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Autore: Pulciosa    03/07/2008    3 recensioni
Rincorrere i sogni ci ha sempre portato fortuna
Quanto vorrei amarti in solitudine
Guardami negli occhi e poi
Dimmi che non mi permetterai
di lasciarmi andare
o di dimenticare

[Compagna Teresa, Il Teatro degli Orrori]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Rincorrere i sogni ci ha sempre portato fortuna


Quando la neve iniziò a cadere, si sentì persa.
I fiocchi vischiosi turbinavano nell’aria, mentre il suo respiro appannava il vetro contro cui poggiava la fronte. L’incanto del lago gelato, la superficie di lucido specchio immobile e senza fondo, le metteva tristezza, e si domandava cosa ne fosse stato della piovra. Mentre si tormentava con pensieri inutili, avvoltolava una ciocca di capelli rossi sull’indice, in un movimento preciso e distinto, quasi meccanico.
I fiocchi continuavano a volteggiare.
Anche il Platano sembrava riposare, illusoriamente immobile.
Il candore del paesaggio la atterriva, ma un bacio posato sul suo collo la tranquillizzò.
Lily sorrise al vuoto, mentre un’ondata di calore la rasserenò, uccidendo i suoi cattivi pensieri. Si voltò lenta, con indolenza quasi sensuale, stringendo le braccia al petto.
- Non dovevi essere in punizione, James?-
Le piaceva ripetere quel nome. Un nome odiato, un nome sbuffato, detto tra i denti, sputato con rabbia, pronunciato con amore. Era qualcosa di intimo. Era suo.
Il ragazzo rise, voltando all’indietro la faccia impudente, per poi continuare a fissarla sorridente. Il suo sguardo si fissò a lungo sul viso della ragazza, per poi scendere sfacciato lungo la sua figura.
Non le importava, non era una violenza. Poteva aprirsi a lui, lo aveva già fatto. Era lusingata da quegli occhi che sentiva addosso, così vivi.
Si avvicinò a James, sino a sfiorare il suo corpo magro e nervoso. E con aria di sfida, lo baciò.


[ Era come una corsa folle, una corsa all’indietro. Ma niente li avrebbe portati via. Potevano solo ostinarsi un poco, senza nascondersi. Sfidarli, e morire come stupidi eroi. Potevano vincere, solo per qualche ora. Le sarebbe bastato. ]


Non sentiva più il gelo. L’aria nella stanza era satura, densa, quasi vischiosa, poteva sentire il suo respiro sul suo corpo, e voleva rimanere lì, ovattata e protetta. Si sentiva mangiare a poco a poco, dalle labbra di James, che si sfogava su di lei, con rabbia, con dolore, con soddisfazione, con delicatezza, a volte. Rimanevano le ore a giacere sopra le coperte pesanti, incuranti dell’aria fredda, a guardarsi negli occhi. E poi, dopo tanto, finalmente parlavano: e allora Lily si scioglieva, tutto quello che pensava, quello che sentiva, lo riversava in James, senza fermarsi, con foga. Stava lì, sussultando nuda tra le sue braccia, piangendo, col capo reclinato sul petto smilzo del ragazzo, avviluppata nei suoi stessi capelli.
James era serio, l’ascoltava in silenzio, e sapeva rassicurarla, succhiandole le lacrime dalle guance e rassettandole un po’ i capelli.


[ Tornare indietro, scappare.
Era inutile tentare di rinfrescarsi. Era un luglio di quelli bollenti, piuttosto torrenziali. L’unica soluzione era restare in casa, a mangiare un gelato nella penombra del salotto. Con le persiane verdi chiuse, stesa sul divano e tesa ad ascoltare tutti i rumori della casa.
La terra era arida fuori. Secca, spaventosamente secca.
Il lavandino gocciolava. Ritmico, costante.
La sua solitudine non la rallegrava, era troppo opprimente, come l’odore dell’acqua stagnante dei garofani. Sua madre li aveva comprati qualche giorno prima.
Non aveva voglia di studiare, non in quel momento.
A volte desiderava che fosse inverno, che fosse sotto la trapunta accogliente, a bere cioccolata fumante. Un’intimità con se stessa dimenticata da tempo.
Bussarono nervosamente alla porta. Colpi spezzati, veloci, quasi feroci.
- Ciao…-

Come può ogni cosa finire? ]



Sarebbe stato un Natale strano, quello. La gelida bellezza dell’inverno non la incantava più, e sentiva tutta la stanchezza di quella stagione. Lily appoggiava il mento sulle braccia incrociate, posate sul tavolo, e, con gli occhi socchiusi, fissava concentrata la parete coperta di libri. Nella biblioteca si sentivano soltanto scricchiolii di penne d’oca, che grattavano le pergamene degli studenti coscienziosi, qualche sporadico colpo di tosse, e le pagine dei volumi crepitare sotto lo zelo studentesco. Madama Pince fissava a turno ogni studente, quasi astiosa, e frenetica nelle sue mansioni.
- Lily, Lily, dai parlami per favore.- intuiva la presenza  dei suoi occhi scuri, umidi e ansiosi. Non si spostò, continuò immobile a scrutare il vuoto, sbattendo ogni tanto le ciglia, sospirando più rumorosamente.
- E’ un po’ tardi venire a piangere a Natale, non ti sembra?- aveva parlato, sempre nella stessa posizione, apatica e ferma, senza lasciar trasalire nessuna emozione dal tono smorzato, quasi sussurrato. - Sei stato occupato?-
Severus cercava di incontrare il suo sguardo, ma non ci riusciva. Non ci era più riuscito da quel giorno, quando le sue lacrime lo avevano colpito come uno schiaffo, consapevole della rottura. Aveva tentato, sperato, anche solo per sbaglio, ma Lily era come rinchiusa in sé, non lasciava più trasparire alcuna emozione. Non per lui, ormai.
- Occupato con i tuoi nuovi amici, suppongo.- e lì la sua voce neutra si era incrinata e lei, rapida, aveva afferrato la borsa ed era corsa via dalla biblioteca, nonostante le urla di Madama Pince e lo sguardo che sembrava perforarle la schiena.



Non lasciava che niente la distraesse durante le lezioni. Non le attenzioni ormai più discrete di James, non i discorsi dei professori. Poteva farne a meno, non era necessario.

[Con quanta rabbia gli aveva afferrato le spalle, non riusciva neanche a ripensarci. Sentiva il suo corpo sudato sopra il suo, pesantissimo e micidiale. Non si muoveva, era come morta. Doveva spengere quella sete orrenda che la divorava, asceticamente. Sentiva tutto il sapore di mani mercenarie sul suo corpo, impronte, toccata fuggevole. Lei, la sua intimità distrutta, molto piacevole. Giaceva supina, sentiva tutto il peso di quel corpo adulto su di lei, e voleva solo morire soffocata tra i cuscini mentre ansimava come un animale ferito.
Non si baciarono mai.
Lo leccò adorante.
Lo morse con piacere.
Lo graffiò a lungo.
Rincorreva un sogno al buio.
- Non guardarmi, mai.-
- Mai.- ]


Quando quel natale decisero di non rimanere ad Hogwarts nessuno si mostrò molto sorpreso. Non Sirius, che non abbandonava mai James, non Remus col suo buonsenso, non la McGrannit quando le consegnarono i loro permessi. 
Era solo l’inevitabile conseguenza di una guerra che avevano appena intrapreso.


































I vestiti giacevano per terra, arrotolati e spiegazzati, cose dimenticate nella fretta. L’aria greve dei loro sentimenti sapeva di quel veloce rapporto consumato inavvertitamente, come un regalo inaspettato. La condensa appannava i vetri della torre, e il fuoco del camino scoppiettava, caldo e baluginante. I due non si guardavano. Non potevano. Non potevano neanche parlarsi. Non era semplicemente il caso.
I vuoti occhi grigi di Sirius vagavano incessantemente da un punto all’altro del soffitto, come a misurare una distanza importante, da sinistra a destra, da destra a sinistra. Quella ragazza che giaceva al suo fianco, immobile e serena nella sua apatia, rimaneva in silenzio, con la mano che dondolava fuori dal bordo del letto. Le lenzuola ghiacce avvolgevano i loro corpi, contrastando spente sulle loro carnagioni chiare.
- A volte credo di impazzire, qua dentro.- la ragazza dondolava il braccio, con gli occhi socchiusi per la concentrazione. La stanza sembrava tremare da quell’interruzione del silenzio, quell’ansia inespressa di sentire, qualcosa, qualsiasi cosa.
Non ottenne risposta.
Sempre senza guardarlo, si mosse, tesa, allontanandosi il più possibile da quel corpo gelido che aveva vissuto pochi attimi, una vita, fa.
Un corpo che traboccava di vita, che quasi distruggeva quello che aveva intorno, lei, in quel caso, le gambe tornite avvolte intorno ai suoi fianchi.
Un corpo che ora era freddo quasi quanto il suo interesse. 
Si alzò, impossibilitata ad altra immobilità, rimanendo seduta sul letto, con la schiena appoggiata alla testiera. Le grandi vetrate continuavano a mostrare confuse immagini del nevischio invernale, mentre il parco curato luccicava per le vistose decorazioni natalizie.
Sirius continuava a giacere in silenzio, incurante di lei e delle sue parole.
- Buon Natale.- disse infine, in tono neutro.

Si stava agitando. Era sempre così quando perdeva il controllo.
Amabile e fatto, completamente perso.
Si chiedeva molto spesso cosa lo spingesse a presentarsi a quei raduni di gente priva di radici, priva di valori, così vuota ed artefatta.
Alla fine si sentiva a casa.
Lo osservava contorcersi sul palco improvvisato, nitido nonostante le sagome dei languidi spettatori. Stava urlando. Lui urlava, non cantava.
Si graffiava il torso nudo, e nella sua spaventosa magrezza riusciva a distinguerne con chiarezza le costole, una ad una. In quel momento stava mordendo una chitarra, sputando sangue.
Doveva essersi spezzato qualche dente.
Curt Wild riusciva a trasmettergli la forza di esprimere tutta la sua rabbia.
Sirius pesticciò il mozzicone di sigaretta ormai inutile.


















Non c’era terrore nel suo cuore. Pensava semplicemente che il nulla sarebbe stato più gradevole. Le illusioni che si era abilmente creato, e che concorrevano a rendere sopportabile quella situazione, si erano sgretolate una ad una, sotto l’azione implacabile del tempo che passava, del vento che soffiava violento. Non c’era più il suo segreto, era svanita in una vampata di odore di gelsomino. Non c’era neanche più l’idea di avere degli amici, andava semplicemente avanti per noioso tedio, alle volte con una punta di complice sadicità.
Mentre camminava nella folla, spesso rideva tra sé. Eh sì, bisognava essere abili per liquidare tutto ciò che desideravi nel tempo di un battito di ciglia. Era divertente pensare di averla spinta tra le braccia di lui che odiava follemente quasi con consapevolezza, nell’allontanare da sé quel sentimento che trovava patetico.
Il ghiaccio adornava tutte le vetrine colorate e addobbate per il natale, lucide e patinate, quasi irreali.
Da bambino Severus aveva avuto un unico albero di Natale, ed era quasi troppo piccolo per ricordarselo. Aveva convinto sua madre a comprare un piccolo alberello, più simile ad uno scheletruccio che altro, e si era impegnato a decorarlo come meglio poteva. Anche Lily gli aveva regalato una decorazione, un piccolo angelo bianco.
Quando anche quella piccola effigie si era distrutta sotto la forza di suo padre, ne aveva trovato un piccolo braccio bianco, sottile e mozzato all’altezza della spalla. L’aveva conservato in silenzio, nel secondo cassetto in camera sua: non aveva mai osato portarlo a Hogwarts, troppo fragile.
Rimase ad ammirare le decorazioni per molto tempo e decise che quel Natale avrebbe avuto l’albero più bello, persino più alto di quelli di scuola, fino al soffitto, con i rami che sfioravano terra per il peso degli addobbi fastosi, e centinaia di regali che giacevano sotto le frasche verdi.
Pacchetti grandi, pacchetti piccoli, con carte sobrie in colori caldi, e a fantasie vistose, con tante coccarde, ognuno accompagnato da un biglietto, tutti, tutti per lui. Avrebbe avuto tutti i libri interessanti che aveva adocchiato sin da quando era al primo anno, quando schiacciava il naso contro le vetrine lucenti, caldi mantelli foderati di pelo di lupo, abiti eleganti ma dalla linea semplice, niente di troppo ostentato, guanti in pelle di drago, la scorta per le sue pozioni, anche un Mantello dell’Invisibilità, una scorta vitalizia di leccornie di Mielandia.
Verso sera, si sarebbe seduto davanti al caminetto scoppiettante, e allora forse si sarebbe quasi alzato infastidito, quando qualcuno avrebbe bussato con smania alla sua porta, e sarebbe rimasto allibito a vederla così, davanti, all’improvviso, mentre gli si gettava fra le braccia, commistione di lacrime e risate…













Il dolore. Il dolore era ciò con cui smezzava la sua esistenza. A volte consisteva in parole aspre, frasi poco gentili, rancore negli occhi chiari di chi lo osservava, per la sua bassezza e la sua depravazione. Altre volte era la sua cieca furia di lupo, i denti aguzzi che si conficcavano nella spessa pelle ruvida, rivoletti di sangue opaco che scintillavano sulla sua pelliccia. Solo allora si sentiva appagato, offuscato e annullato. Nel dolore.
Riusciva a portare quelle emozioni violente che si agitavano dentro di lui in nuove direzioni, riusciva a usarle per vivere. Forse era storto, più che marcio, depravato, ma non riusciva a trattenere gemiti, quando, solo nel silenzio della Stamberga, pochi minuti a disposizione, si mordeva a sangue, per poi masturbarsi con asprezza.
Non avrebbe mai osato amare qualcuno come amavano i suoi compagni, era troppo pericoloso, e nessuno avrebbe potuto capire.
Aspettava lei, la sua solitudine.
  
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