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Autore: ale_chan19    19/03/2014    1 recensioni
Era curioso come dopo più due anni di lontananza le capitasse spesso di pensare a quella che avrebbe definito “la sua vita precedente”, se solo avesse avuto abbastanza coraggio da trovarle un nome e non avesse dolorosamente cercato di non pensare mai “alla sua vita precedente”. (…)Eppure, quando le capitava che quei suoi vecchi amici bussassero alla mente, non poteva che sognare di poterli dimenticare o di poterli considerare come qualcosa di assolutamente irreale, partorito nottetempo dalla sua immaginazione, come un sogno terribile o un incubo bellissimo, che al mattino si è già dimenticato.
-----1° classificata al quarto turno del Pop VS Metal Contest indetto da visbs88-----
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Titolo: Stay
Autore: ale_chan19
Squadra: Pop
Canzone scelta: Stay - Rihanna
Fandom: Originale
Personaggi: Personaggi Originali
Introduzione: Era curioso come dopo più due anni di lontananza le capitasse spesso di pensare a quella che avrebbe definito “la sua vita precedente”, se solo avesse avuto abbastanza coraggio da trovarle un nome e non avesse dolorosamente cercato di non pensare mai “alla sua vita precedente”. (…)Eppure, quando le capitava che quei suoi vecchi amici bussassero alla mente, non poteva che sognare di poterli dimenticare o di poterli considerare come qualcosa di assolutamente irreale, partorito nottetempo dalla sua immaginazione, come un sogno terribile o un incubo bellissimo, che al mattino si è già dimenticato.
Rating: (Personalmente non le darei più di giallo, ma per avere assoluta sicurezza metto) Arancione
Generi: Introspettivo, Drammatico, Angst
Avvertimenti: Accenno a tematiche delicate, One-shot
Note (opzionali): Questa storia è un po' confusa, ma se vorrete capirci qualcosa di più, lo potrete fare alla fine della one-shot ;) 
 
 
 
 
 

Stay

 
 
 
 
 
Era curioso come dopo più due anni di lontananza le capitasse spesso di pensare a quella che avrebbe definito “la sua vita precedente”, se solo avesse avuto abbastanza coraggio da trovarle un nome e non avesse dolorosamente cercato di non pensare mai “alla sua vita precedente”. Per questo tentava di tenersi sempre la mente impegnata nei suoi lavori occasionali, un po’ per portare qualche soldo nelle sue tasche perennemente vuote, un po’ per evitare che i ricordi ritornassero a galleggiare sulla superficie dei suoi pensieri. Eppure, quando le capitava che quei suoi vecchi amici bussassero alla mente, non poteva che sognare di poterli dimenticare o di poterli considerare come qualcosa di assolutamente irreale, partorito nottetempo dalla sua immaginazione, come un sogno terribile o un incubo bellissimo, che al mattino si è già dimenticato. I suoi sforzi si rivelavano vani, perché era tremendamente difficile scordare quei setti lunghissimi anni passati insieme, perché aveva trascorso una quarto della sua maledetta vita al suo fianco ed era al suo fianco che le sembrava ancora di essere.
 
“Ledyen era immobile, come ipnotizzata, e guardava con occhi sbarrati e con il corpo tremante la figura che stava avanzando verso di loro. Nonostante il suono dell’acqua del canale alle loro spalle e i rumori che provenivano dalle vie vicine, sembrava che in quel tratto di strada fosse calato un silenzio surreale; il ragazzo non riusciva a parlare, a chiederle spiegazioni, riuscì solo a voltarsi verso l’altra loro compagna di viaggio, confusa quanto lui. Giratosi nuovamente verso la quarta persona ne riconobbe l’altezza, la costituzione robusta, il lungo mantello scuro ed il cappello che copriva quel volto maschile, che, ne era certo, apparteneva allo stesso uomo che al tramonto aveva incontrato fuori dalla gilda. Ne ricordava l’espressione annoiata, la barba incolta, i lunghi capelli scuri, la voglia che aveva sulla tempia sinistra, e si sentiva infantilmente intimorito da quella presenza. Quando l’uomo si fermò a pochi metri da loro tre, Ledyen uscì dalla trance in cui era caduta, ma le sue mani non smisero di tremare.”
 
Lei sentiva ancora quei suoi occhi neri che la guardavano, quegli occhi neri che dicevano più di quanto fosse lecito dire, che sapevano sussurrare parole dolci e gentili o sospiri brucianti di desiderio.
Sentiva ancora il suo profumo mentre vagava tra i boschi, tra gli alberi, seguendo sentieri nascosti e accidentati perché nessuno la vedesse, la scoprisse, per trovare finalmente un luogo dovere vivere senza avere paura di girare liberamente sotto la luce del sole. Sentiva il suo profumo tra le cortecce argentate degli Alberi di Perla, tra le foglie cangianti dei Pini Iridati quando cadono all’arrivo dei primi freddi, sentiva il suo profumo che odorava di terra, erba, fredda aria invernale.
Sentiva ancora le sue mani sul proprio corpo, quelle mani forti, grandi e ruvide che le accarezzavano il viso, i capelli, la schiena, le braccia, le cosce, che le facevano sentire cose che non avrebbe dovuto provare, che la facevano rabbrividire dove non aveva più pelle. Con quelle mani andava a fuoco dove non aveva più carne e si sentiva viva. La felicità era così vicina, così tangibile come mai era stata prima.
 
«Non te ne andare.»
«Non posso più rimanere qui a lungo, l’hai vista o no la mia taglia in quella maledetta piazza? È da mesi che sono costretta a muovermi solo di notte, talvolta a non poter proprio uscire da casa tua, per me è una situazione insostenibile! Questa città è troppo piccola, mi troveranno… e cosa farai quando mi avranno presa? Perché sai benissimo cosa faranno a me.»
«Ledyen, nessuno sa che ti trovi qui, nessuno ti ha vista, perché devi preoccuparti così tanto?»
«Quanto sei ingenuo, non lo capisci? Non posso fermarmi troppo a lungo in un posto ed è assolutamente da troppo tempo che sono qui. Basta un errore, un passo falso, una coincidenza del cazzo!» Riprese fiato, rimanendo zitta per alcuni secondi, poi mormorò:«Che faresti se me ne andassi?»
«E tu come reagiresti se decidessi di rimanere qui?»
Ledyen non rispose. Era girata di schiena, non si era mai voltata a guardarlo da quando era tornato a casa e l’aveva trovata mentre stipava i suoi pochi averi dentro una borsa per la fuga. Lasciò cadere sul letto le provviste che aveva in mano, sopra il resto delle cose che doveva portare via, e fece un respiro profondo.
«E come reagiresti se decidessi di seguirti?»
Si girò lentamente verso di lui, gli occhi arrossati non avevano il coraggio di guardare altro se non le tavole di legno del pavimento.
«Non sei costretto.»
«Ma se io volessi davvero venire con te?»
La donna alzò lo sguardo.
«Ne sei sicuro?» Lui annuì in risposta e lei, sospirando, continuò:«È tutto sbagliato ed è tutta colpa mia, io…»
«Non dire così» la bloccò «diventi una grandissima spaccapalle quando riprendi questo discorso del cazzo.»
Le venne in mente il loro primo incontro, quando l’aveva abbordata nei dintorni della locanda  dove aveva trovato riparo. Erano passati solo due anni da quando era fuggita di prigione, al tempo si comportava come un animale selvatico, sfuggendo alla vista e al contatto umano, vivendo solo ed unicamente nei boschi, tranne quando non era possibile fare altrimenti; il fatto che fosse palesemente ubriaco fu l’unica cosa che la fece desistere dallo scappare via. Le aveva detto:“Buonasera, signorina, nessuno le ha mai detto che è una fanciulla affascinante?”, lei gli aveva risposto: “Certamente in molti, ma sembravano tutti abbastanza sobri allora e viscidamente ipocriti, ma, sebbene io sia sinceramente lusingata, devo rivelarle di non apprezzare poi tanto i complimenti, al contrario della maggior parte delle fanciulle affascinanti.”
“Allora bisogna dire che lei è una grande spaccapalle.” le aveva  replicato, sorridendole sotto la pioggia scrosciante, con quello stesso mezzo sorriso che anche in quel momento le stava rivolgendo.
 
Forse per questo era ancora parte di lei, perché aveva quel qualcosa di cui non era mai stata certa, forse il modo sicuro con cui si muoveva, forse la voce roca, forse quel maledetto mezzo sorriso, che la faceva sentire come se non potesse vivere senza di lui.
 
Quella vita che viveva e che gli aveva fatto vivere li provò entrambi e li privò entrambi dei sogni, dei desideri che avevano e più giravano e scappavano, più i giorni di tensione raddoppiavano e triplicavano; le loro mani intrecciate, aggrappate strette l’una all’altra, con gli anni iniziarono ad allentarsi. Spesso Ledyen si domandava perché lui avesse sacrificato la sua vita ed il suo futuro per lei, perché la desiderasse, la amasse a tal punto da decidere di lasciare indietro ogni certezza, ogni base sicura per una vita tranquilla, e partire per quel folle viaggio insieme. Che cosa, in lei, l’aveva spinto a farlo? Lei non era nessuno, se non una cazzo di fuggitiva, ricercata e mostruosa. Una mutante orrenda, tanto che si chiedeva come riuscisse a sopportare la vista del suo corpo ripugnante. Era convinta che le avesse donato tanto, ma che lei non gli avesse dato niente in cambio.
 
«Non avere paura.» le sussurrò in un orecchio «Non avere paura.»
Con un respiro profondo, si alzò in piedi. Deglutì. Con la mano destra sciolse il laccio nero che raccoglieva i suoi lunghi capelli argentei e lo lasciò cadere a terra; poi si sfilò gli stivali neri, che spinse sotto il letto con il piede; slacciò la fascia che aveva al collo, che cadde sul pavimento, allo stesso tempo nascondendo con l’altra mano una piccola porzione metallica sulla sinistra del collo e si bloccò.
Qualche minuto dopo sganciò la mantellina azzurra scoprendo la schiena, che coprì nuovamente portandosi indietro i capelli; fece scivolare giù i pantaloncini neri, ma le sue gambe erano ancora celate dalla spessa calzamaglia bianca. Le tremavano le mani mentre lentamente si sfilava il lungo guanto nero che indossava sul braccio destro, le tremavano ancora di più mentre tentava di aprire il corsetto di pelle ed ebbe un sussulto nel sentirlo finire a terra. La calzamaglia, la manica sinistra, tutto era finito in quel mucchietto di stoffa ai suoi piedi, tutto ciò che usava perché nessuno potesse vedere quale fosse il suo vero aspetto era là, mentre lei era nuda, indifesa, davanti ai suoi occhi. Lui poteva vedere il suo braccio destro completamente di metallo fino a sotto la spalla; il sinistro, la cui mano si era miracolosamente salvata, di quello stesso materiale scuro che raggiungeva la clavicola e la scapola, come una malattia che si estende ammorbando piano, piano, sempre più parti del corpo. Poteva vedere le strisce di pelle rosata da antiche bruciature, che stridevano rispetto al pallore della sua carnagione, percorrerle il petto; le sue gambe, la sinistra metallica fino a metà della coscia, la destra fin quasi al bacino.
Scrutava il viso dell’uomo, cercando di comprenderne le reazioni, temendo di vederne il disgusto, l’orrore, ma era semplicemente impassibile. Lo osservava con quegli occhi azzurri gonfi di lacrime, impauriti, nel vederlo alzarsi dal letto e avvicinarsi di quel passo che li separava.
La abbracciò.
Stringendola forte a sé riusciva a sentire con le dita altri segni che deturpavano la schiena di Ledyen, alcuni spessi e profondi come le bruciature sul petto, altri più sottili, probabilmente risalenti al suo periodo passato in prigione.
La cullava tra le sue braccia, baciandole i capelli, mentre sentiva le sue lacrime cadergli sul petto.
 
Poi iniziò a cambiare, dopo quel giorno d’autunno in cui il sole caldo sembrava lo stesso di quell’estate appena conclusa. Era ancora tremendo ricordarsi di quanto spesso si rendesse conto di non riconoscerlo più. Sentiva ancora i suoi occhi neri che la fissavano, venati di rosso, le cui minacce la terrorizzavano, le cui offese erano puro veleno. Sentiva ancora il suo odore, lo stesso di quando si ritrovava in bettole da quattro soldi perché faceva davvero troppo freddo per dormire all’aperto. Sentiva il suo odore tra gli ubriaconi incalliti, i malviventi, i ladri, gli assassini, i suoi veri compagni di sventura, che infestavano ogni angolo della locanda, sentiva il suo odore che puzzava di alcool, di vergogna, di dolore e di rabbia.
Sentiva ancora le sue mani sul proprio corpo, quelle mani forti, grandi e violente che le colpivano il viso, la schiena, le braccia, le gambe, ogni parte del corpo, che le facevano sentire cose che non avrebbe voluto provare, che le facevano credere di avere lividi scuri dove non aveva più pelle. Quelle mani che le facevano male dove non aveva più carne e dentro di sé moriva. Piangeva, debole, inerme, stupita della sua completa impossibilità a reagire. Dove cazzo era finita la sua forza? La sua indipendenza? Perché, perché non riusciva a reagire? Perché? Spesso ci pensava, si chiedeva per quale motivo non avesse cercato fin da subito di difendersi, di scappare, ma c’erano notti in cui ancora si immaginava i suoi passi nel buio, li ricordava malfermi, barcollanti. Riconosceva la sua voce aspra mentre borbottava qualcosa e aveva paura. Era immobile dalla paura.
Si sentiva come se le avesse preso ogni cosa.
 
La ragione per cui aspettò così tanto le apparve in seguito molto chiara: ciò che provava per lui la faceva sperare che tutto quello improvvisamente sarebbe finito, che tutto sarebbe ritornato come prima; le capitava di addormentarsi e sognare quei momenti felici che tanto agognava, per poi svegliarsi e continuare a vivere quel suo incubo quotidiano. Come poteva amarlo? Come poteva guardarlo in faccia o guardarsi in faccia, allo specchio, senza vomitare dall’orrore?
Eppure lo amava quando piangeva di notte, di nascosto, mentre pensava che lei stesse dormendo, dopo averla colpita, insultata o violentata. Lo amava quando si sedeva vicino a lei le sere in cui era tranquillo, con il fuoco che li riscaldava. In alcuni momenti sembrava quasi che fosse solo lui quello distrutto, perché Ledyen sentiva che le colpe erano sue, solo sue, l’aveva sempre pensato.
Lei?
In realtà era lei la persona che aveva bisogno di essere salvata, ma non c’era nessuno disposto a farlo, perché senza di lui era sola come un cane. Era sola come un cane perché a causa sua tutte le persone su cui avrebbe potuto contare erano morte. Sempre e solo a causa sua.
 
Le sputò addosso e uscì dalla stanza.
Lei rimase sul pavimento, rannicchiata, il volto sconvolto, i capelli spettinati, strappati; le mani stringevano il ventre, i pantaloni erano chiazzati di sangue.
Lo sguardo perso nel vuoto.
 
Fuggì, sì, dopo tutto quel tempo sprecato decise che era l’ora di andarsene, di scappare come aveva sempre fatto e come sarà sempre costretta a fare. Lo fece quella notte in cui disse finalmente:“ti odio.” Lo odiava, lo odiava con tutto il suo sporco cuore per ciò che le aveva fatto, per averle  strappato via la felicità che le aveva donato e per aver distrutto il frutto del loro antico amore che stava crescendo dentro di lei.
 
Colpevole di peccati che non si possono dimenticare, mostro a cui non si può concedere il perdono, eppure l’anima di quella donna ancora si corrode quando è sola e si ritrova a pensare di volerlo ancora vicino a sé, con sé, e le sembra di pentirsi di essersene andata. La sua presenza, ostile o benigna, non l’abbandona mai ed è come una seconda ombra. Questo è quello che le ha fatto, l’ha resa dipendente da lui, dipendente da quel qualcosa che le faceva pensare che senza di lui non potesse vivere.
 
In quei momenti bui, in cui la sua seconda ombra la perseguita, spesso le ritorna in mente ciò che pensò quella sera, quando decise di scappare da quella città, quando in quell’interminabile minuto rimase zitta a fissare quelle due paia di vestiti dentro la sua borsa.
 
È vero, non dovrei pensarlo, non dovrei volerlo, non dovrei dirlo, perché vorrei urlarlo:
“Resta, resta con me, ti prego”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NDA: Questa one-shot è un’ipotetica continuazione della drabble -Lonely Salvation, le ultimissime righe di entrambe sono più o meno contemporanee- che avevo scritto in occasione di un altro contest e ovviamente, la protagonista è sempre Ledyen, un mio personaggio originale creato anni fa per un GDR. Era da tempo immemore che volevo scrivere qualcosa di più serio sul passato di questo mio OC (che attualmente è il mio Most Beloved, sebbene sia ancora una giovane recluta nella schiera delle mie creazioni) e ho preso la palla al balzo sfruttando Stay, la canzone di Rihanna con cui partecipo, che mi aveva colpito fin dal mio primo ascolto in quanto l’ho trovata subito molto azzeccata per Ledyen. Per questo ho deciso di riportare più o meno alcune parti della canzone, in particolare quelle che più “suit-avano” (come posso trovare una corretta traduzione del verbo “suit” quando è perfetto in inglese così com’è?) con il passato di Ledyen.
Teoricamente le parti in corsivo si possono interpretare come i ricordi di cui si fa riferimento all’inizio del testo, a parte il primo che è un omaggio al GDR da cui proviene la protagonista (mi sembrava giusto scriverlo, visto e considerato che è solo merito delle mie due amiche che l’hanno creato se Ledyen è nata) ed il cui punto di vista è quello di un altro personaggio del GDR esterno alla one-shot.
Anche se è grammaticalmente scorretto, ho deliberatamente optato per l’uso di “lui e lei” invece che dei giusti pronomi, perché mi sembrava che individuassero in maniera troppo distaccata e formale i due personaggi, soprattutto in vista del fatto che siamo più o meno dentro la testa di Ledyen e sempre per questo ho omesso il nome del protagonista maschile, che “deve essere dimenticato”.
Infine, la frase “Colpevole di peccati che non si possono dimenticare, mostro a cui non si può concedere il perdono” è volutamente priva di soggetto perché è una frase sibillina: chi è il colpevole? Chi è imperdonabile? La si può ritenere riferita sia all’uomo, sia a Ledyen, perché lo sono entrambi, seppur per motivi differenti.
Spero che almeno un pochino vi sia piaciuta :) perchè mi sono impegnata abbastanza, anche se non sono molto contenta del risultato finale çwç
Uff,
ale_chan19
  
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