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Autore: past_zonk    17/03/2014    2 recensioni
"Signor Holmes, la sua vita è una bugia."
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Quando Sherlock si volta a guardarlo, per vedere che espressione ha dipinta sul volto, è il terrore che gli si dispiega davanti.
Non c'è nulla.
Nulla, sul volto di John Watson. Un volto indistinto, come pixellato, un'immagine sfocata e spaventosa.
E, "John!" urla, perché non può sopportare che stia penetrando anche nel suo bozzolo felice, non può sopportare che dopo aver espugnato il suo Mind Palace stia passando anche a conquistare John, lui e John, Sherlock e John, quello che hanno. Non può sopportarlo, quindi chiude gli occhi e inizia a pregare. Non sa cosa, non sa come, non conosce nessuna preghiera, sono solo silenziosi susseguirsi di "John, John, John" e tanti, tanti respiri, più del normale, più del concesso.
Quando si risveglia da quest'incubo, è John che lo sta scuotendo, che cerca una scintilla di razionalità negli occhi di Sherlock, che lo abbraccia e gli dice che tutto va bene.
Per la prima volta, nonostante le braccia di John, Sherlock sente chiaramente che non va bene, no, che niente andrà bene, che non servirà a molto pregare.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehy ehy ehy! Eccomi tornata con il promesso spin-off di questa fanfic.
Innanzitutto volevo ringraziarvi, davvero di cuore, per il seguito fantastico che ha avuto la prima parte. Sono davvero felicissima ;_; miau! -- vi risponderò meglio privatamente, promise.
Un paio di precisazioni prima di andare col capitolo:
a) non ho mai visto Shutter Island, ma recupererò al più presto! Mi ha sorpreso vedere quante persone mi hanno detto che questa fanfic sembra ispirato ad esso, anche se effettivamente non lo era u_u *coffcoff-la-mia-mente-malata-coffcoff*
b) questa è la prima parte dello spin-off, ovvero quattro one-shot sulle vite nell'AU di questi personaggi secondari: Mycroft, Lestrade, Molly e Irene Adler. Dopo questa parte, ci sarà la terza e ultima parte, anche essa divisa in capitoli e credo abbastanza lunga, in cui riprenderò la vita di Sherlock, tornato ormai alla realtà dopo la riabilitazione, e il panettiere John Watson (mio dio, detta così sembra tanto la trama di un romanzetto d'amore Harmony, ngh, bleah).
Ok, direi anche di aver finito lo sproloquio! Grazie di tutto, alla prossima!
eveyzonk.

PS: Ho ascoltato Addicted to a certain lifestyle per scrivere questa piccola shot, mi piacerebbe che la ascoltaste mentre leggete, cliccate qui per il link alla canzone :)





Tredici Febbraio – parte due. Spin off: Ritratti di genere.
Capitolo uno di quattro. Mycroft Holmes.



I veri problemi erano iniziati quando si erano trasferiti a Londra, lui, Sherlock, e la mamma. Loro padre era morto da circa cinque mesi. Incidente sul lavoro; una stupida intossicazione dovuta ad una fuga di idrogeno solforato, in una dannata miniera che stava ispezionando. Mycroft era riuscito ad ottenere una cospicua somma di denaro come risarcimento, e così aveva deciso che cambiare aria avrebbe fatto bene alla famiglia. Ma, come spesso accade ai canarini, anche loro madre finì con l’ammalarsi di crepacuore.
Mycroft non poteva togliersi dalla testa che era stata colpa sua. Se si fosse impegnato di più nel rallegrare la sua amata madre, forse sarebbe rimasta ancorata, seppur con debolezza, alla vita terrena; forse sarebbe stato abbastanza da evitare il resto dei mali, o almeno da preservare ancora per un po’ Sherlock.
Mycroft amava sua madre: era riservata e reticente, proprio come lui; parlava solo se necessario e l’aveva cresciuto rendendolo un esempio di diplomazia ed efficienza. Amare non è un vantaggio, gli aveva insegnato fin da subito, ed era così che  s’era ritrovato ad essere la persona silenziosa e distaccata che era. Amava sua madre, più di ogni altra cosa, e amare non era mai, mai un vantaggio, per l’appunto.
Al destino piaceva giocare con gli Holmes, e Mycroft era il più debole di loro. Incapace di dimostrare affetto, con un’intelligenza ben superiore alla media, ma incapace di metterla a frutto. Mycroft era una persona abietta e inutile, o almeno così si sentiva.
Così, quando era morta sua madre, dopo otto mesi dal trasferimento, si ritrovava a dover accudire suo fratello minore e a doversi trovare un lavoro. I soldi sembravano sempre mancare, sempre, dopo l’acquisto della casa; vivevano in un appartamento piccolo e umido, dormivano nello stesso letto matrimoniale, e a tratti veniva loro tagliata la corrente; quelle sere erano le peggiori. Osservava Sherlock guardare il muro in silenzio, nella penombra rischiarata solo dalla luna, e si sentiva semplicemente male. Si sentiva in colpa, con un groviglio di malessere e dolore che pulsava alla base del suo stomaco, ma che non riusciva ad essere espresso in nessun caso, recintato da quel filo spinato di reticenza che da sempre lo proteggeva e lo distruggeva. Aveva 18 anni, un lavoro totalmente inutile per sfruttare la sua brillante intelligenza, e una relazione umiliante e noiosa con un uomo più grande di lui, Gary.
Umiliante, perché  Gary era sposato, e a Mycroft non piaceva affatto essere un sostituto, e noiosa, perché ormai si riduceva ad un paio di notti in hotel alla settimana, pagate da Gary, con il solito bicchiere di vino rosso ad aspettare Mycroft sul comodino; si sentiva più vecchio di quanto non fosse.
Quando si era deciso a non sforzarsi neanche più di fingere il piacere, i loro incontri erano diventati sempre più radi e, infine, nulli. Senza un addio, senza una parola di conforto. Era così che andava la vita da quelle parti. La gente si sentiva sola e si incontrava in motel. Mycroft aveva pensato di essere come ‘la gente’, di provare a fare quello che gli altri facevano, ma aveva scoperto che la cosa non faceva altro che intristirlo ancora di più. Sarebbe rimasto a casa a guardare Sherlock dormire, i sabato sera, da quel momento in avanti.
Mycroft Holmes sognava un lusso intoccabile. Sognava il potere e la forza di far storcere il naso alle persone più potenti del mondo con il suo solo nome. Voleva riecheggiasse solo nelle stanze più importanti, il suo nome, ma che non fosse conosciuto ai più. Un burattinaio di tutto. Mycroft voleva potere, tanto da poter, con uno schiocco delle dita, prendersela con chi aveva reso la sua vita un inferno. Che fosse stato il suo datore di lavoro, Gary, o la maestra di Sherlock che continuava a umiliare il suo adorato fratello. Che fosse stato Iddio o semplicemente nessuno.  Non voleva necessariamente farlo. Voleva la possibilità di poterlo fare.
Era una parola così bella, potere, premetteva una scelta, una decisione, qualcosa di volontario che veniva fatto solo perché lo si voleva e lo si poteva fare.
E tutto ciò che Mycroft non aveva mai avuto, si racchiudeva entro i limiti della parola scelta e finiva lì. Non aveva chiesto lui quella situazione, e la rimpiangeva.
Non ricordava precisamente come fosse entrato in quel giro malavitoso, ma gli pareva che tutto fosse iniziato con piccole azioni. Ricattare il suo capo con brillanti deduzioni, ottenere aumenti e bearsi della sua intelligenza, spiare conversazioni telefoniche, mettersi in contatto con magnati e ricattarli di denunciare le loro furbizie burocratiche. Era iniziato tutto per noia, e all’inizio si sentiva addirittura dal lato della giustizia. Ma ben presto, come succedeva a coloro che erano destinati ad una mente brillante, iniziò ad annoiarsi. Era riuscito persino a comprare un computer a Sherlock, per Natale, il che aveva reso il suo silenzioso fratello felice, se così si poteva definire il breve attimo di attività nei suoi occhi solitamente opachi. Sherlock aveva iniziato a scrivere, e non faceva altro; non parlava e a scuola non interagiva con nessuno. Mycroft pensava non avesse nessun problema, dopotutto era nel dna degli Holmes essere cupi e riservati, e così aveva ignorato i moniti delle sue insegnanti. Aveva continuato, invece, a crearsi un nome. Era arrivato persino a tenere in pugno i segreti di tre importanti multinazionali, e il suo nome cominciava a farsi spazio nel giro. Si licenziò da lavoro che era Marzo.
Ad Aprile fu contattato da un’organizzazione criminale che gestiva, per usare un eufemismo, gli introiti delle aziende più note; una sorta di mafia tutta inglese, in frack e bombetta. Era esattamente il suo posto. Gli ci volle più o meno un anno per prendere il controllo di suddetta organizzazione. Il suo nome aveva ormai la potenza che un tempo bramava, i potenti lo contattavano e organizzavano cene con lui per discutere di politica, quasi fosse uno di loro, e poteva ormai dire di avere un certo potere decisionale nelle questioni di Stato. Incredibile come il saper dedurre desse le redini del ricatto, come lo Stato fosse in realtà un organismo debole, disorganizzato. Una parola di Mycroft aveva il potere di far crollare imperi finanziari e personalità potenti, e tutto perché sapeva i segreti di chi sguazzava in quell’ambiente, sapeva chi andava a letto con chi e dove venivano presi dati fondi. Mycroft scavava e scavava nelle vite altrui, era un uomo invisibile, senza alcuna storia personale, se non il passato malinconico di sua madre, e i silenzi a cui Sherlock lo sottoponeva da ormai tre anni. Non sapeva se la sua vita fosse bella o frustrante, non sapeva niente, o forse sarebbe stato meglio dire che non provava niente. Si alzava al mattino e faceva colazione con la solita marca di fette biscottate integrali, aveva soldi ma non li spendeva, se non per Sherlock. Non ristrutturava l’appartamento da anni. Non aveva un ruolo ben preciso, nella sua esistenza, se non quello di mettere a rischio la tranquillità degli altri.
Un giorno come gli altri, però, si ritrovò una squadra di polizia in casa. Non avevano un mandato con motivi ben precisi per arrestarlo, lo sapeva; ogni scusa sarebbe stata buona al momento per allontanarlo dai giochi. Come se dal carcere non avesse il potere di minacciare con ricatti. Come se le informazioni accantonate negli anni non persistessero nella sua mente. Mycroft non sapeva come cancellarle, e così viveva all’ombra dei fatti altrui. In questo, era sicuramente più vicino a Sherlock di quanto sapesse d’esserlo.
Quando lo portarono via ammanettato, Sherlock continuava a fissare il soffitto della sua stanza, inerme, cerebralmente morto come era sempre stato, e come Mycroft voleva volutamente ignorare. Non voleva saperlo. Non voleva ammetterlo. Forse anche quella era una forma d’amore, a modo suo. Lasciarlo nel suo universo felice invece che offrirgli quella vita per lui troppo bassa e statica.
 L’ultima cosa che sentì, e l’unica per la quale cercò di dibattersi, furono le parole di una psicologa, probabilmente sulla trentina, che cercava di parlare al ragazzo in catalessi.
“Non ha nulla di sbagliato! Lui è un Holmes! Smettila! Smettila, ti ho detto! Non ha niente che non vada! Non capite, non capite!”
E il volto di Sherlock.
Passivo, spento, pallido, infelice, vacuo e vuoto come nient’altro.
Mycroft sentì il suo dolore dibattersi, ancora una volta, nella sua impossibilità d’esprimersi.
Amare non era mai un vantaggio.




 
   
 
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