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Autore: GreedFan    20/03/2014    1 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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ε.


Lo studio personale di suo padre, nella residenza cittadina degli Heisenhover, era la sintesi perfetta tra un ambulatorio polifunzionale e una pinacoteca. Thomas amava i quadri, in particolare quelli antichi e preziosi: le pareti della stanza, considerevolmente spaziosa per ospitare i numerosi macchinari di cui il Ministro si serviva, erano tappezzate da tele a olio e arazzi antichissimi, tondi di ceramica finemente dipinta e ritratti così realistici da sfondare la bidimensionalità del disegno.

Osservando il faccione rubicondo di un suo trisavolo, catturato dalla mano abile del pittore mentre piluccava delle bacche di obstgrün, Lienhard lasciò che suo padre gli picchiettasse la schiena in punta di dita e saggiasse il funzionamento di cuore e polmoni con una dermosonda ‒ quel marchingegno, all’apparenza un semplice disco di metallo opaco collegato ad uno schermo, poteva rilevare malfunzionamenti fisiologici anche minimi nello spazio di pochi secondi.

«Non capisco perché non mi hai detto niente». La voce di Thomas tremava di rabbia, ma le sue mani erano ferme «Avrei potuto provare qualcos’altro. Ho accesso a delle risorse praticamente infinite, e tu invece‒»

«Non volevo angosciarti con questa storia inutile». Borbottò Lienhard, a disagio «E pensavo che Kaïre fosse un po’ più affidabile».

Al sentire il nome di Kaïre, l’espressione di Thomas Heisenhover divenne improvvisamente triste.

«Come sta?». Scostò i capelli biondi dal collo del figlio e passò la dermosonda sopra la carotide, poi sulla tiroide «Sono settimane che non riesco a rintracciarlo».

Perché non vuole farsi rintracciare da te, vecchio”.

«Se la passa bene. Lo sai che è vivo, no? Finché ci arrivano i guadagni dello spaccio... ».

«Non riesco ancora a credere che preferisca vendere progesterone per strada, piuttosto che controllare i carichi importati dalle Nazioni Oltremondo. Dev'essere l'unico membro non ambizioso della nostra famiglia». Il Ministro si scostò dal figlio e accese il proprio o-Screen, un modello ben più avanzato di quello in possesso di Joseph Redthorn; scartabellò tra centinaia di file per qualche secondo, e dalle sue labbra sfuggì un lungo sospiro.

«Il tuo organismo è in sofferenza». Annunciò, accigliato «Le sostanze tossiche presenti in quelle capsule hanno rischiato, scusa l'espressione poco professionale, di fotterti il fegato. La tiroide è posto, ma non so per quanto se vai avanti così».

«Quindi?». Lienhard, per nulla toccato, scrollò le spalle «Si torna al caro vecchio Progestal?».

«Non esattamente». Il professore universitario era arrivato ad un tale livello di scoramento da accettare passivamente qualsiasi cosa gli venisse detta: l'episodio patetico di cui era stato protagonista l'aveva convinto ad affidarsi ai consigli di suo padre, per quanto sgraditi.

«Vediamo se riesco a indovinare cosa si cela dietro le tue risposte criptiche». Esalò, strofinandosi gli occhi stanchi «Mi infilo una gonnellina di foglie e ballo in cerchio finché la situazione del cazzo non si risolve da sola?».

Thomas sorrise. Quell'espressione, pensò Lienhard, rendeva il suo viso affilato ancora più simile a quello di un uccello rapace.

«Più o meno. In realtà la mia soluzione è meno drastica: ritirati in una delle case di campagna per qualche giorno e fai sfogare naturalmente il calore». Fece comparire dal nulla − o, almeno, così sembrò a Lienhard − un flacone di Progestal dal colorito anomalo, un rosso scurissimo che tendeva quasi al nero. «Nel frattempo,» continuò «perché immagino che non partirai subito, prendi questo. È un concentrato e ti sconsiglio vivamente di abusarne, ma sempre meglio di quello schifo fatto in casa».

«Sei sicuro che funzionerà? Se lascio che si sfoghi, intendo. Sai che io...» Lienhard puntò lo sguardo a terra, a disagio «... sai che non mi piace».

«Questo disastro sta succedendo, in parte, proprio perché non lasci libero il tuo corpo da troppi anni. Sei giovane, Lienhard, e prima o poi ne pagherai le conseguenze». Nello sguardo di Thomas Heisenhover c'era molto più che rimprovero, una nube di cupo rammarico e compassione che infiammò le guance del figlio. Lienhard sapeva che, per quanto il padre potesse amarlo, non avrebbe mai smesso di desiderare un erede alfa, qualcuno capace di badare a se stesso; chi, potendo scegliere, si sarebbe sobbarcato un onere come il segreto che il Ministro era stato costretto a proteggere per anni? Chi avrebbe rischiato la vita per la salvaguardia di un intoccabile?

Ogni volta che guardava il padre negli occhi scorgeva l'eco di quelle domande tormentose, i sibili inferociti di una coscienza che per anni non aveva fatto altro che accontentarsi, e si vergognava. Poteva quasi sentirli, i sussurri velenosi dei suoi sensi di colpa.

Accontentati del tuo figlio omega, Thomas, che non potrà mai accedere a nessuna professione che richieda una visita medica di controllo e tremerà dalla paura davanti alle porte vetrate degli ospedali, accontentati della nullità sempre svantaggiata, sempre mai abbastanza, di un cervello troppo brillante per trovare la felicità in una vita come la sua. Accontentati di un erede a cui non puoi dare niente se non un'esistenza di fughe continue, e guardalo mentre annaspa per ottenere la tua approvazione e colmare quell'abisso di riconoscenza che vi separa.

E adesso prova a raccontarmi che hai appeso il fiocco azzurro alla porta con un sorriso, Thomas Heisenhover.


◦○◦


Mancava un giorno alla successiva lezione in biblioteca, e decise di partire soltanto dopo averla tenuta. Non abbandonò la presa sul flacone di Progestal finché non fu tornato al campus dell’Universitas, con l’erba verde che crocchiava sotto i piedi e il profumo fresco degli alberi a tenergli compagnia; la prospettiva di far sfogare il calore lo inorridiva, ma se era l’unico modo di sistemare le cose l’avrebbe fatto. In genere durava poco meno di una settimana e poi svaniva così com’era venuto, per ripresentarsi dopo due o tre mesi; Lienhard aveva bloccato i suoi calori per quindici anni, dopo un’adolescenza costellata di assenze scolastiche dalle giustificazioni poco credibili e crisi di pianto isterico. Tremava di paura al solo pensiero di provare nuovamente quelle sensazioni.

Il flusso poco allegro dei suoi pensieri fu interrotto da un’incontro inaspettato.

Si fermò nel bel mezzo del corridoio che portava al suo alloggio, la mano ancora nella tasca dove teneva il Progestal, e spalancò la bocca come faceva da bambino davanti agli scheletri del Museo Zoologico di Fegith. Non c’era fossile capace di eguagliare il fascino incongruo della visione che gli si parò davanti.

«Kaïre?!». Annaspò, inghiottendo un bolo di saliva troppo grande per il suo esofago «Come hai fatto ad entrare? C’è un portiere nell’edifi‒»

L’albino troncò l’arringa con un gesto elegante della mano e inarcò le sopracciglia, palesemente compiaciuto. Indossava il suo peggiore assortimento di pantaloni in poliestere sgualcito e felpa extralarge di un colore tra il verde melma e il grigio fango ‒ l’unico accenno di colore in tutta la sua figura era il porpora delle iridi, che si perdevano quasi nel bianco arrossato della sclera. Sembrava reduce da una lunga notte insonne.

«Ti prego, Leny. Non più di sette ore fa stavo trafugando scatolame da un magazzino sorvegliato, pensi che mi riesca difficile entrare qua dentro?». Si staccò dal muro su cui stava appoggiato, e il movimento un po’ malfermo tradì tutta la sua stanchezza «Comunque il vostro portiere dorme. Non esattamente a prova di scasso».

«Come mai sei qui?». Lienhard, che non si era ancora del tutto ripreso dall’imprevisto, aprì la porta della stanza e si precipitò dentro «Vieni, vieni. C’è il solito casino, se mi avessi avvertito‒»

«Avresti lasciato tutto come prima e ti saresti prodigato in scuse ancora più patetiche». Kaïre pescò a caso un volume da una delle tante pile di libri e diede un’occhiata alla copertina, ridacchiando: «Il disagio della civiltà. Sembra una gran rottura di palle».

«L’autore è stato uno dei più grandi geni dell’epoca arcaica, uno che ha gettato le basi per‒»

«Leny, non sono interessato all’ennesima menata su un autore scomparso di cui non frega un cazzo a nessuno. Voglio sapere come stai tu». Rimise il libro al suo posto con uno scatto rabbioso e lo fissò a lungo, un cocktail di emozioni indefinibili intrappolate tra le ciglia candide «Non più di quattro al giorno, avevo detto. Quante ne hai prese in realtà, eh? Razza d’idiota».

No, adesso anche tu”.

Le grida di suo padre, quando aveva scoperto in che stato lo avevano ridotto quelle capsule, gli erano bastate. Avrebbe voluto far presente a Kaïre che era un uomo adulto, e come tale poteva scegliere liberamente in che modo spappolarsi il fegato, ma un pensiero fulmineo bloccò quella replica sul nascere.

«Ehi, aspetta un attimo. Chi te l’ha detto? Come hai fatto a sapere che era successo?».

Le sopracciglia dell’albino si sollevarono fin quasi a toccare l’attaccatura dei capelli.

«Davvero? Davvero, uno dei cervelli migliori dell’Universitas si riduce a farmi queste domande idiote?». Cacciò le mani in tasca e assunse una posa quasi ingobbita, nervoso. Nessuno dei due si preoccupò di chiudere la porta dell’appartamento, rimasta socchiusa. «Sei un omega che vive in un posto pieno di alfa nobili, per le due lune di Nenya! Pensi davvero che potrei dormire la notte se non avessi i miei mezzi per essere certo che stai bene?».

Sapere che Kaïre aveva i suoi agganci all’interno del campus non lo sorprese. L’attività di contrabbando l’aveva portato a possedere una rete capillare di conoscenze sparse per tutta Fegith, dai bureau esclusivi della politica ai vicoli fetidi in cui dimoravano soltanto prostitute e ladri; col tempo aveva anche acquisito una fama discreta, la nomea del ragno bianco che manovrava fili di seta con le lunghe zampe sottili, nascosto nell’ombra. Ogni filo era una cellula che si occupava dello spaccio locale di Progestal, nella capitale ce n’erano a centinaia; questo, naturalmente, faceva dell’albino il più prezioso luogotenente di Thomas Redthorn. Lienhard non aveva mai smesso di invidiarlo, per quello.

«Be’,» sbottò, irritato «adesso hai visto che sto bene». Se c’era mai stato il desiderio di abbracciare Kaïre e rimanere un po’ così, con le sue braccia a fargli scudo dal mondo, evaporò in un tempo infinitesimale. «Hai qualche altra domanda, visto che a quanto pare non ho diritto a starmene per i cazzi miei nemmeno a trent’anni suonati?».

Si sarebbe aspettato una reazione ugualmente irritata ‒ lui e Kaïre avevano litigato infinite volte, non disdegnando nemmeno il venire alle mani ‒ ma l’altro lo stupì socchiudendo le palpebre e producendosi nella sua migliore faccia da schiaffi. Frugò tra i suoi tratti morbidi, Lienhard, alla ricerca dei lineamenti scheggiati del padre ‒ li trovò nell’arco schietto delle sopracciglia, nel naso dritto e sottile, ma non nella bellezza cupa degli occhi. Fu la loro espressione di divertimento sincero a placarlo, come le principesse che, nelle favole della sua infanzia, ammansivano le bestie con la sola grazia eterea del volto.

«La voglia di darti dell’idiota non è l’unico motivo che mi porta qui, fratellino». Chiocciò, avvolgendolo in un abbraccio da cui non fu in grado di sottrarsi «Forse ho quello che volevi. Ibrahim mi ha chiesto un altro incontro».

La gola di Lienhard si strinse per la tensione.

«È…» inspirò «… è meraviglioso. Non pensavo che succedesse così presto, e mi devo anche allontanare per qualche giorno da Fegith, ma nel frattempo puoi comunque darmi una mano».

«Oh, ma come». Il tono finto-dispiaciuto di Kaïre si smorzò tra i suoi capelli, dove l’albino aveva affondato il viso «Adesso non ti va più di stare per i cazzi tuoi, mh?».

Lienhard inspirò, sforzandosi di non tremare. Di non tremare troppo.

«Non potremmo continuare questa conversazione come persone normali?». La risposta di Kaïre fu un verso lento e vibrante come le fusa di un gatto «Guardandoci in faccia, intendo».

«No». Gli affondò deliberatamente le dita in un fianco, ghignando «Che cosa vuoi che faccia per te, fratello mio? Riuscirai a convincermi molto meglio, così».

«Capelli». Esalò, lottando per tenere le braccia lungo i fianchi e non ricambiare l’abbraccio opprimente dell’albino «Mi serve il suo DNA. Qualche capello andrà benissimo».

La risata roca di Kaïre, un basso eh-eh-eh che sapeva solo parzialmente di allegria, era così simile a quella di Thomas Heisenhover che Lienhard si sentì stringere il cuore. “Io non sono il figlio di un ministro”, aveva detto, l’albino, quando si erano incontrati qualche giorno prima; quelle parole, lo sapevano entrambi, non erano altro che fragili bugie ‒ o, a voler essere fiscali, descrivevano un aspetto estremamente parziale della realtà.

«Poi mi spiegherai perché ti serve questo DNA, anche se dubito di poterne capire qualcosa». Le dita di Kaïre si agganciarono ai passanti dei suoi pantaloni «Nel frattempo potremmo‒»

«Siamo due omega». Esalò, in un sussurro appena udibile «È matematicamente impossibile che tu provi della vera attrazione sessuale per me. Il tuo organismo sta traslando l’affetto, o l’amore, o qualsiasi altro sentimento in qualcosa che somiglia all’eccitazione, ma non lo è». Si aggrappò alla felpa di poliestere, in barba ad ogni buon proposito «Siamo come cariche di segno uguale, ci respingiamo».

Lienhard sapeva che quel modo di fare era, per Kaïre, la manifestazione più ovvia dell’affetto che provava nei suoi confronti. Lo sapeva anche l’albino, e nonostante tutto non accennava a lasciarlo.

«Potresti comunque toglierti questi». Celiò, dando un leggero strattone ai pantaloni «Tanto per provare la veridicità delle tue teorie scientifiche. Ti ho già detto che adoro il voyeurismo?».

«Kaïre, ti prego, potresti comportarti da persona seria per cinque minuti nella tua vit‒»

«Lienhard».

Arrivò tutto insieme.

Sorpresa, paura, imbarazzo. Riconoscimento.

Spinse via Kaïre con una forza tale da mandarlo a sbattere contro una pila di libri e si voltò verso la porta, gli occhi spalancati. Il cervello in tilt. Perché la voce che gli aveva frustato i timpani, grezza e acre come il sale sulle ferite aperte, non era sicuramente quella dell’albino.

«Joseph». Afono, il nome del soldato gli sfuggì senza che se ne rendesse conto. Lo guardava con una rabbia tale, la mano stretta sullo stipite della porta fino a far sbiancare le nocche, che l’idea iniziale di edulcorare la situazione con una battuta delle sue svanì sul nascere. Negli occhi azzurri si addensavano nubi temporalesche, la bocca era una fenditura nell’acciaio.

«Leny, e questo chi è?». Non che l’espressione di Kaïre fosse più amichevole, ci mancava solo che scoprisse i denti e si mettesse a ringhiare. Lienhard maledisse silenziosamente se stesso per non aver chiuso la porta dell’appartamento e poi analizzò la situazione, raggranellando una calma di fatto inesistente.

Cosa doveva aver pensato Joseph, affacciandosi sulla soglia? Anche troppo semplice. Era convinto che Lienhard fosse un alfa, e, visto che Kaïre usava soppressanti solo in vista del calore, il suo profumo omega si svolgeva nell’aria come un invisibile filo di Arianna. Lienhard realizzò che sarebbe stato del tutto inutile accampare delle scuse, per quanto veritiere.

Si schiarì la gola e rispose alla domanda dell’albino, appesa nel silenzio immoto.

«Joseph Redthorn, un amico». Non gli sfuggì la contrazione nervosa sul viso del soldato «E la mia scorta personale, quella che mi ha assegnato il governo dopo l’arresto».

Kaïre arricciò il naso nell’epitome del disprezzo e ringhiò: «Skvien-shwasz um’ta. Salve, Redthorn. Sembra che non si possa andare da nessuna parte in questa città senza incontrare un membro della vostra famiglia». Lienhard sperò che Joseph non conoscesse il dialetto popolare di Fegith, o, in alternativa, che l’essere chiamato “lurido porco schifoso” non lo offendesse.

Per fortuna il soldato si limitò ad un’occhiata carica di superiorità e ad una replica che sembrava scolpita nel ghiaccio.

«Così come è difficile non incontrare immondizia della tua risma, omega». Nelle ultime tre sillabe infuse un disprezzo lacerante, senza sconti; Lienhard avvertì un dolore fisico, da qualche parte nel petto, subito sostituito da un’ondata di rancore.

Kaïre scoprì i denti in un ghigno quasi bestiale.

«Se non fosse perché potrei combinare qualche casino a Leny,» lo informò, serafico «ti spezzerei l’osso del collo senza pensarci due volte. Ci si vede, skvien-shwasz um’ta».

Posò un bacio sulla guancia di Lienhard, delicato come una piuma ‒ non si preoccupò nemmeno di staccare lo sguardo da quello di Redthorn, nel frattempo ‒ e sfrecciò fuori dalla porta prima che gli altri due se ne rendessero conto. Ci fu un attimo di impasse, dopo, in cui il professore riorganizzò velocemente i pensieri (benedicendo, tra l’altro, la saggezza dell’albino) e il viso del soldato divenne di una curiosa tonalità di prugna-bordeaux.

«Avrebbe potuto farlo davvero». Disse, poi, la rabbia una vibrazione di fondo nella voce «Spezzarti il collo. Kaïre è l’omega più forte che abbia mai conosciuto».

Joseph raddrizzò la schiena e gli lanciò un’occhiata di sfida: «Non vedo come avrebbe potuto. Stiamo parlando pur sempre di un omega, un debole‒»

Solo a quel punto, probabilmente, Redthorn si ricordò con chi stava parlando e chiuse la bocca.

«Allora?». Lienhard spalancò le braccia «Che diritto hai di venire qui a fare lo stronzo? Sei l’ultimo di una lunga serie, sappilo. Se non hai niente da dire puoi anche andartene».

Punto sul vivo, Redthorn sibilò: «Non pensavo che ti mescolassi con la feccia del ghetto, Heisenhover». Un angolo nascosto della coscienza di Lienhard suggeriva che l’improvviso malumore di Joseph avesse una causa tutto sommato scontata, che le sue fossero soltanto parole a vanvera. Ignorò quella voce, lasciando che il nervosismo e l’orgoglio ferito prendessero il sopravvento.

«Oh, sei tornato al cognome. Non vorrai mica che pianga, vero?». Fece un passo verso Joseph, ricordandosi improvvisamente di avere un flacone pieno di Progestal nella tasca della giacca. No, non poteva cominciare un match di pugilato senza venire scoperto. Quando parlò, nella sua voce c’era una freddezza mai sperimentata prima: «Senti, vattene».

Per un attimo fu come se sul contegno del soldato si fosse disegnata una crepa. Il suo viso si contorse in preda ad un dolore che dilagò nelle iridi azzurre, l’avvisaglia di un crollo a cui Lienhard sapeva di non poter assistere senza capitolare.

«Vattene». Ripeté, un tremito appena percettibile nella voce «Non ho voglia di starti a sentire».

Joseph aprì e chiuse la bocca come un pesce tirato fuori dall’acqua e lasciato a morire sulla riva di uno stagno, ma non indietreggiò. Era evidente che non si aspettava di venir cacciato in quel modo – il Lienhard che conosceva avrebbe cercato ogni modo per prolungare quanto più possibile il battibecco, amante com’era degli alterchi.

«Giusto perché tu capisca quello che hai appena fatto,» il pugno di Heisenhover si abbatté contro lo stipite, a pochi centimetri dalla mano di Joseph «e il peso delle tue parole». Gli occhi scuri ribollivano di rabbia, il lento stillicidio della sua voce fece sobbalzare il soldato: «Quello che hai definito feccia del ghetto è il mio fratellastro. La mia famiglia. Se ti ritieni troppo in alto per avere a che fare con lui, allora non rivolgere mai più la parola neanche a me».

Gli chiuse la porta in faccia con uno scatto talmente repentino e violento che Joseph ebbe appena il tempo di ritrarre la mano. Se non ci fosse riuscito, glie l’avrebbe spappolata.

«Inutile aspettarsi qualcosa di buono da un alfa». Mormorò, svuotato da ogni forza «Sempre la stessa merda, non importa quanto sembri diversa all’inizio».


◦○◦


Le labbra dell’alfa di nome Nyles non fanno in tempo a sfiorarlo.

Un grido squarcia l’aria, rauco e bestiale, e la presa sul collo di Lienhard svanisce di colpo; cade a terra, l’omega, e schizza all’indietro sulla pavimentazione umida ‒ le dita che cercano, che brancolano alla ricerca di un appiglio lì dove tutto è viscido e scivoloso.

Non capisce, all’inizio. È tutto confuso, assurdamente veloce nella sua mente frastornata, e quando un gruppo di figure incappucciate assale i due alfa e li trascina nel buio di un vicolo cieco Lienhard è troppo sorpreso persino per spaventarsi. Qualcuno si inginocchia davanti a lui e gli parla, la voce un’eco attutita dei suoi battiti cardiaci.

«Ehi, mi senti? Stai bene?». Gli appoggia una mano sulla spalla, stringendo affettuosamente «Lienhard, stai bene?».

Come fa a conoscere il mio nome?

«Chi…» ci vuole uno sforzo sovrumano per muovere la lingua, per separare le labbra «… chi sei?».

Lo sconosciuto ha i capelli bianchi, spioventi attorno al viso bellissimo, e gli occhi come cabochon di tormalina. Non sembra neanche vero, un angelo coperto di stracci luridi.

«Sono Kaïre». Sorride, come se questo servisse a chiarire qualcosa «Andiamo, Lienhard. Non puoi rimanere troppo tempo qua fuori, eh?».

«Sai chi sono». Balbetta, mentre Kaïre lo aiuta a tirarsi in piedi e lo conduce verso una scala di nylon appoggiata alla parete di una catapecchia «Tu, come…»

«Non è un buon momento per le domande. Fidati di me, sali».

Ci mette più tempo del dovuto, rischiando di scivolare sulle fibre lisce e resistenti della scala; l’albino lo segue in un attimo. Il tetto di lamiere sovrapposte su cui si trovano sembra un isolotto nell’arcipelago di baracche e palazzoni diroccati che compone la zona degli slums, caotica e pestilenziale come un girone dell’Inferno. Le altre figure incappucciate si arrampicano sulla scala come scimmie, i visi smagriti nascosti dietro sciarpe sbrindellate e mascherine di carta, e Lienhard inspira una ventata di odori omega che si mescolano in un’armonia dolce e gradevole, rassicurante.

Non c’è nemmeno un alfa, tra loro.

«Perché hai deciso di venire in questo quartiere, Leny?». L’albino si avvicina al limite delle lamiere e salta sul tetto della catapecchia successiva, ad una distanza di forse un metro e mezzo. «Dovrebbero averti insegnato che è meglio starsene chiusi in casa quando si avvicina il periodo dei primi calori. Sei fortunato ad avere qualcuno che si prende cura di te». Parla con malcelata ironia.

«Dove vuoi portarmi?». Il fatto che siano tutti omega lo tranquillizza, ma non si può dire lo stesso delle loro facce. Gli occhi di quegli individui sconosciuti si portano dentro una luce crudele che non presagisce niente di buono, sembrano un branco di cani smagriti alle dipendenze del lupo albino.

«In un posto sicuro, poco lontano da qui. Abbiamo già avvertito chi di dovere, tra poco ti verranno a prendere». Si spostano lungo un percorso che sembra battuto già molte volte, tra tetti bassi e vicini fra loro, fino a fermarsi sull’ampio terrazzo di una casetta intonacata di bianco. «So che hai paura,» dice Kaïre, spalancando una botola di ferro nel bel mezzo del pavimento polveroso «ma non c’è niente da temere: sappiamo chi sei e non vogliamo rapirti o chiedere un riscatto. Forse capirai perché. Piuttosto, non hai ancora dato una risposta alla mia domanda».

Se anche Lienhard volesse scappare sa che non ci riuscirebbe mai. L’agilità del gruppetto di uomini è fenomenale, sembrano ginnasti o artisti circensi ‒ per calarsi nella botola saltano senza esitazione, mentre Heisenhover si aggrappa ad una serie di pioli di ferro smussato conficcati nel muro e scende lentamente, tremando. Stare calmo, pensa, è l’unica cosa che puoi fare adesso.

«Ero…» inspira «ero scappato».

«Questo lo sapevo già. Ma perché? E perché hai scelto proprio il posto peggiore per nasconderti?».

L’interno della casa è semibuio, si sente un odore accogliente di legno stagionato e detersivo; l’inquietudine di Lienhard si spegne a mano a mano che attraversa una serie di stanzette arredate modestamente, fino ad un salone dal soffitto basso dove il gruppo si ferma. Travi di legno scuro sporgono dall’intonaco giallastro, e sul pavimento di mattonelle ci sono dei tappeti spelacchiati e un tavolo con quattro sedie. In un angolo fa bella mostra di sé un cucinino minuscolo e antiquato, a poca distanza da una porta che deve dare sulla strada.

«Sapevo che si stava avvicinando il momento anche per me». Si siede e incrocia le braccia sul tavolo traballante, rendendosi conto di avere fame «E ho avuto paura. Non so davvero perché l’ho fatto, ma appena ho sentito che il mio odore stava diventando più forte sono salito sul primo magnebus».

Kaïre inarca un sopracciglio come per dirgli che non l’ha bevuta fino in fondo. La situazione è un po’ più complessa di così, in effetti, e ha a che fare con il profondo senso di vergogna che Lienhard prova ogni volta che suo padre lo sottopone ad una visita medica di controllo. Il solo pensiero che Thomas Heisenhover possa percepire il suo odore omega, possa vederlo mentre suda e geme in preda al calore come la creatura impotente che è, lo riempie di un ribrezzo così forte che vorrebbe sparire. Non ha il coraggio nemmeno di chiedergli perdono per avergli insozzato la vita con la sua presenza.

«Strano che tu sia riuscito ad arrivare fin qui incolume». L’albino inspira a fondo e distende il viso in un’espressione quasi estatica «Hai un odore attraente anche per me che sono un omega, Leny. Una benedizione e una maledizione insieme… alfa nobili e potenti, molto diversi dalla feccia che hai evitato per un pelo poco fa, si ammazzerebbero per te».

Lienhard è preda di un brivido gelido, sgradevole. «Io,» sbotta, stringendo i pugni «io non diventerò mai la proprietà di un alfa!».

«Se parli così è piuttosto strano che tu te ne vada in giro a sbandierare in questo modo il tuo odore». Kaïre incrocia le braccia, sotto la pelle eburnea guizzano muscoli insolitamente tonici per un omega «Pensa a quello che sarebbe successo se qualcuno ti avesse riconosciuto, Leny. Pensa alla fine che avrebbe fatto la tua copertura».

Lienhard è cresciuto con la consapevolezza di essere un omega e di dover mantenere quel segreto ad ogni costo. Sapeva che prima o poi i calori sarebbero arrivati, e ha atteso quel momento angoscioso con una fermezza ammirevole per un ragazzo così giovane. Alla fine, però, la paura e l’insicurezza hanno avuto la meglio.

«Sono un imbecille». Ammette, stringendo la stoffa dei pantaloni fin quasi a strapparla «Non è una sorpresa, comunque. Sarebbe meglio se non fossi mai nato».

«Questa è una cosa molto brutta da dire». La voce dell’albino è quasi carezzevole, come se stesse parlando ad un bambino «Solo perché il mondo in cui vivi ti ha insegnato a pensare che gli omega non valgano nulla, questo non significa che sia vero. Il mio gruppo, per esempio, è composto di soli omega… sai? Nessuno ci ha mai battuto in una rissa che sia una». Ridacchia, si siede con un movimento aggraziato «Gli alfa sono più forti solo se noi glie lo permettiamo, Leny. So che a scuola sei il migliore della tua classe e in generale uno degli ragazzi più brillanti della città, come puoi pensare di essere inferiore a qualcun altro per un fatto puramente biologico?».

Non devono separarli che tre o quattro anni, eppure Kaïre sembra molto più vecchio. Ha indovinato il corso dei suoi pensieri con una lucidità impressionante, e il ragazzo, di fronte ai suoi modi schietti e comprensivi, decide di fidarsi.

«Riuscite davvero a tenere testa agli alfa?».

«Ne abbiamo appena uccisi due, Leny. Che altre prove ti servono?». Sorride, come se il fatto di aver ammazzato delle persone a sangue freddo fosse una cosa da niente. Ammirevole, in un modo del tutto malsano. «Il tuo mondo è troppo pieno di buone maniere e guardie del corpo – tutte beta, se ci fai caso – perché qualcuno realizzi questa semplice verità. Gli alfa sono feroci nel ribadire il proprio dominio, gli omega nel difendere la loro libertà».

La porta si spalanca di botto, impattando contro il muro. Sulla soglia compare una figura alta e distinta che Lienhard potrebbe distinguere tra mille, e che lo getta nel più completo terrore.

«Pa… papà». Balbetta, accennando un timido gesto di saluto. Thomas Heisenhover appare furibondo.

«Ti ringrazio, Kaïre». Spiccio, il Ministro ignora suo figlio e abbraccia l’albino con quello che sembra profondo affetto «Sei impeccabile come sempre».

La risposta di Kaïre è destinata a marchiarsi a fuoco nella memoria di Lienhard.

«Non c’è di che, papino».


Solo in seguito Lienhard venne a conoscenza della storia del suo fratellastro.

Kaïre, scoprì, era il primo figlio di Thomas Heisenhover, regolarmente acquistato in un vivaio poco prima che il Ministro conoscesse Dietmut. Strano ma vero, i medici non si erano accorti dell’albinismo del piccolo finché non era nato, e questo aveva portato ad una situazione poco piacevole sia per i responsabili del vivaio che per Heisenhover; la procedura voleva che il bambino venisse ucciso (la sua non era una malformazione grave, ma un funzionario d’alto rango non poteva certo accollarsi una simile storpiatura) e Thomas si era ferocemente opposto a quella soluzione. Aveva falsificato un bel po’ di documenti, corrotto dei notai, e si era portato via il neonato deforme che per legge non avrebbe potuto avere. Tenerlo con sé in una delle tante residenze cittadine, con tutta l’attenzione mediatica che la sua elezione aveva suscitato, era fuori discussione: era stata la sua neo-promessa sposa, Dietmut Schroder-Heisenhover, ad insistere perché Kaïre venisse allevato dagli uomini più fidati di Thomas. Era cresciuto nel ghetto, l’albino, protetto e addestrato per diventare un giorno il fulcro di quel contrabbando che aveva ingrossato enormemente le casse del Ministro, per essere il suo pezzo da novanta nello spaccio di progesterone.

Il perfetto paradigma del bambino-soldato.


◦○◦


Aprì la porta, pronto a tenere l’ultima lezione prima del ritiro forzato, e per terra trovò un O-screen.

Qualcuno ‒ e non ci volle molta fantasia per indovinarne l’identità – l’aveva poggiato a terra con cura, equidistante dagli stipiti e dalle pareti del corridoio. Quella manifestazione di precisione meticolosa fece sorridere Lienhard.

«Redthorn,» sbuffò «mi conosci così male da regalarmi una cosa del genere?».

Nonostante tutto, però, lo raccolse. Evidentemente Joseph si era presentato alla porta dell’appartamento per darglielo, e aveva ricevuto un’accoglienza inaspettata; quel pensiero pungolò la sua coscienza in un modo che non gli piacque per niente.

Non posso sentirmi in colpa. Che ne sapevo io? Poteva anche evitare di tirare fuori i peggiori luoghi comuni del suo repertorio”.

Se lo allacciò al polso, faticando con la complicata chiusura regolabile che faceva aderire il lattice alla pelle come un guanto; era un modello diverso da quello che aveva visto addosso a Joseph, sembrava più moderno e più costoso: grigio perla anziché nero, la superficie lucida come uno specchio era solcata da venature color oro pallido. Bello, forse persino prezioso.

Pare che sarò costretto a rivolgerti la parola, Redthorn.


«Per che si ha a notare che gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere, perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; si che la offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che la non tema la vendetta”». David Cooper annuì vigorosamente e prese qualche appunto su un tablet che doveva aver visto tempi migliori. Lienhard non si aspettava tanto entusiasmo per un trattato di politica vetusto come Il Principe di Machiavelli, ma i ragazzi della sua classe lo guardavano con interesse e non la finivano di scribacchiare e scambiarsi commenti a bassa voce.

Terminò la lettura del capitolo, inciampando un paio di volte nella sintassi complicata del Neolatino Medievale.

«Bene, non pensavo che vi piacesse».

«Invece è interessante. È bello vedere come certi problemi non cambino mai, anche a distanza di millenni». Ul’aan Sedaf, ragazza alfa dallo sguardo fiero, si ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Quando l’autore critica la politica del suo tempo, la corruzione… sembra incredibile che sia stato scritto nel sedicesimo secolo dell’Era Comune».

Joseph Redthorn, in fondo alla biblioteca, sembrava rinchiuso in una tale coltre di imbarazzo che, probabilmente, nemmeno alzandosi e insultando a gran voce il Gerarca si sarebbe riusciti a smuoverlo. Ogni volta che l’O-screen strusciava sul suo polso, Lienhard non riusciva a impedirsi di guardarlo; era assolutamente certo che anche Joseph si fosse accorto del bracciale argentato, e si chiese più vote cosa stesse pensando.

«E cosa ne pensi della proposta di Machiavelli? Della sua idea di principe?».

«È molto primitiva, ma ci sono delle cose giuste. Quando Machiavelli parla di “principe” non si riferisce all’immagine che ne abbiamo noi oggi, di un uomo gretto ed egoista, ma all’idea di un leader capace di riunire il potere nelle sue mani e fare il bene del popolo. Ho letto un compendio,» aggiunse, arrossendo un po’ per l’imbarazzo «e una metà del libro descrive le caratteristiche ideali del governante. Penso che su quello abbia ragione».

«E allora come giustifichi il motto “il fine giustifica i mezzi”?».

«Credo sia una visione molto riduttiva, e data a posteriori, del pensiero di questo autore». Era evidente che Machiavelli rientrava tra le preferenze di Ul’aan, e Lienhard le sorrise «Esiste un limite, anche per lui. E il fine, in ogni caso, non può mai essere qualcosa di strettamente egoistico, ma è sempre volto al bene dei cittadini… questo pone degli argini abbastanza stretti ai “mezzi” di cui si può disporre. Se i politici che governano questo mondo dovessero compiere azioni moralmente discutibili per il bene del popolo, non credo che potrei condannarli. Ma sappiamo che non è quello il problema».

Joseph si schiarì rumorosamente la voce e Lienhard dirottò la conversazione sul tema della vendetta e dell’annientamento senza mezzi termini del nemico. Alcune delle teorie esposte dagli studenti lo turbarono profondamente per la loro crudezza, ma riuscì a concludere la lezione senza incidenti.

Quando li lasciò alcuni di loro stavano ancora discutendo su cosa fosse più legittimo da un punto di vista ontologico, se lo smembramento o la decapitazione; lo stesso Joseph, appoggiato con aria casuale alla porta della biblioteca, seguiva il diverbio con uno sguardo vagamente scandalizzato.

«A volte mi chiedo se sia lecito limitare la loro libertà espressiva». Si fermò davanti al soldato, senza far caso alla sua indifferenza posticcia «Mi rispondo sempre di no. A cosa devo questo regalo, Joseph?».

Scosse leggermente il polso e l’O-screen luccicò.

«Non avevi detto di non volermi più parlare?». Gli occhi di Joseph erano dolorosamente belli ‒ Lienhard non riusciva a smettere di pensarlo, anche quando sarebbe dovuto essere arrabbiato e offeso e tutto il resto. Scrollò le spalle, godendosi la diffidenza appena venata di speranza del soldato.

«Eri fuori di te e io ho reagito male. Senti, so che Kaïre non ha esattamente un aspetto molto raccomandabile». Inspirò a fondo, mentre smontava il suo contegno pezzo per pezzo «Forse al posto tuo avrei reagito allo stesso modo. O forse no, insomma, non sono così irascibile e non combino casini del genere per la gelos‒» Lienhard si interruppe, desiderò una pala per scavare una buca e sotterrarsi.

«Heisenhover, tu‒»

«Cazzo, scusa. Non ho il diritto di dire certe cose».

Joseph sembrò irrigidirsi, arrivò addirittura a cacciare le mani in tasca ‒ un gesto insolitamente scomposto rispetto al suo solito portamento aggraziato.

«No. Il punto è che hai ragione, Lienhard». Quando lo guardò, sorridendo appena, il professore dovette trattenersi dall’annullare la distanza che li separava e abbracciarlo. Fu un momento frastornante.

«In che sens‒»

«Ti porgo le mie scuse, il mio è stato un comportamento inaccettabile e volgare. In realtà l’O-screen faceva da contraltare ad una mia richiesta, ma immagino che adesso questo non sia più possibile».

«Stronzate». Il sorriso di Lienhard si allargò come uno squarcio di cielo terso dopo il temporale «Avrei un bel leggere libri e comportarmi da professorino, se tenessi il broncio per una cosa del genere. Dev’essere una richiesta notevole, se in cambio mi hai dato questo».

«Vorrei che tu mi prestassi un libro».

Lienhard si impose di non spalancare la bocca troppo a lungo.

«E come… come mai questo cambio di vedute?».

«Ti ho ascoltato». Joseph sorrise «Durante le tue lezioni hai detto molte cose con cui non sono assolutamente d’accordo, e tante altre molto intelligenti. Quando avete parlato di Dostoevskij hai detto che il motivo per cui ami la lettura è che ti permette di vedere il mondo in modo più complessa, attraverso l’analisi di numerosi punti di vista. È vero». Si staccò dal muro e gli si avvicinò «Ma è vera anche un’altra cosa. La tecnologia, Lienhard, fa parte del nostro mondo esattamente quanto la tua letteratura. Per questo mi sembrava uno scambio equo».

«Uno scambio di prospettive». Lienhard annuì, compiaciuto «Perfetto, Joseph. Mi è già venuta in mente una cosa che potrei prestarti».








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Bon, capitolo che avrei potuto anche intitolare “family business” :D

Come avrete capito adoro gli Heisenhover e i loro scheletri nell’armadio. Adoro anche Lienhard e Joseph, ma questo è profondamente scontato ♥

Il capitolo batte di poco il precedente in quanto a lunghezza, e non sono riuscita a metterci dentro tutto quello che, da scaletta, ci doveva essere. Ergo prevedo che anche il prossimo sarà bello denso di informazioni :3

Se avete tempo lasciatemi un commentino, che mi fanno piacere e mi spronano a scrivere meglio ;)

Ci vediamo al prossimo aggiornamento,

Greedfan


   
 
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