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Autore: vannagio    17/03/2014    8 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 7




La porta del negozio era già spalancata, quando Zachariasz arrivò. Messo il primo piede dentro, vide il registratore di cassa e un telefono in pezzi sul pavimento.
«Dobbiamo chiamare un'ambulanza».
«No, ci penserà Shiriki a lui».
«Sì, Ragazza Con La Giarrettiera, sta' tranquilla. So quello che faccio».
Zachariasz si voltò. C’erano due donne. Una era la cassiera del negozio, che come la volta scorsa era praticamente nuda e ricoperta di tatuaggi. L’altra invece era vecchia e grigia, un mucchietto d’ossa. C’era pure un uomo, vecchio e grigio anche lui. Stava applicando un qualche impacco sulla faccia ammaccata del porco tatuatore, che invece era disteso sul divano: i lividi sul suo petto si confondevano con i tatuaggi. Di Honey nemmeno l’ombra.
Per un brevissimo istante, il suo orgoglio di padre gli fece credere che sua figlia fosse finalmente rinsavita e che avesse dato al tatuatore quello che si meritava. Solo per un brevissimo istante, però. Perché l’attimo successivo due energumeni uscirono dal laboratorio e gli rivolsero due occhiate torve, una ciascuno.
«E tu chi cazzo sei?».
Zachariasz li ignorò.
«Dov’è mia figlia?».
La commessa e i due vecchi si accorsero finalmente di lui. Nel voltarsi nessuno dei tre sussultò. La commessa lo riconobbe subito. Fece per dire qualcosa, ma il tatuatore gemette e si mosse sul divano, attirando nuovamente la sua attenzione.
«Honey…», biascicò.
«L’ho mandata a casa, sta’ tranquillo», disse la commessa.
Sbagliato, pensò Zachariasz con una bruttissima sensazione alla bocca dello stomaco, che gonfiava sempre più come una spugna in acqua.
Il tatuatore provò ad alzarsi. Il vecchio lo tenne giù.
«Non ci pensare nemmeno, fammi prima verificare che non ci sia niente di rotto».
Il tatuatore scosse la testa, non si dava pace.
«No, devo... non è andata a casa, è tornata indietro».
La commessa imprecò.
«Cosa? Maledetta incosciente! Cazzo, JD! Con tutte le donne che ci sono sul pianeta, perché hai scelto proprio una bambina viziata e idiota? Adesso me lo devi spiegare!».
Ma il tatuatore non sembrava ascoltarla.
«Voleva aiutarmi e… l’hanno presa».
La spugna si trasformò in un blocco di granito, che rischiò di schiacciarlo dall’interno. In due rapide falcate, Zachariasz fu davanti al divano, spinse di lato il vecchio e afferrò il tatuatore per il collo.
«Chi è che l’ha presa? Che cazzo è successo qui dentro? Parla, bastardo, o giuro che ti ammazzo con le mie mani!».
Il tatuatore tossì qualcosa, chiaramente stava cercando di parlare.
«Molla la presa. Immediatamente».
La vecchia gli era andata sotto a muso duro. Qualcosa lo punzecchiava al fianco.
«Uomo Con La Cicatrice, dalle retta. Non sta scherzando», disse il vecchio.
Zachariasz aprì le dita, il tatuatore si accasciò sul divano, come un burattino a cui hanno tagliato i fili, e la vecchia rinfoderò il coltello. Solo allora Zachariasz notò il Coyote tatuato sulla sua spalla ossuta. Anche i due energumeni ne avevano uno, adesso che ci faceva caso: sul collo e sul cranio. Gli venne da imprecare e spaccare mezzo negozio. Non perdere le staffe, si disse. L'hai promesso a Isa.
«Che cazzo c’entri tu con i Coyote?», chiese al tatuatore. «E chi ha preso Honey?».
Il tatuatore sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano vitrei, ma pungenti come lame affilate. Anzi, no. Come aghi. Lui sa tutto, pensò Zachariasz. E le sue parole glielo confermarono.
«Quelli della tua vecchia banda».



José era sveglio già da circa trenta minuti, ma non aveva osato muovere un muscolo, era rimasto a fissare il soffitto come un coglione. La donna che gli dormiva accanto apparteneva a quel genere di donna che, dopo la scopata di una notte, si riveste in silenzio, dice grazie prima di chiudersi la porta alle spalle e poi non si fa più sentire. E lui voleva ritardare l’arrivo di quel momento il più possibile.
Che poi il grazie avrebbe dovuto dirlo lui a lei, non il contrario. Era pieno di alcol come una botte, quando il Goldfinger aveva chiuso i battenti. Benedetta lo aveva accompagnato a casa perché non era in grado di reggersi in piedi, figuriamoci di guidare.
Aveva solo dei ricordi sfocati di quello che era successo dopo, come cercare di vedere attraverso un vetro appannato. Il getto ghiacciato della doccia sulla faccia e sui vestiti, che gli rimetteva in moto il cervello. Il materasso che gli veniva incontro. No, lui che andava incontro al materasso. Benedetta che gli toglieva le scarpe e diceva qualcosa riguardo a un’aspirina, che gli allungava un bicchiere d’acqua. Lui che invece di poggiare le labbra sul bordo del bicchiere, le poggiava sulla bocca di Benedetta.
José si massaggiò la mascella, gemendo piano.
Cazzo, ci aveva visto giusto, il gancio destro di Benedetta faceva un male boia! Ma almeno lo aveva fatto tornare lucido in men che non si dica. José era convinto che, dopo quel colpo di genio da parte sua, lei sarebbe andata via senza voltarsi indietro. Invece Benedetta aveva cominciato a sfilarsi i vestiti, uno dopo l’altro. Senza dire una parola. Guardandolo dritto negli occhi. Cristo, quanto si era sentito coglione! Lui ubriaco marcio, i vestiti bagnati e stropicciati, l’alito che doveva puzzare da fare schifo. E lei, invece, una scultura greca imponente sempre più nuda.
Se lo era scopato. Senza dire una parola. Guardandolo dritto negli occhi.
Sì, lei aveva scopato lui, non il contrario. José non aveva fatto molto. All’inizio aveva cercato di afferrarla per i fianchi stretti, ma lei lo aveva subito rimesso in riga, bloccandogli i polsi sopra la testa, alla testiera del letto, con la cintura. E così si era lasciato cavalcare. E non gli era dispiaciuto. Oh, no, affatto. Benedetta ci sapeva fare, lo aveva domato e ammansito. Ed era stato bellissimo guardarla muoversi sopra di lui, con colpi di bacino profondi e decisi, lasciarle prendere quello che voleva, a modo suo. Lei era bellissima. Con quella schiena muscolosa e lunghissima, non finiva mai, che era in grado di inarcarsi come una canna di bambù. Con quelle cosce toniche che lo tenevano piantato al materasso. Con quei seni, piccoli, sodi ma asciutti, dai capezzoli scuri e dritti. Sarebbe riuscito a posarci sopra la bocca almeno una volta, prima di vederla scomparire da quella porta?
Cazzo, gli era venuto di nuovo duro.
Il bip bip del cellulare svegliò Benedetta di soprassalto. Si guardò intorno, spaesata, quando incontrò gli occhi di José, parve ricordare tutto.
«Buongiorno», le disse.
«È il mio o il tuo?».
«Il tuo, credo».
Benedetta scattò in piedi, nuda, sveglia e scattante come una tigre. Come cazzo faceva? A lui normalmente servivano tre tazze di caffè per potersi definire sveglio. Figuriamoci dopo una notte come quella! Per fortuna che era solo mezzogiorno e che prendeva servizio dopo pranzo. Nel frattempo Benedetta stava frugando nelle tasche dei pantaloni. Quando trovò il cellulare, andò in bagno e si chiuse dentro. Le antenne da sbirro si drizzarono immediatamente. Doveva trattarsi di roba di lavoro. José cercò a tentoni i boxer e li trovò accanto al comodino. Se li era appena infilati, quando lei uscì dal bagno. Non lo degnò di uno sguardo e cominciò a rivestirsi.
«Qualche problema?».
«No, tutto a posto».
«Dalla tua faccia non si direbbe».
Benedetta lo fulminò con un’occhiataccia.
«Senti, mettiamo subito le cose in chiaro. Abbiamo solo scopato. Non siamo diventati pappa e ciccia, okay? Fatti cazzi i tuoi e vedrai che andrà tutto bene».
«Sembra una minaccia».
Aveva rindossato pantaloni, reggiseno e anfibi. Il resto se lo mise sottobraccio e si avviò verso il soggiorno a passo di marcia. José la seguì, solo per vederla chiudersi la porta alle spalle. Senza dire una parola.
Si era sbagliato. Apparteneva a quel genere di donna che alla fine non dice nemmeno grazie.



Honey non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso.
Seppe che era ora di pranzo solo quando, nella stanza in cui era stata rinchiusa, entrò una signora anziana con un vassoio. La vecchia aveva raccolto i capelli grigi in due lunghe trecce che le pendevano sul seno prosperoso. Indossava una gonna larga e rossa, un grembiule a fiori allacciato in vita e ai piedi un paio di babbucce.
«Jest moją specjalnością», disse la vecchia e poggiò il vassoio per terra, accanto a Honey. «Nazywa Żurek».
Suo padre non le aveva mai insegnato il polacco, perciò Honey nemmeno ci pensò a chiedere aiuto alla vecchia. E poi non era così stupida, la vecchia faceva parte del nemico, esattamente come i due uomini che l’avevano rapita. La ciotola sul vassoio conteneva una minestra fumante, nella quale galleggiava un uovo sodo. Honey si limitò a spingere via il vassoio col piede. La smorfia di disapprovazione della vecchia era tale da formare tante rughette intorno alla sua bocca.
«Jeść zupę, aż będzie gorąca».
«Non ho fame».
Potevano rapirla, potevano spaventarla a morte, potevano rinchiuderla in un magazzino, ma non potevano costringerla a mangiare. Chi le assicurava che la minestra non fosse drogata?
Honey prese la ciotola, si alzò in piedi e guardando la vecchia dritto negli occhi, rovesciò la minestra sul pavimento. L’uovo sodo si spappolò sul linoleum e la minestra schizzò sulle babbucce e sull’orlo della gonna della vecchia. Che adesso fissava Honey come se avesse voglia di strangolarla.
«Głupia dziewczyna vizziata!».
Lo scappellotto sulla nuca arrivò inaspettato e velocissimo.
«Ahia, maledetta strega!».
«W Afryce dzieci głodują, nie wstyd ci?», sbraitò la vecchia.
«È inutile che continui a parlare, tanto non capisco un cazzo di polacco!».
Ma la vecchia stava già andando via, strascicando le babbucce. Chiuse la porta a chiave, lasciando Honey di nuovo sola, alla luce traballante di un neon.
Tornò a sedersi sul pavimento, massaggiandosi la nuca.
Durante il tragitto in auto era stata bendata, perciò non aveva visto dove era stata portata. L’avevano rinchiusa in una specie di magazzino, senza finestre. C’erano vestiti ovunque, ammassati in pile altissime contro le pareti e sugli scaffali. Un negozio di vestiti, forse? Honey aveva frugato in lungo e in largo e sparpagliato vestiti sul pavimento, sperando di trovare una finestra dietro le pile di abiti. Ma niente, nada.
La gambe avevano smesso di tremare da un pezzo, ormai.
Se le davano da mangiare (cibo drogato probabilmente, ma pur sempre cibo), voleva dire che non avevano intenzione di ammazzarla. Non subito, almeno. JD le aveva parlato di una guerra tra bande. Era chiaro, i Polacchi volevano usarla come leva per espandersi nel territorio dei Coyote. E magari spillare soldi a suo zio Carlisle, già che c’erano. Cazzo, cazzo, cazzo! Quanto era stata cretina a tornare al negozio? Perché non ne combinava mai una giusta? Per di più era preoccupatissima per JD.
Si prese il viso tra le mani e ricacciò indietro le lacrime.
Ha solo perso i sensi, il colpo alla testa è stato fortissimo, non è morto, sta bene, non ti preoccupare, pensa solo a un modo per uscire da qui. Potrai disperarti e chiedere scusa quando sarai a casa.
La porta si aprì, lasciando entrare il tizio che sogghignava sempre. Honey aveva scoperto che si chiamava Stanlio. Un soprannome azzeccatissimo, vista la sua corporatura alta e allampanata.
«La vecchia Anelia ha detto che non hai gradito lo Zurek. Era molto offesa, nessuno rifiuta mai il suo Zurek».
Honey irrigidì la schiena e sostenne lo sguardo divertito di Stanlio.
«Non avevo fame».
«Ollio, hai visto che disordine, qui dentro? Abiti sparsi per terra, minestre rovesciate… non si può dire che ti sia annoiata in nostra assenza, vero, piccolina?».
Dietro di lui comparve Ollio, il tizio basso, massiccio e muto, che passò il mocio sul pavimento per ripulirlo dallo Zurek. Honey non lo perdeva di vista, mentre si massaggiava il polso destro.
«Per quanto tempo ancora avete intenzione di tenermi prigioniera?».
Stanlio sorrise.
«Piccolina, non so se te ne sei accorta, ma sei un ostaggio. E gli ostaggi non hanno il diritto di fare domande stupide. Non dovrebbero fare domande in generale, a essere precisi».
«Non me ne frega un cazzo se posso o non posso!».
Ridacchiando, Stanlio si inginocchiò di fronte a lei. Honey strisciò automaticamente indietro, fin quando non trovò la parete a sbarrarle la ritirata. Stupida, lo provochi anche? Non hai ancora imparato la lezione?
«Non avere paura, piccolina. Voglio solo raccontarti una storia», disse Stanlio. «Una storia con una morale. Ollio la conosce meglio di me, ma lui, come penso tu abbia già capito, non può raccontarla. Così dovrai accontentarti della mia versione».
Ollio era in piedi, dietro a Stanlio, appoggiato al bastone del mocio, e non batteva ciglio.
«Anche lui la pensava come te, sai? Riguardo alle domande stupide, intendo». Stanlio allungò una mano e il cuore di Honey fece una capriola, ma lui si limitò a sistemarle una ciocca dietro l’orecchio. «Un giorno il nostro capo gli assegna un compito. Ollio non è mai stato un pozzo di intelligenza, così chiede delucidazioni, vorrebbe chiarite un paio di cosette. Il nostro capo gli dice di obbedire e basta, non è compito suo fare domande. Ma Ollio è cocciuto, così insiste. E lo sai cosa fa, allora, il nostro capo?».
Una musichetta elettronica lo interruppe all’improvviso. Ollio gli porse un cellulare che squillava con insistenza.
«Pronto?», rispose Stanlio con espressione annoiata. «Sì. D’accordo, sì. Perfetto. Troppo buono, capo. È stata solo un’intuizione, lo sai che per me la banda viene prima di tutto. Okay, a dopo».
Stanlio restituì il cellulare a Ollio, che lo ficcò nella tasca posteriore dei jeans, e tornò a concentrarsi su Honey.
«Scusa l’interruzione, piccolina. Dunque, ero arrivato alla mia parte preferita. Il nostro capo è parecchio contrariato, così ordina a due dei suoi uomini, di quelli che non fanno mai domande, che obbediscono e basta, di tenere fermo Ollio. Poi prende un coltello…». La lama a serramanico apparve davanti al naso di Honey, che si appiattì il più possibile contro la parete. «Costringe Ollio ad aprire la bocca, gli solleva la lingua con la lama, presente come si fa con le ostriche? E poi… ZAC!».
Honey sussultò.
«Da quel giorno Ollio non fa più domande stupide. Obbedisce e basta. Morale della favola?». La lama ghiacciata del coltello contro la sua guancia le fece arricciare la pelle sulla nuca. «Il mio nuovo capo è molto soddisfatto dell’idea che ho avuto, ma mi ha raccomandato di non farti del male. Però io sono un tipo impulsivo, lui lo sa. Perciò se dovessi perdere le staffe per colpa della tua lingua lunga e decidere di accorciartela un po’, quella lingua, non credo che me ne farebbe una colpa». Stanlio le diede un buffetto sulla testa e si alzò. «Adesso dimmi, piccolina, hai ancora voglia di fare domande stupide?».
Il viso sorridente di Stanlio tremolava come un miraggio dietro le lacrime.
«Solo una», balbettò Honey, deglutendo a vuoto.
Stanlio allargò le braccia.
«Spara!».
«Posso andare in bagno?».
Stanlio scoppiò a ridere.
«Certamente! Ollio, accompagnala tu. Non vorrei mai che la nostra piccola ospite se la facesse addosso».



Nei momenti di stress, Wile si sedeva sul suo sgabello, al Coyote Club, cominciava a fumare e non finiva finché non vedeva il fondo del pacchetto di sigarette. Spiccicava parola solo per chiedere in prestito un’altra sigaretta, se riteneva di non essere ancora soddisfatto. Chi pratica lo zoppo impara a zoppicare, diceva suo padre. E probabilmente non aveva torto, dato che adesso, mentre Halona e Shiriki litigavano, JD se ne stava seduto accanto allo sgabello di Wile a fumare in silenzio.
«Non possiamo lasciare Voce D’Aquila in balia dei Polacchi, è solo una bambina ed è stata rapita per colpa nostra».
«Come siamo eroici, oggi! Saresti altrettanto ben disposto, se la bambina in questione non avesse un paio di grosse tette da palpare?».
«Amore mio, così mi offendi! Lo sai che preferisco un bel culo a un paio di grosse tette».
«Amore mio, un paio di palle! L’hanno rapita per ricattarci. Be’, non ho intenzione di lasciarmi fottere il territorio per colpa di una mocciosa di cui conosco a mala pena il nome. Ci penseranno suo padre e suo zio a tirarla fuori dalla merda. Ah, a proposito, JD. Grazie per avermi avvertito che ti scopavi la figlia di un ex-Polacco e la nipote del Cardinale, eh? Fa piacere sapere che hai sempre a cuore le sorti della nostra banda!».
JD si limitò a soffiarle il fumo in faccia. Halona tossì e disperse la nuvola agitando la mano. Stava giocando col fuoco, lui lo sapeva, ma in quel momento non gliene fotteva un cazzo. Non c’era una parte del suo corpo che non gli facesse male, eppure quel dolore era niente in confronto al nodo che gli aggrovigliava le viscere e al cappio al collo che gli mozzava il respiro.
«Non dici niente? Parla, cazzo!».
JD scivolò giù dallo sgabello e si avviò verso l’uscita.
«E adesso dove diavolo pensi di andare? Non abbiamo ancora finito, qui!».
«A me pare di sì, invece. Non posso costringervi ad aiutarmi. Vado al Goldfinger, forse lì potrò rendermi utile».
Halona lo trattenne per un braccio.
«Vorresti tradire i Coyote per passare dalla parte del Cardinale?».
Si divincolò con una calma glaciale dalla presa di Halona.
«Mettiamo in chiaro una cosa. Io non faccio parte della tua banda. Del resto, sei stata proprio tu a ripetermelo giorno e notte, giusto? Sono solo la mascotte. Non passo dalla parte di nessuno. Rimango dalla mia, di parte. Dalla mia e da quella di Honey».
«JD, non sei il solo ad esserci andato di mezzo. Hai dimenticato perché mi sono fatta tatuare la fascia nera sul braccio? Ho giurato sulla tomba di Cagnaccio che l’avrei fatta pagare cara, a quei maiali. L’attacco al negozio di Wile è solo uno dei tanti conti in sospeso che non vedo l’ora di saldare. Se sapessimo dove tengono la ragazzina, in modo da tirarla fuori da lì e poter dare loro quello che si meritano, sarei la prima a buttarmi nella mischia. Ma così…».
«Non devi giustificarti, Halona».
JD le voltò le spalle e fece per imboccare l’uscita, quando il suo cellulare squillò. Una volta sola. Un messaggio. Forse è Darla che aspetta in auto (Halona le aveva proibito di entrare al Coyote Club), pensò, mentre posava lo sguardo sul display retro-illuminato.
Rinchiusa magazzino, pile abiti ovunque. Forse negozio vestiti. No rispondere. Rosaspina.
Lo stupore lo paralizzò per un istante lungo quanto un secolo.
Quindi io potrei farmi chiamare Rosaspina! Che è sempre meglio di Honey. Non perdonerò mai mio padre per avermi condannata a un nome così stupido.
Il cappio al collo si era allentato appena appena. JD chiuse gli occhi e per la prima volta da quando era rinvenuto nel suo negozio, respirò a pieni polmoni. Sta bene, si disse. Ha trovato un modo per contattarmi, deve stare bene per forza. JD tornò sui suoi passi volando. Halona e Shiriki nel frattempo avevano ripreso a battibeccare.
«Stammi a sentire, Shiriki, se non… e tu che cazzo vuoi ancora? Fuori dalle palle!».
«Che tu sappia i Polacchi possiedono un negozio di vestiti?».
Halona inarcò un sopracciglio.
«No, perché?».
JD le passò il cellulare. Lei lesse il messaggio e sgranò gli occhi.
«Come fai a sapere che è veramente lei e non una trappola?».
«Il soprannome con cui si è firmata. Lo conosco soltanto io. Adesso abbiamo un piccolo indizio. Com’è che avevi detto, poco fa? La prima a buttarti nella mischia?».
Halona passò il cellulare a Shiriki e sbuffò.
«Non ci aiuta molto. Il capo dei Polacchi ci ha dato appuntamento a mezzanotte, al vecchio cantiere abbandonato della Pentex&Co. Non abbiamo il tempo di assaltare ogni singolo negozio di vestiti di Little Poland. Certo, se conoscessimo qualcuno che ha o ha avuto a che fare con la loro banda, forse…».
Shiriki riconsegnò il cellulare a JD, fissandolo dritto negli occhi.
«Be’, qualcuno che risponde a questo identikit JD lo conosce, se non sbaglio».
Halona spostò lo sguardo alternativamente da Shiriki a JD, fin quando la comprensione non le illuminò gli occhi.
«No, non se ne parla. Scordatevelo, con quel pazzo non voglio averci a che fare. È escluso!».
«Quel pazzo e suo cognato sono la nostra unica chance, Halona. Dobbiamo mettere da parte i nostri pregiudizi per avere la meglio sui Polacchi».
«Shiriki, quasi quasi ti preferisco quando ti comporti da vecchio porco».



Messaggio inviato.
Seduta sulla tazza di quello che assomigliava più a uno sgabuzzino che a un cesso, Honey si trattenne dall’esultare. Aspetta a cantare vittoria, non è ancora finita. Il difficile non era prendere, il difficile era rimette a posto senza farsi scoprire. Durante la segregazione in casa si era allenata molto a sfilare il cellulare dalla tasca di suo padre per chiamare JD di nascosto.
Cancellò il messaggio, tirò lo sciacquone, nascose il cellulare nella manica del chiodo di pelle, prese un bel respiro profondo e spalancò la porta del cesso. Ollio era appoggiato alla parete a braccia conserte.
«Ho finito», annunciò, facendo finta di massaggiarsi il polso destro. In realtà stava tenendo fermo il cellulare, per evitare che cadesse per terra.
Come sempre, Ollio non spiccicò parola. Si limitò a farle strada lungo lo stretto corridoio. Giunti davanti all'entrata della sua cella-magazzino, lui spalancò la porta e si fece da parte per permetterle di entrare. La soglia era leggermente rialzata rispetto al pavimento del corridoio e formava una piccola sporgenza.
Sia benedetto l’operario incompetente che ha costruito questo posto!
Fece finta di inciampare, come già aveva fatto all’andata, e si spalmò su Ollio per non cadere.
«Oh, cavolo! Che sbadata, ci sono cascata di nuovo!».
Il cellulare era scivolato nella tasca con successo e Ollio, intento a fissarle le tette, non si era accorto di nulla. Honey fece per allontanarsi, ma si sentì trattenere. Ollio le aveva passato un braccio intorno alla vita e, a giudicare dal suo sguardo, sembrava avere intenzioni molto precise.
«Lasciami. Lasciami subito!».
Le era uscita fuori una vocetta stridula, patetica. Forse era colpa del fiato che improvvisamente era venuto a mancare. O del cuore, che stava cercando di sfondare la cassa toracica.
«Co robisz, synu łajdaka!».
Una babbuccia volante colpì Ollio sulla testa, mancando di poco la faccia di Honey. Ollio allentò la presa con sguardo sorpreso, e lei ne approfittò per mettere le dovute distanze tra di loro. Nel frattempo, Ollio stava aprendo e chiudendo la bocca, come un pesce che boccheggia. Dalla sua espressione, Honey capì che stava inveendo. Contro la vecchia dello Zurek, per la precisione. Che invece non sembrava molto impressionata.
«Wrzask jest inutie. To miejsce nie jest burdel!», ribatté la vecchia, coi pugni puntellati sui fianchi larghi.
«Insomma, cos'è tutto questo trambusto?».
Stanlio apparve alle spalle della vecchia, col sorriso sulle labbra.
Ollio e la vecchia gli risposero contemporaneamente: il primo agitando il pugno e imprecando in silenzio; la seconda sbraitando in polacco.
«Calma, calma, calma. Non c’è bisogno di innervosirsi tanto. Ollio, Aniela ha ragione. Ti capisco, la piccolina ha un corpo niente male. Se avessi potuto, le avrei già dato una bottarella, anche più di una, e dopo ti avrei ceduto il posto. Ma non è questo il luogo per certe cose. Senza contare che il capo è stato molto chiaro. E tu non hai più una lingua da farti tranciare. Non so se mi spiego».
Ollio abbassò il pugno e sbuffò.
«Bravo». Stanlio si rivolse a Honey, sospirando. «Certo che voi donne siete un’inesauribile fonte di guai per noi uomini! Entra dentro, piccolina. Meno Ollio ti vede, meglio è».
Col cuore in gola, Honey non se lo fece ripetere due volte.



«Cerca di ragionare! Non puoi andare da solo, non sai nemmeno dove la tengono. Finirai solo col farti ammazzare!».
Carlisle aveva due casseforti, nel suo ufficio: in una teneva i contanti, nell’altra le armi. Ed era proprio quest’ultima che Zachariasz stava saccheggiando, riempendo col suo contenuto un borsone da palestra. Gli sarebbe tornato utile un fucile a canne mozze? Be’, nel dubbio…
«Zachariasz, mi stai ascoltando?».
Chiuse il borsone con un gesto secco e se lo caricò sulla spalla.
«Tu cosa proponi? Andare all’appuntamento? A mezzanotte, in un cantiere abbandonato. Questo sì che è un bel modo per farsi ammazzare! E anche se i Polacchi si attenessero ai patti, cosa vorresti fare?».
«Pagare tutti i soldi che mi chiedono, ovvio».
«Quelli vogliono il monopolio della droga. E magari anche il tuo locale».
Carlisle sbatté il pugno sulla scrivania.
«Glieli darò entrambi, allora! Si tratta di mia nipote, cazzo. Credi che tu sia l’unico a tenere a lei?».
«No, non lo credo affatto. E non lo credono nemmeno loro. Per questo l’hanno presa. E per questo devo andare da solo».
«Forse c’è un’altra soluzione».
Carlisle e Zachariasz si voltarono e strabuzzarono gli occhi quasi contemporaneamente. Il porco tatuatore era appena entrato nell’ufficio, con la stessa nonchalance con cui si varca la soglia di casa propria. Il primo impulso fu spaccargli la faccia con un manrovescio, sfortunatamente Carlisle reagì più velocemente.
«E a te chi cazzo ti ha fatto entrare?».
Benedetta comparve alle spalle del tatuatore. «Io».
Carlisle inarcò un sopracciglio.
«Tu quoque, Brute, fili mi!».
Lei fece spallucce.
«Dice di avere notizie di Honey».
Il borsone con le armi cadde per terra con un tonfo metallico, facendo sobbalzare tutti quanti.
«Hai la mia attenzione, tatuatore», disse Zachariasz.
«Honey è riuscita a mandarmi un messaggio. Non so come, ma c’è riuscita». Si avvicinò alla scrivania e gli porse il cellulare. «E… per la cronaca, mi chiamo JD».
Zachariasz lesse velocemente il messaggio.
«Rosaspina?».
«È… una cosa nostra, per questo non ho dubbi che sia stata lei a scrivere il messaggio. Ha idea di quale posto possa trattarsi?».
Zachariasz fissò il tatuatore (oh, al diavolo, JD!) attentamente. L’unica parte del corpo non tatuata era la faccia, ma i lividi e gli occhi gonfi ovviavano a quella mancanza. Zachariasz aveva una certa esperienza in fatto di ferite e contusioni. JD doveva provare un male fottuto, anche solo quando respirava, eppure se ne stava lì, in piedi davanti a un assassino e a un trafficante di droga, che per quanto ne sapeva lui avrebbero potuto volerlo morto, con una calma e una tranquillità che non erano normali. Aveva l’aria di uno che le prende senza implorare, vendendo cara la pelle. E uno così, di solito, se (anzi, non appena) ne ha l’occasione, restituisce indietro con gli interessi. A Zachariasz bruciava molto che Honey si fosse rivolta a JD e non a lui, ma non poteva negare che adesso cominciava a intuire cosa sua figlia avesse visto in JD. In ogni caso, non era quello il momento di fare il padre geloso.
«Il negozio di vestiti non mi dice nulla», disse infine.
«Una sartoria?», ipotizzò Carlisle, che nel frattempo aveva anche lui letto il messaggio.
Zachariasz scosse la testa. «Mai sentito niente del genere. Forse…». Sbarrò gli occhi. Come aveva fatto a non pensarci subito? «Il lava secco! La vecchia Anelia ha un lava secco a Greenpoint, con un magazzino in cui tiene tutti i vestiti da lavare! E Anelia è la madre di Ollio».
«Be’, finalmente un punto di partenza!».
A parlare era stata la vecchia del negozio, quella che lo aveva minacciato col coltello. Da dove era spuntata fuori? Zachariasz sbuffò e fulminò JD con un’occhiataccia.
«Dovevi proprio portartela dietro?».
«Poche storie, Polacco», abbaiò la vecchia. «Ti assicuro che l’antipatia è reciproca».
Carlisle stava assistendo alla scena con espressione perplessa, ma quando i suoi occhi si posarono sul coyote sulla spalla della vecchia, imprecò a mezza bocca. Assottigliò lo sguardo in direzione di Benedetta.
«Mi spieghi che ti pago a fare?».
Lei fece di nuovo spallucce.
«Non mi paghi abbastanza per mettermi contro una Coyote».
«Cardinale, io non ti piaccio, ma neanche tu piaci a me», disse la vecchia, appoggiandosi a palmi aperti sulla scrivania di Carlisle. «I Coyote non amano gli spacciatori, anche quelli che si limitano a trafficare nel loro locale. Però oltre alla reciproca antipatia, adesso abbiamo un’altra cosa in comune: conti in sospeso con i Polacchi».
«Qual è la tua proposta?», chiese Carlisle.
«So che siete preoccupati per la ragazzina e che vorreste correre a salvarla subito, ora che sapete dove si trova. Be’, ti chiedo di aspettare fino alla mezzanotte. Approfittiamo di questa occasione per rimettere in riga i Polacchi».
L’espressione di Carlisle era pensierosa. Non stava davvero prendendo in considerazione la proposta, vero?
«Carlisle, è di mia figlia che stiamo parlando, non la lascerò in balia di quei due pezzi di merda un minuto di più», disse Zachariasz.
«Sono d’accordo con lui», si intromise JD. «È troppo rischioso».
La vecchia scosse la testa.
«La ragazzina è la chiave per estorcerci quello che vogliono, non le faranno del male, almeno fino a quando non lo avranno ottenuto. Pensaci, Cardinale. Se adesso tu andassi a salvare la ragazzina, cosa avresti risolto? Domani, o tra una settimana, i Polacchi ne combinerebbero un’altra. La prossima volta qualcuno dei tuoi potrebbe venire accoppato. A me è già successo, e credimi, anche se non mi stai simpatico, non te lo auguro».
Carlisle guardò Zachariasz, nel suo sguardo una muta domanda.
«No, non chiedermelo. Fino a un momento fa avresti dato tutto, pur di salvarla».
«Perché ero convinto che non avessimo altre alternative. Adesso un’altra alternativa ce l’abbiamo, insieme ai rinforzi che ci servono. Tu li conosci meglio di chiunque altro, Zachariasz. Lo sai che non si daranno mai per vinti. Non saremo al sicuro, finché non avremo dato loro una lezione. Tu non sei onnisciente e onnipresente, come farai a proteggere ventiquattro ore su ventiquattro Isa e Honey? Ricordi? Non puoi murarle in casa a vita, nemmeno per un buon motivo. Ha ragione Halona, dobbiamo sfruttare l’occasione».
Honey, perdonami.
Zachariasz si limitò ad annuire.
Carlisle si rivolse a JD.
«Tu che dici, ragazzo?».
«Che potete andare tutti a ‘fanculo».
E uscì dall’ufficio senza voltarsi.
«Tutto suo nonno», disse la vecchia, sospirando. Poi allungò una mano verso Carlisle. «Allora, che ne dici? Sotterriamo l’ascia di guerra, almeno momentaneamente?».
Appoggiandosi al bastone, Carlisle si alzò in piedi e strinse la mano della vecchia. Le sue labbra erano distese nel solito ghigno da squalo.
«Però del capo dei Polacchi me ne occupo io».
«Mettiti in fila, cocco».



Cazzo, aveva finito le sigarette!
JD accartocciò il pacchetto vuoto nel pugno e sospirò. Mancavano ancora parecchie ore alla mezzanotte, i grandi capi avevano deciso e lui era solo una mascotte. Aveva perso il conto di quante sigarette aveva fumato da quando gli era stato comunicato il piano. Di questo passo avrebbe fatto la fine di Wile Coyote. Stava giusto considerando l’idea di smettere, quando una mano dalle unghie laccate di nero gli mise sotto al naso un pacchetto aperto di Marlboro. Accantonò immediatamente i buoni propositi e ne prese una.
«Grazie».
Darla prese posto accanto a lui. Il Goldfinger era deserto, quella sera. Il Cardinale l’aveva tenuto chiuso, per ovvie ragioni.
«Come va?».
«Alla grande!», rispose sarcastico.
Dopo il primo tiro, però, si sentì subito meglio.
«Qual è il piano, quindi?».
«Il Cardinale e Halona andranno all’appuntamento con i Polacchi. La buttafuori e uno dei due Mori al lava secco».
«E tu?».
«Sia io che Zachariasz volevamo andare con la buttafuori, ma ci hanno fatto notare che la nostra assenza all’appuntamento potrebbe insospettire i Polacchi. E poi, diciamocelo, in questo stato non sono nelle condizioni di salvare nessuno, mi sento come se mi avessero investito con un camion. Però…».
«…ti pesa non correre da lei subito». Darla abbozzò un sorriso. «È più forte di te, non è vero? Non puoi fare a meno di soccorrere le gatte randagie».
«Honey non è una gatta randagia».
«Io sì. E anche lei, in un certo senso». Darla si portò i capelli dietro l’orecchio e prese a giocherellare col piercing sul labbro, quello a forma di mano scheletrica. «Tu… sei sicuro di poter affrontare tutto questo?».
JD inarcò un sopracciglio.
«Ha importanza se posso o non posso?».
Lei fece spallucce.
«No, immagino di no. Solo, pensavo… che deve essere doppiamente difficile per te. Insomma, questa storia avrà riportato a galla vecchi ricordi, no?».
JD si tirò indietro i capelli. Lavoravano fianco a fianco da sette anni, ormai. Eppure la capacità di Darla di capirlo alla prima occhiata lo lasciava ancora di stucco.
«Mi sembra di rivivere tutto, ma in peggio. Con Juno… è successo tutto all’improvviso. Come se mi avessero mozzato una mano con un colpo d’accetta: un dolore intensissimo all’inizio, che si è affievolito con l’andare del tempo. Adesso, invece… è come se la mano me la stessero tagliando con una sega arrugginita. Quest’attesa è… un dolore atroce, infinito e continuo, non dà pace».
Darla posò la mano sul suo avambraccio, comprendo gli occhi gialli del gatto che si era tatuato appena qualche settimana fa.
«Andrà tutto bene».
Quando Darla diceva “Andrà tutto bene”, non lo diceva mai tanto per dire. Se lo diceva, significava che ci credeva veramente. E guardandola negli occhi, JD ne ebbe la conferma. Ne era convinta.
«Come fai a esserne così certa?».
«Perché quando ci sei di mezzo tu, JD, le cose vanno sempre bene. Per me è stato così».



Arrivare al Goldfinger e trovarlo chiuso era stato uno shock. Varcare la soglia e scoprire quello che era successo… be’, Marie Louise non era rimasta con le mani in mano. Aveva tenuto compagnia a Isa, la sorella del Cardinale. Non si erano mai incontrate prima di quel momento, ma Marie Louise era una mamma, capiva fin troppo bene cosa provava, perciò non c’era stato nessun imbarazzo. L’aveva presa per mano e portata in cucina, dove aveva chiesto a Liam se per piacere le preparava una tisana, di quelle per calmarsi. Non avevano parlato per niente, né tanto meno Marie Louise aveva cercato di riempire il silenzio con parole vuote, si era limitata a starle accanto, mentre Isa sorseggiava la sua tisana e fissava il vuoto con gli occhi gonfi.
La mezzanotte era ormai vicina, quando Zachariasz arrivò e Marie Louise li lasciò soli. Fuori dalla cucina, si imbatté nel Cardinale.
«Mia sorella è…».
«…lì dentro, con Zachariasz».
«Ah, okay. Allora aspetto. Volevo solo salutarla, prima di andare».
Per un po’ rimasero in silenzio, senza sapere cosa fare. L’imbarazzo li rendeva goffi e impacciati, come nuotare in una melma densa: ogni bracciata era una faticaccia. Sembrava passato un secolo da quando lui l’aveva accompagnata a casa e aveva scoperto dell’esistenza di Alex.
«Marie Louise, mi dispiace per ieri sera».
«Non è necessario che tu…».
«Invece sì! Ho frainteso le tue intenzioni, ho frainteso le tue parole e sono stato sgarbato nei tuoi confronti. Certo che ti devo delle scuse, è il minimo. Non faccio che vantarmi di quanto tratto bene le mie ragazze, come se ripeterlo in continuazione mi rendesse migliore ai…». Lasciò in sospeso la frase e serrò le dita intorno al pomo del suo bastone. «…agli occhi degli altri. Invece hai ragione tu, posso essere il pappone più gentile del mondo, ma sarò sempre un pappone. Tu devi pensare prima di tutto a tuo figlio. È giusto, lo capisco. Non hai idea quanto io lo capisca».
Marie Louise sorrise.
«Invece l’idea ce l’ho eccome, perché so quanto vuoi bene a Honey. E sì, sarai sempre un pappone, ma questo non significa che tu non sia anche qualcos’altro. Uno zio premuroso, ad esempio, e un brav’uomo».
Per un breve istante, Marie Louise lesse qualcosa negli occhi del Cardinale. Un barlume di gratitudine, come se lui non avesse aspettato altro in tutta la vita che sentirsi rivolgere quelle parole. Così, senza stare a pensare quanto poco coerente fosse quel gesto, si appoggiò alle sue spalle e gli diede un bacio. Sotto le sue mani, il Cardinale si irrigidì come un pezzo di legno. Le venne da ridere, ma si trattenne.
«Sta attento lì fuori, Cardinale. Torna a casa tutto intero».



Venti minuti alla mezzanotte.
José era alla quarta porzione da asporto di nachos e dal Goldfinger ancora nessun segno di vita. Benedetta gli aveva cortesemente suggerito di non ficcare il naso nei suoi affari, ma lui era uno sbirro e il naso negli affari degli altri ce lo ficcava per mestiere. Così quella sera aveva deciso di fare un salto al locale, giusto per dare un’occhiata in giro.
Peccato che lo avesse trovato inspiegabilmente chiuso.
Aveva fatto un giro intorno all’edificio e nel parcheggio, stando attento a non entrare nel raggio d’azione delle telecamere di sorveglianza. La Mercedes del Cardinale era al suo posto. Riconobbe anche l’auto di Benedetta, posteggiata tra altri quattro veicoli.
Qui gatta ci cova, aveva pensato.
Si era appostato con la sua auto, in modo da tenere d’occhio il parcheggio. E da allora non si era più mosso, se non per andare a pisciare o comprare roba da mettere sotto i denti. Non aveva prove che stesse succedendo qualcosa di grosso, solo indizi, ma quando le sue antenne da sbirro captavano segnali sospetti difficilmente si sbagliavano.
José prese due nachos e se li ficcò in bocca.
Provò a immaginare la reazione di Benedetta, se l’avesse trovato lì. Forse l’avrebbe malmenato un po’. Si ritrovò a massaggiare la mascella senza nemmeno rendersene conto, era capitato di continuo durante la giornata. Un po’ perché gli faceva ancora un male cane, un po’ perché il dolore riportava a galla quello che era successo. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto ripetere l’esperienza, ma sapeva già che non sarebbe successo. C’erano troppi però in mezzo.
Sarebbe bello. Però io sono uno sbirro. Però ho due figli piccoli. Però lei lavora per un presunto trafficante di droga. Però non sembra la tipa da romanzi rosa.
Be’, nemmeno tu, se è per questo.

Un rombo di motore interruppe le sue elucubrazioni.
La Mercedes del Cardinale era stata messa in moto, così come l’auto di Benedetta e una vecchia Ford. Si diede del coglione, per essersi lasciato distrarre come un pivello. Nel frattempo le tre auto erano uscite dal parcheggio: alla prima svolta imboccarono strade diverse.
E adesso? Chi cazzo seguiva? L’auto di Benedetta o la Mercedes del Cardinale e la Ford che le andava dietro?
Il José che si stava ancora massaggiando la mascella diceva Benedetta. Lo sbirro, invece, suggeriva il Cardinale. Accese l’auto a fari spenti, mentre si ficcava altri tre nachos in bocca, e uscì dal suo nascondiglio. ‘Fanculo, si disse.
Alla fine prevalse lo sbirro.



Il cantiere abbandonato della Pentex&Co. era un cimitero di carcasse arrugginite, scheletri di ferro, scavatrici assaltate dalle erbacce e pilastri in cemento armato che assomigliavano a tante lapidi messe in fila. I lavori erano stati bloccati quando JD era solo un marmocchio, a causa di qualche magagna giuridica di cui lui non si era mai veramente interessato, e da allora non erano più ripartiti. Di giorno il cantiere era il parco giochi degli Skaters e l’album da disegno dei Writers; di notte invece diventava il terreno neutrale sul quale bande rivali potevano fronteggiarsi indisturbate.
Avevano posteggiato le auto accanto alla gru più alta, il punto di riferimento per l’appuntamento. Il capo dei Polacchi aveva preteso che non si presentassero più di tre uomini per parte. Perciò Halona aveva portato con sé JD e Sam. Il Cardinale, invece, aveva preferito che il Moro di nome Liam restasse di guardia al Goldfinger, così si era fatto accompagnare solamente da Zachariasz. Ovviamente non erano così ingenui da credere che i Polacchi si sarebbero attenuti ai patti.
«Shiriki e gli altri sono già qui?», chiese JD smontando dall’auto.
Halona annuì, scrutando l’oscurità che inghiottiva i muri di cemento.
«Sì, sono appostati qui intorno, ci copriranno le spalle».
«Bene».
JD si sedette sul cofano della sua auto, con Gina poggiata sulle gambe. Zachariasz gli si avvicinò e gli porse una pistola.
«Prendi questa», gli disse. «Ti sarà molto più utile di quella».
JD scosse la testa e diede una pacca affettuosa a Gina.
«Grazie del pensiero, ma anche Gina ha un conto in sospeso con i Polacchi. Non mi sembra giusto negarle questo piacere».
Carlisle inarcò un sopracciglio.
«Hai dato un nome da donna a una mazza da baseball?».
Halona, intenta a caricare la pistola, sbuffò.
«È stato suo nonno, non lui. Ma fatemi un cazzo di favore, non chiedetegli di raccontarvi il perché. Non sono in vena, stasera».
«Tu non sei mai in vena», replicò JD.
La risposta piccata di Halona venne preceduta dallo stridere di pneumatici sul pietrisco. Il buio si solidificò in un SUV nero, tra due container, che si fermò a una decina di metri dalle loro auto. La portiera dal lato del guidatore si aprì, lasciando uscire Stanlio. Dall’altro lato smontò un tizio con una cicatrice sulla guancia, che JD non conosceva.
«Dove hai lasciato Ollio?».
Stanlio ghignò nella sua direzione.
«A tenere compagnia alla tua fidanzatina, JD. É uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo… non che a Ollio dispiaccia, anzi!».
JD serrò le dita intorno al manico di legno di Gina, ma Zachariasz poggiò una mano sulla sua spalla.
«Manteniamo la calma».
«Senti chi parla».
Intanto Stanlio era andato ad aprire la portiera posteriore. JD udì un piccolo tonfo, come se qualcuno fosse saltato giù dal SUV. Intravide solo due piedi. Piedi molto piccoli. E quando Stanlio chiuse la portiera, il capo dei Polacchi apparve dinnanzi a loro in tutta la sua imponenza.
«Buona sera, signori». Sorrise in direzione di Halona, che ricambiò con una smorfia. «E signore, ovviamente. Splendida notte per gli affari, non trovate? Zachariasz, è un piacere rivederti. Ti chiederei come sta la famiglia, ma… come dire?». Fece spallucce. «Ops!».
La faccia di Zachariasz era una maschera di cera. I suoi occhi due pozzi senza fondo.
«Ne hai fatto di strada dall’ultima volta che ci siamo visti, Trucizna».
«Sono un uomo ambizioso. Lo diceva anche il nostro vecchio capo, ricordi? “Sei ambizioso il doppio, perché sei alto la metà di un uomo normale”, diceva». Trucizna allargò le braccia, come per dire “eccomi qua”. «Non aveva torto, in fondo. Raramente ne aveva. Mi è dispiaciuto doverlo fare fuori. È il rovescio della medaglia di essere ambiziosi il doppio, suppongo».
Non poteva essere alto più di un metro. Camminava tra Stanlio e l'altro Polacco, che superavano entrambi il metro e ottanta, e faceva impressione. JD, però, non si lasciava ingannare dalle apparenze, i tatuaggi di Trucizna parlavano chiaro. Sulle sue braccia e sul collo erano state tatuate delle fasce rosse, come quelle di Zachariasz e Stanlio. Solo che Zachariasz e Stanlio ne avevano una per braccio e una sul collo. Le braccia di Trucizna erano piene, invece. E il collo era ormai completamente rosso.
«Cardinale, sono contento che anche tu abbia accettato il mio invito. Ti è piaciuto il mio sigaro cubano? Ne ho una scorta intera, a casa. Passa quando vuoi, te ne regalo dieci pacchetti, senza complimenti, dico sul serio!».
Il Cardinale dovette chinarsi per stringergli la mano. E si vedeva che la cosa non gli andava giù.
«Bene», esclamò in fine Trucizna, strofinandosi le mani come una mosca su un mucchio di letame caldo e fumante. «Bando alle ciance, cominciamo!».
Mentre i due capibanda e il Cardinale si riunivano intorno a una piantina della città, discutendo di confini e monopoli, JD si mantenne in disparte, insieme a Zachariasz.
«Trucizna… sembra un nome da donna».
«L’ultimo che ha detto una cosa del genere davanti a lui si è beccato una pallottola in fronte».
Il sopracciglio di JD ebbe un sussulto.
«Promettente. Ha un significato particolare?».
Zachariasz annuì, senza perdere di vista Trucizna.
«Veleno. Significa veleno. Perché il veleno più potente sta nella boccetta più piccola».







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Note autore:
Il polacco della vecchia Anelia viene dal traduttore automatico di google, purtroppo non conosco nessuno che parli il polacco. Se qualcuno tra di voi invece lo conosce e trova errori nelle frasi riportate (ce ne saranno di sicuro, non mi fido affatto del traduttore di google), non si faccia scrupoli a bacchettarmi e a mandarmi le frasi corrette. Ecco le traduzioni delle battute:
- Jest moją specjalnością […] Nazywa Żurek --> Questa è la mia specialità […] si chiama Żurek.
- Jeść zupę, aż będzie gorąca --> Mangia la zuppa, finché è calda.
- Głupia dziewczyna vizziata! --> Stupida ragazza viziata!
- W Afryce dzieci głodują, nie wstyd ci? --> In Africa i bambini muoiono di fame, non ti vergogni?
- Co robisz, synu łajdaka! --> Che stai facendo, mascalzone!
- Wrzask jest inutie. To miejsce nie jest burdel! --> Urlare è inutile. Questo posto non è un bordello!
Nient’altro da aggiungere.
Come sempre, un enorme grazie a tutti.
A lunedì!
   
 
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