti e le preghiere di entrambi a Phobos mentre stringeva le interiora del toro. Ringraziava per la saggezza che la paura donava al suo carattere sanguigno, per le vite dei suoi soldati che essa aveva preservato; si auspicava che non smettesse mai di guidarli, ma che non li ostacolasse annichilendone il valore. Ancora, con parole che ricordavano più gli incanti di Olimpiade che una supplica, pregò affinché l'indomani Dario potesse conoscere il terrore vero, quello della realizzazione che nessuno sforzo o esercito sfavillante l'avrebbe aiutato a prevalere sui macedoni.

Quando Efestione aprì gli occhi, Alessandro era dinnanzi a lui, le vesti zuppe di sangue mentre viso e mani erano stati puliti alla meglio con qualche straccio. Sorrideva. Gli posò due dita sul labbro inferiore, spingendolo a schiudere appena la bocca, e Efestione eseguì quel comando silenzioso senza proteste poiché non c'era altro – e non c'era mai stato – che potesse fare. La pelle di Alessandro sapeva, naturalmente, ancora di sangue e lui desiderò baciarla più di ogni altra cosa; rimase invece immobile, conscio di coloro che adesso li osservavano entrambi e del fatto che vi erano parole importanti, sulla punta della lingua di Alessandro. Inoltre, poteva riconoscere sul suo viso lo stesso sguardo che l'aveva trafitto nell'oscurità dolce di Mieza.

Nel parlare, il sorriso di Alessandro si allargò.

“Questa non è la primavera della nostra vita,” disse. “Perché faremo della nostra intera esistenza una primavera. L'estate arriverà solo quando le nostre gambe non potranno più sorreggerci e non avremo più fiato. Solo allora i nostri fiori di ciliegio sbocceranno e noi ci permetteremo di ammirarli, perché non vi sarà null'altro che noi potremo fare.”

“Amico mio dolcissimo,” sospirò allora Efestione, preso dall'eco del ricordo, e chinò la testa in un'espressione di abbandono.
   
 
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