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Autore: Ita rb    19/03/2014    0 recensioni
Questa raccolta parla di episodi singolari, caratterizzati da personalità distinte e legate fra loro dal mondo in cui vivono. Dottori e studiosi hanno dato un nome a questi individui, li hanno raggruppati in caste diverse e sottofamiglie, ma la realtà è che ognuno di essi è un singolo a sé stante: una mente propria e forse contorta.
Diversi studi specialistici, diversi giovani e diverse identità.
Genere: Angst, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note: Salve a tutti, eccomi di ritorno con una strana idea da portare avanti!
Giusto qualche giorno fa ho visto per la prima volta un film che avevo nel cassetto da un po’ di tempo, Ragazze interrotte, e lo cito a proposito della raccolta che ho voluto creare. Vedendolo, infatti, mi è venuta in mente qualche mia piccola conversazione specialistica (?) e da lì è nata l’idea di fare una vera e propria raccolta con diverse persone, diverse patologie e così via.
È solo l’inizio, ma posso dire che queste OS sono in realtà la base di un’idea più grande, uno studio dall’interno per quelle personalità che in futuro vorrei utilizzare in una long vera e propria – perché tutti loro sono strettamente connessi e perfino la ragazza di questo primo capitolo, seppur non nominata. Non preoccupatevi, quindi, se non leggerete il nome di alcuni, perché di certo lo troverete in uno degli altri capitoli.
Spero che l’idea possa interessarvi, è la prima volta che provo a scrivere qualcosa del genere ~
 
 
Disturbo da depersonalizzazione

Esserci senza capire bene il perché: è questo il mio problema, credo.
Suppongo di aver dato molti spunti di riflessione alla Signora Davis, o per lo meno è quella l’impressione che mi ha dato il suo frenetico scribacchiare quando, ancora una volta, sono caduta nel marasma dei miei pensieri fino a perdere la cognizione del tempo per sproloquiare sull’assurdo – oh, è quello che mi riesce meglio, dopo tutto: parlare di tutto e di niente fino a diventare a mia volta quella piccola porzione di paradosso.
Una volta, guardandomi dritta negli occhi, mi disse: «Cosa intende con quella frase?»
Ero abbastanza perplessa a quella domanda, perché in effetti avevo sempre pensato che capitasse a tutti almeno una volta nella vita; eppure dovevo sbagliarmi, anche perché era quello che suggerivano i suoi occhi verdini e attenti: nuovamente, come volevasi dimostrare, avevo detto qualche fandonia – e lo era, almeno per le sue orecchie.
«Sentirmi fuori dalla mia pelle?» Le chiesi a mia volta, corrucciando appena le sopracciglia nel dubbio di aver udito male, ma ciò che mi arrivò in tutta risposta fu un semplice mugolio affermativo, seguito dall’annuire deciso della sua testa riccioluta e biondiccia. «Non conosce questa sensazione?»
«Dipende dal modo in cui la intende.»
Erano quelle le frasi che meno tolleravo all’epoca, quelle piene di un significato distorto che aveva tutta l’aria di un rimprovero, perché era come se il suo sguardo volesse suggerirmi di aver usato le parole sbagliate per esprimere un concetto; malgrado tutto, però, era mio e io non ne avevo altre a portata di mano – anzi, si poteva giustappunto dire che fossero quelle che per lungo tempo avevo cercato e studiato tra me e me per presentarle al meglio a un ipotetico ascoltatore che fosse o meno la Signora Davis.
«Essere fuori dalla mia pelle significa tutto e niente e in effetti non saprei spiegarlo in modo diverso da questo: è come se osservassi il mondo attraverso un vetro sottile ma infrangibile, una barriera insormontabile che per quanto possa essere vicina, allo stesso tempo resta ugualmente lontana…» dissi, umettandomi poi le labbra e tornando a cercare dei concetti più terra-terra per renderli comprensibili a chi non capiva il basilare concetto di essere fuori dalla propria pelle. «Ha presente quella sensazione estranea che coglie l’essere umano al centro del petto, che lo distoglie dalla vita che sta conducendo e addirittura dalle parole che fluiscono via dalle sue labbra o dai gesti che compie? Parlo di quella percezione che non ha nome, di quella stessa sensazione che conosco bene e che ho definito con quelle parole per renderla più comprensibile: in sostanza io osservo dagli occhi di una persona che per qualche istante non sono, così né i pensieri, né le azioni di quel corpo sanno appartenermi.»
«Capisco», aggiunse lei a quel punto, ma la verità era diversa da quella che si ostinava a condividere con me: non capiva davvero e perfino il cipiglio della sua fronte lo dimostrava ampiamente.
Pensava di poter fingere, eppure non ci riusciva, continuava solo ad annotarsi qualcosa e lo scorrere frenetico della sfera tinta d’inchiostro mi dava quasi la nausea – mi faceva girare la testa, in effetti.
«La conosce questa sensazione?»
«Non molti la conoscono», rispose tranquillamente, agitando la mano che stringeva la biro blu come se nulla fosse.
«Ma lei la conosce?»
«Personalmente no», ammise, tornando a guardarmi negli occhi per comprendere da dove provenisse tanta insistenza; eppure avrebbe dovuto capirlo da sola nel ricordare il nostro primo incontro, quando faccia a faccia avevo posto una piccola sfida tra noi due: vincere o perdere.
Riassunta così sembrerebbe un po’ buffa, in effetti, ma in realtà conteneva un concetto più vasto.
Avevo conosciuto molti medici come lei, fantomatici dottori della mente che si atteggiavano a luminari con conoscenze epiche che altri non avrebbero mai scorto neppure in lontananza; eppure, uno a uno, erano caduti tutti nello stesso e miserabile tranello – non che lo facessi intenzionalmente, è ovvio, ma mi veniva spontaneo riproporlo con una frequenza ciclica in ogni dannatissimo studio.
Loro studiavano me e io studiavo loro: chi scopriva per primo la verità aveva la vittoria in pugno e con questa anche la soluzione. Se fossi stata io, dunque, la strada sarebbe stata la medesima, vale a dire un bel sorriso, cordiali saluti, miglioramenti improvvisi e soddisfazione di gente senza cervello; se fossero stati loro, invece, io sarei rimasta ancora a sproloquiare del tutto e del niente per trovare la vera falla – o per lo meno così la chiamavo io.
Nel momento in cui la via si dirottava, nell’attimo in cui lo sguardo indugiava troppo sul mio corpo, nell’esatto istante in cui si pensava a prolungare la terapia, io comprendevo che avevo vinto ancora una volta contro una dannata laurea attaccata alla parete; per questo continuavo a parlare con la Signora Davis: lei non faceva domande inopportune, non mi scrutava da capo a piedi, non mi giudicava con una semplice occhiata e non correva affrettata verso il denaro – lei era oltre tutto questo e del resto se ne infischiava allegramente.
Nonostante ciò, in quel preciso istante ebbi come la convinzione di aver vinto di nuovo.
Non comprendeva le mie parole, le usava a tradimento, non le spiegava e non interagiva come avrebbe dovuto, perciò stava fallendo come tutti gli altri anche se, ammettendolo, il tempo che aveva impiegato a capitolare al seguito dei suoi colleghi era comunque lodevole: dieci sedute, un vero e proprio record.
«Qualcuno le ha mai parlato di questa sensazione?» Domandai all’improvviso, riscuotendomi dai miei stessi pensieri, ma lei tentennò nel rispondere e cercò di fare mente locale nella speranza sciocca di trovare una risposta adatta a me – tic tac, il tempo stava scadendo e lo scandiva proprio quello strano orologio a palline che batteva sulla sua scrivania, mentre il fumo della sigaretta saliva verso il soffitto di legno bruno e scivolava via dalle sue labbra sottili.
«Non credo», disse pensierosa, cercando di non tirare in ballo alcun suo cliente – perché ormai ne ero certa: non eravamo pazienti, bensì clienti. «No, non che io ricordi», aggiunse sommessamente, guardandomi da oltre le lenti ovali dagli occhiali da vista che le pendevano lungo il naso.
«Allora temo che non possa dire capisco
«L’ha spiegata bene, perciò posso comprendere questa sensazione o quantomeno tenerla in considerazione», rispose velocemente, lasciando che io intendessi quanto la mia accusa le avesse bruciato l’orgoglio impettito.
«Non è lo stesso, purtroppo», dissi io, lasciandomi andare alla voglia di accendere una sigaretta a mia volta – forse con sfacciataggine, chissà, ma c’era da dire che la Signora Davis fumasse di continuo in quelle dieci sedute, così non serviva che io mi trattenessi oltre. «Non le dispiace, immagino», dissi quando la sigaretta era già accesa, mentre i suoi occhi parevano essersi infiammati: qualcuno, vale a dire io, stava contaminando la sua stessa aria con della nicotina in eccesso.
«Sarebbe comunque troppo tardi per impedirle d’accenderla», disse ironica, con un tono che diede più fastidio a lei che a me.
Sorrisi nella mia condizione di cliente, convinta che il cliente ha sempre ragione, e lei arricciò il naso.
«Vede, Signora Davis, io vengo qui da dieci volte, ormai, e ho compreso esattamente cos’ha intenzione di fare: sbagliare», dissi tranquillamente, mentre lei strabuzzava gli occhietti verdi al di là delle lenti appena appannate d’affanno. «Lei vuole intraprendere una strada difficile, controcorrente, ma non perché io sia davvero un ostacolo, bensì per puro gusto di compiacimento – ed è questo che detesto: cercare qualcosa che non c’è, concentrarsi su elementi inopportuni quando la realtà è a un passo.»
«Questo non è il suo lavoro, si limiti al proprio», fu la schietta risposta che mi arrivò.
In effetti, avrei potuto benissimo accettarla quanto lei aveva accettato la mia condizione di sono fuori dalla mia pelle; ma non avevo affatto voglia di tornare a giocare o di mettermi in campo per perdere tempo: ero lì per errore, dopo tutto, un imperdonabile errore.
«Il mio lavoro è quello di spiegare con delle parole ciò che gli occhi sono in grado di vedere da soli e forse anche quello che si ostinano a non notare.»
«Non è ancora un lavoro, bensì un passatempo
Una delle tante cose che ho sempre detestato nell’essere umano è il non vedere la realtà, il crogiolarsi sugli allori fatti di carta e pensare di essere meglio di altri che per necessità sono stati portati a fare qualcosa di diverso nella vita.
Il fatto che io non abbia mai avuto una laurea in psicologia o psichiatria, infatti, non significa di certo che non possa comprendere ciò che affligge l’uomo, altrimenti non solo non riuscirei a renderlo nero su bianco, ma non potrei neppure relazionarmi col prossimo o aiutare laddove loro hanno fallito miseramente per la brama di denaro.
«E fintanto che ci saranno persone come lei a questo mondo, probabilmente rimarrà tale», commentai appena, dandole ragione solo perché ero sempre stata convinta di questo: gli ottusi sarebbero stati la mia rovina.
«Persone come me?» Domandò impettita, spengendo il mozzicone nel posacenere vicino con aria irritata.
«Come lei, sì», confermai, annuendo un poco e lasciando che il fumo fluisse via dai miei polmoni che, di certo, erano anneriti quanto i suoi. «Non credo ci sia bisogno di spiegare come sia lei, dovrebbe conoscersi bene da sola o non sarebbe da quel lato della scrivania.»
«Tutto questo per una definizione?» Ridacchiò imperterrita, chinando la testa e tornando a scrivere con quella biro blu che tanto mi dava ai nervi.
Non si trattava di una semplice definizione, bensì di un ampio concetto e di pregiudizi senza voce che mi martellavano le tempie in modo indicibile.
«Può continuare a scrivere e a trarre le sue conclusioni, Signora Davis, ma deve sapere che…» deglutii, lasciando che la ragione mi cogliesse ancora una volta nella delusione paradossale della vittoria. «Deve sapere che ha ragione: mi sono scaldata per una definizione, per un passatempo, e dopo tutto sono abbastanza umana da poter sbagliare.»
«Dice?»
Sembrava incredula con quel suo sguardo verdino, mentre mi osservava di sbieco, con il gomito posato sulla scrivania e sulle scartoffie, dietro ai tomi freudiani e quelli di chissà quale altro tanto chiacchierato luminare del passato.
«Dico che ho esagerato a scaldarmi per un passatempo che mi è tanto caro, ma le assicuro che sono dispiaciuta.»
Il tempo scandito dall’orologio sulla sua scrivania, ancora una volta, sembrava picchiettare.
Dietro di lei, sullo sfondo di quello scenario assurdo, c’era una grossa vetrata un po’ sporca e l’intero ambiente sembrava quello di una soffitta degli orrori a dirla tutta – un luogo dal quale avevo fretta di fuggire per non rimetterci più piede.
«Allora direi che per questa volta possa chiudere un occhio», disse in un sospiro, tracciando una linea decisa sul foglio cui aveva appena scritto, mentre io la osservavo con il sorriso sulle labbra e il tabacco sulla lingua, effimero come l’aria. «Può finire la sigaretta e tornare la prossima settimana, d’accordo?»
«Sempre di mercoledì?»
«Sì, sempre di mercoledì», disse, guardando l’agendina bruna alla sua sinistra per controllare l’orario disponibile e allungare le dita verso la tazzina di caffè che si era preparata poco prima del mio arrivo – ormai fredda. «Alle cinque di pomeriggio?»
«Perfetto.»
Nulla era perfetto, mentre spengevo la sigaretta nel suo posacenere: vincere nel vuoto sarebbe stato orribile ancora una volta, perché vincendo, allo stesso tempo continuavo a perdere e nessuno, neppure la Signora Davis, sapeva delineare un vero profilo che non fosse quello che osservava all’uscita, quando imboccavo la porta per lasciare che la chiudesse alle mie spalle dopo aver pagato la seduta.
Esserci senza capire bene il perché: è questo il mio problema, ma non avrò mai una risposta.
   
 
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