Vi
siete mai chiesti qual è il motivo per cui siamo portati
a sopportare tanto dolore tutto in una volta? Forse piove davvero
sempre sul
bagnato. Appena pensi di esserti disfatto di un peso eccone lì un
altro, pronto
a saltarti sulle spalle, quasi a voler aumentare il fardello che siamo
costretti a trasportare ogni giorno.
Ma forse è anche vero che siamo tutti masochisti, vogliamo
che chi ci sta intorno non soffra, siamo pronti a rischiare tutto per
conquistarci il favore della persona a cui vogliamo bene, preferiamo il
bene
degli altri al nostro. Ci piace farci del male, con la scusa di non
aver niente
da perdere, ma non è mai così, c’è sempre qualcosa da perdere, o nel
mio caso, qualcuno.
Søren
Kierkegaard, un filosofo danese, credeva che l’uomo, dotato
di libero arbitrio sulle proprie scelte, fosse destinato a cadere in
uno stato
di angoscia, dominato da ansia e preoccupazione, che corrisponde
sostanzialmente
al nulla, una specie di buco nero, dal quale è quasi impossibile
salvarsi.
Perché è vero, le scelte ci paralizzano, nessuno sa cosa è meglio per
se
stesso, crede di saperlo, ma cade in errore e capisce troppo tardi di
aver
sbagliato.
E se avessi scelto A invece che B? Cosa sarebbe successo se
non avessi incontrato quella persona? Che significato ha la mia vita?
Un
mucchio di domande a cui non troveremo mai risposta. Probabilmente è
così che
deve andare, non dobbiamo chiedere, solo vivere come se nulla fosse,
vivere e
andare avanti, con il sorriso sulle labbra, nella speranza che tutto si
risolva. Insomma, io non ho fatto altro per vent’anni, si sopravvive.
“Come stai?” chiede una voce alle mie spalle. Assorto come
sono nei miei pensieri, ci metto un po’ per rispondere.
“Seduto” butto lì. La nuova arrivata non dice niente, ma sono
sicuro che stia sorridendo, la conosco fin troppo bene. Aspetta un po’
poi si
siede accanto a me, sull’erba soffice, appoggiandosi con la schiena al
tronco
del ciliegio.
“Credo che Makoto-kun ti stesse cercando” dice lei. Ha la
voce roca per colpa di quel concerto a cui è andata ieri.
“Sa già dove trovarmi” deglutisco. Inizio a pensare che me
ne dovrei andare, non sono in vena di conversare con nessuno, tantomeno
con lei.
Ma naturalmente mento a me stesso. Mi mancano tutte quelle
conversazioni che
facevamo prima, solo io e lei.
Mesi fa non aspettavo altro che finire il mio turno di
lavoro e parlare con quella che era diventata la mia confidente
personale. Anzi,
era il contrario. Non parlava spesso di sé, di quello che le succedeva,
preferiva ascoltare me, la mia voce. Mi chiedeva di parlare, il che
suona
strano, ma così andavano le cose tra di noi. Lunghi pomeriggi occupati
solo dal
suono della mia voce.
“Mi dispiace per come
è finita” insiste. So bene dove vuole andare a parare, ma non posso
cedere. Mi
sono fatto una promessa, e io mantengo sempre le mie promesse. Quasi.
Non dico una parola ma quando sento la sua mano sfiorare la
mia non riesco a non rabbrividire, è più forte di me. Mi odio perché
sono così
debole quando si parla di lei.
Cerco di tenere la mia mentre concentrata sui fiori di
ciliegio che cadono leggeri dai rami, disegnando forme nell’aria, ma
invano.
Nella mia testa si susseguono immagini su immagini di lei, di me, di
noi.
Non potrò resistere molto, la sua vicinanza mi fa stare male
e lei lo sa meglio di me.
Decido di alzarmi, lei fa lo stesso, sicuramente ha previsto
anche questo. Sono mesi che non fa altro che provocarmi e io non faccio
niente
per evitarla, è più forte di me. Perché, tutto sommato, io ho ancora
bisogno di
lei.
Cerco di liquidarla con un saluto e mi avvio verso casa mia,
nella zona di Shinjuku. Mi sono trasferito in Giappone con la speranza
di
cambiare vita, senza chiedere il permesso a nessuno. Era quello che mi
serviva,
avevo cose da dimenticare, dovevo allontanarmi da quel posto pieno di
ricordi
di attimi avrei preferito non vivere, esperienze che mi hanno segnato a
fondo e
che, mio malgrado, mi hanno reso la persona che sono oggi.
Per i primi mesi tutto è andato bene, mi sono fatto nuovi
amici e ho trovato un lavoro in biblioteca, poi l’ho incontrata.
“Scusi, avete L’interpretazione
dei sogni di Freud in inglese? Non riesco
a trovarlo nella sezione dei libri in lingua straniera” chiede,
fissandomi
dritto negli occhi. Parla un giapponese perfetto. È strano, ma mi
sembra di
essere Clark Kent quando si trova vicino alla kryptonite. Deglutisco a
fatica.
“Controllo in
catalogo” smanetto con il computer della biblioteca, che deve avere più
o meno
l’età del proprietario, forse è addirittura uno
dei primi modelli messi in commercio.
Quando trovo ciò che cerco, rivolgo gli occhi alla ragazza che intanto
si è
messo a sfogliare un libretto che ho lasciato sul bancone poco fa.
Quello non è
della biblioteca, ma mio, e non ho il coraggio di chiederle di
rimetterlo a
posto.
“Sei inglese, giusto?”
mi chiede, questa volta nella mia lingua, senza guardarmi, prima che
possa dire
qualsiasi cosa.
“Si, anche tu?” lei
annuisce, sempre senza staccare gli occhi dal libriccino.
“Ho trovato il libro
che cercavi, comunque. Vado a prendertelo”
“Ti ringrazio” accenna
un sorriso, sento il mio cuore spaccarsi a metà.
Caccio
via dalla mente quei ricordi, fa troppo male anche
solo pensarci. Ma d’altronde è colpa mia. Sono io quello che ha scelto
per
entrambi. Io, non lei. Eppure ora la situazione sembra che si sia
ribaltata.
Continua a cercarmi e io faccio lo stesso, anche se non riesco ad
ammetterlo.
Arrivo a casa e infilo le chiavi nella toppa, ma la porta è già
aperta. I miei pensieri corrono, forse sono entrati dei ladri. Prendo
un
ombrello da usare come arma, nel caso ce ne fosse bisogno. C’è un paio
di
scarpe abbandonato davanti all’entrata e a questo punto, la mia ipotesi
inizia
a perdere consistenza, mentre un’altra, forse peggiore della prima, si
insinua
nella mia testa.
“Mi serve il tuo nome,
se vuoi portare a casa il libro” dico al mio interlocutore, che sembra
ancora
interessato al volumetto che ha trovato poco fa sul bancone.
“È uno strano modo per
fare le presentazioni, non credi?” i suoi occhi si tuffano nei miei. Mi
limito
a fare un sorrisetto mentre alzo le spalle. Lei mi porge la sua carta
d’identità. Shirley Rooney.
Sto compilando il
modulo per autorizzare il prestito del libro, il computer sembra aver
smesso di
funzionare, come al solito.
“Ora non dovresti
dirmi il tuo, di nome?” chiede lei, con aria beffarda.
“Harry” dico,
continuando a scrivere “Harry Styles”
Vedo
un’ombra muoversi in salotto, davanti a me. Stringo il
manico dell’ombrello e, dopo essermi sfilato le scarpe, avanzo. Come
volevasi dimostrare, lei si trova lì, seduta sul mio
divano grigio troppo grande per una stanza tanto piccola.
“Cosa ci fai qui? Come sei entrata?” sbotto. Nelle ultime
settimane ho cercato di farle capire in tutti i modi che è meglio se mi
sta
alla larga, ma mentirei a me stesso se dicessi che non mi piace averla
vicino.
Certo, la sua presenza mi fa sentire male, ma, tornando alla questione
del
masochismo, è un male che posso sopportare.
“La porta era già aperta e, dato che non arrivavi, ho
pensato di entrare” io accendo le luci, anche se i raggi del sole
filtrano
dalle finestre.
“Siediti con me, ti va?” vorrei rispondergli di no, urlargli
di andarsene, ma non lo faccio. Allento la presa sull’ombrello e lo
lascio
cadere a terra, mentre mi muovo verso di lei.
“Sei un gran lettore,
vero?” chiede, guardandosi intorno. In effetti la mie libreria è ben
fornita.
C’è di tutto.
“Mi piace leggere, è
una passione che ho in comune con i miei genitori” dico, sorridendo.
“Piace molto anche a
me” continua lei “sei anche uno scrittore?” indica la pila di fogli
sulla
scrivania e la pagina aperta di Word sul PC.
“Non proprio, non
credo di potermi definire in quel modo” mi affretto ad abbassare lo
schermo del
computer, per evitare che legga.
Lei si avvicina a me,
in altezza la supero di diversi centimetri.
“Non vuoi farmi
leggere le tue storie?” chiede, allontanandosi di nuovo. Si siede sul
divano e
cerca una posizione comoda. Sta aspettando una risposta che io
preferirei non
dare.
“Te l’ho detto, non
sono uno scrittore”
“Ma scrivi storie”
“No, sono solo
pensieri..”
“..che andranno a
formare un libro” conclude lei la frase.
“Non esattamente, è
più che altro un saggio sulla filosof..” non mi lascia finire.
“Per me non cambia
molto” mi fa l’occhiolino e si gira verso gli scaffali pieni di libri
“leggi
per me?” chiede di botto. Non ero minimamente pronto ad una richiesta
del
genere. Non sa leggere da sola?
“Non
mi hai detto cosa ci fai qui” il mio sguardo è
incatenato al suo.
Non risponde alla mia domanda, prende qualcosa dal tavolino
e me lo porge. È un volumetto di circa cento pagine, lo afferro e leggo
il
titolo.
Sto girando per la
biblioteca alla ricerca di un libro che sembra introvabile, il
direttore mi ha
detto che se non lo avessi trovato mi avrebbe licenziato, perché, per
quanto
dice, appartiene a lui ed è il suo preferito. Mi ha incolpato di averlo
messo
insieme alla pila dei volumi appena riconsegnati da sistemare sugli
scaffali,
ma sono assolutamente certo di non averlo fatto, sarà stata Yukiko-chan, è la persona più sbadata del mondo, ma
naturalmente il vecchio non darà mai la colpa alla sua nipotina
preferita.
Faccio fatica a
ricordarmi il titolo, è di un qualche autore giapponese sconosciuto che
tempo
fa era amico di Hasegawa-sama ma che
l’anno scorso purtroppo è venuto a mancare.
Sono ora in bilico su
una scala di legno che probabilmente ha la stessa età dello scrittore
del libro
e qualcuno mi chiama.
“Harry? Dove sei?”
sento un brivido che mi percorre tutta la spina dorsale. Cosa ci fa qui?
“Settore sei!” urlo,
cercando di non perdere l’equilibrio.
“Hai già finito tutti
i libri che hai preso?”
“No, sono solo venuta
a salutarti” continua con un sorriso, inclinando la testa a destra.
“Ci siamo visti ieri,
non mi sembra una scusa plausibile”
“Se ti do fastidio me
ne vado” dice lei seccata. Io scendo dalla scala e mi avvicino.
“Sei troppo permaloso”
sussurro al suo orecchio, prima di cambiare settore. Del libro neanche
l’ombra.
Faccio per chiamare al cellulare Yukiko-chan per
chiederle se lei ne sa qualcosa ma sento una mano sfiorarmi
l’orecchio, mentre fa scivolare via il telefono dalle mie mani.
“Shh..” sussurra lei,
prima che io possa dire anche una sola parola. In un attimo la sua mano
è sul
mio fianco, cerca di insinuarsi sotto la maglietta, ma io mi ritraggo.
“Ma che fai? Sto
lavorando” sono sulla difensiva, ma penso di averne tutte le ragioni.
Lei
sbuffa.
“Come sei noioso..” fa
per allontanarsi.
“La biblioteca è video
sorvegliata, non credo che il mio capo sarebbe felice di vedere..”
faccio per
indicare le telecamere con un cenno della testa. Sono state installate
un paio
di anni fa, mi è stato detto, perché la gente si divertiva a rubare i
libri. Cosa
assolutamente priva di senso per quanto mi riguarda.
“Mi leggi qualcosa,
allora?” chiede lei, voltandosi di nuovo verso di me. Come può avere
sempre
quell’aria spavalda?
“Sto lavorando, te
l’ho detto. Hasegawa-sama mi
ucciderebbe” dico piano. In effetti potrei anche urlare, dato che le
orecchie
del mio vecchio capo non funzionano più come una volta.
“Facciamo così, dopo il
lavoro, a casa mia. Non accetto scuse, sayonara” se ne va, lasciandomi
lì,
fermo, senza sapere che dire. Non abbiamo tutta questa confidenza, ci
siamo
incontrati per la prima volta solo poco tempo fa, eppure lei si
comporta come
se mi conoscesse da una vita. Tutto ciò che so di lei è che è
imprevedibile.
“Le notti bianche?”
chiedo, con un mezzo sorriso, ricordando ciò che è successo quasi un
anno fa. Lei
annuisce, sbattendo le ciglia.
“Mi piace il personaggio del Sognatore, credevo di avertelo
già detto”
“Certo, me lo ricordo. Ma l’ultima volta hai scelto Anna
Karenina, quindi..” lascio le
parole a mezz’aria, mentre mi siedo sul divano.
“Volevo solo omaggiare Dostoevskij una seconda volta”
sussurra lei.
“Non leggerò per te” sbotto. Non voglio ricominciare tutto
daccapo, dopo quello che è successo. Non sono pronto. “Puoi andare”
aggiungo
allungandole il libro.
Lei sta per dire qualcosa ma poi cambia idea, si alza e
recupera la borsa che è stata buttata sul pavimento con noncuranza.
Shirley
cammina lentamente verso l’entrata e mi rivolge un ultimo sguardo prima
di
uscire.
“Sayonara, aho*”
“Non pensavo ti
piacesse questo genere di libri” dico divertito, leggendo i titoli
della sua
piccola collezione. Ci sono volumi in inglese, in giapponese e persino
in
russo. Forse l’ho sottovalutata.
“Sai come si dice, non
si giudica un libro dalla copertina” risponde lei, beffarda “aho”
“Come mi hai chiamato,
scusa?” la fisso, riducendo gli occhi a due fessure.
“Hai sentito
benissimo, aho” mi risponde, ripetendo quel nomignolo.
“Fingerò di non aver
sentito” incrocio le braccia e torno a leggere i titoli dei libri.
Qualche secondo più
tardi quella che sembra una bandana viene messa davanti ai miei occhi,
impedendomi di vedere. La situazione si fa divertente.
Mi volto di scatto
togliendo quello che scopro essere un foulard dai miei occhi e vedo la
principessa-degli-scherzi-da-bambini che mi fa la linguaccia da dietro
il
divano. Faccio per rincorrerla ma inciampo in un lembo del tappeto e
finisco lungo
e tirato per terra, di faccia.
Dolorante, non ho
nemmeno il tempo per voltarmi, che lei si butta quasi a peso morto su
di me. Lo
sguardo di entrambi cerca quello dell’altro.
Noto che è leggermente
arrossita, è la prima volta da quando l’ho conosciuta. Quel leggero
rossore la
rende ancora più carina. Faccio per avvicinarmi a lei, ma le mie labbra
incontrano qualcosa che non somiglia nemmeno vagamente alle sue, apro
gli occhi
e vedo un pupazzo verde a forma di rana. La sento ridere.
“Sei proprio uno
stupido” e non posso non darle ragione, almeno questa volta.
Sul
suo bel volto è dipinto un sorriso triste che mi fa
dimenticare tutti i propositi che mi sono prefissato. Mi maledico e
lascio che
le parole escano dalla mia bocca.
“Era una notte
meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si
è
giovani, mio caro lettore. Il cielo era così stellato, così luminoso
che,
guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mai possibile che sotto
un simile
cielo vivano uomini collerici e capricciosi ? Anche questa, caro
lettore, è una
domanda da giovani, molto da giovani... voglia Iddio farla nascere
spesso
nell’animo vostro...”
Alzo lo sguardo, lei non se n’è andata. La sua espressione è
cambiata, è un misto tra confusione e sorpresa. Le sorrido e lei fa lo
stesso.
Muove alcuni passi verso di me, finché non ci troviamo a pochi
centimetri.
Riesco a sentire il suo profumo, è fruttato, dolce. Respiro a pieni
polmoni e
lascio cadere il libro a terra, probabilmente non mi servirà più.
Almeno per il
momento.
Lei porta una mano sulla mia nuca e mi attrae a sé, mentre
io vado ad abbracciarla per avvicinarla di più. Le nostre labbra si
uniscono in
un bacio dapprima casto, poi più profondo e passionale.
“Mi sei mancato” sussurra poi al mio orecchio, io sorrido,
conscio di essere un debole e, perché no, uno stupido,
perché, nonostante tutto, non riesco a resisterle. Credo,
anzi sono sicuro, che lei ci provi gusto nel vedermi così vulnerabile e
mi
odio, mi odio perché non ho saputo mantenere la promessa che mi sono
fatto due
mesi fa, mi odio perché non ho mai smesso di volerla un secondo
nell’ultimo anno.
Mi sfila la maglia e faccio lo stesso con la sua. La faccio
stendere su quel divano tanto grande quanto scomodo e i nostri respiri
si fanno
più affannati.
“Leggerai ancora per me?” chiede, col fiato corto. I suoi
occhi color nocciola sono fissi sui miei.
“Se ce ne sarà l’occasione”
La vedo sorridere e non riesco a fare a meno di imitarla.
***
Precisazioni:
*Sayonara significa arrivederci
*Aho significa stupido
Konnichiwa!
Qualcuno si ricorda di me? Sono
sparita per un bel po' dalla circolazione e mi scuso con coloro che
seguivano ''I'm free falling'', che per il momento è ancora in sospeso,
ho veramente pochissimo tempo da dedicare alle mie storie per colpa
della scuola.
Detto questo, ultimamente ho
ricominciato ad interessarmi ad anime e manga e ho avuto
l'illuminazione. L'idea iniziale era quella di una OS Larry, ma poi ho
pensato a qualcosa di diverso, non vogliatemene.
La storia avrà massimo cinque
capitoli (ancora sto cercando di decidere) e già dal prossimo ci sarà
un po' più di azione, e non solo tra Shirley e l'Amico Fritz.
Un'ultima cosa prima di tornare a
filosofia, il titolo fa riderimento all'omonima composizione di Michael
Nyman che fa parte del film "Lezioni di piano", vi consiglio di
ascoltarla, io me ne sono innamorata.
Spero che questo inizio vi sia
piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione.
A presto,
Gaia
ps. ringrazio me stessa per il banner, che giaceva lì nella cartella delle immagini da mesi in attesa di essere utilizzato (y)