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Autore: Niagara_R    23/03/2014    4 recensioni
Non è facile voltarsi dall’altra parte quando ormai anche l’altra parte ha tracce di me, delle mie verità, dei miei segreti stampati su ogni superficie e nessuno se ne accorge.
Non so cosa mi faccia sentire peggio. Che abbia il costante timore che io non riesca a occultare nulla, o che non una singola persona ci faccia caso.
O sono io bravo a fingere, o sono loro a non essere attenti.

Tratto dalla quarta immagine.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ashley
I giorni come questo non mi fanno bene.
Giorni in cui vorrei solo prendere una valigia, ficcarci dentro le due cose che per me hanno un significato e andarmene. Andarmene via. Lontano. Per sempre.
Giorni in cui mi sento strangolare, in cui ho la sensazione che persino il mio battito rimbombi attutito, in cui sono scontroso, chiuso in me stesso, con lo sguardo basso e la voce che non nasconde niente.
Giorni in cui sento il bisogno di essere libero. Libero davvero.
Non è facile voltarsi dall’altra parte quando ormai anche l’altra parte ha tracce di me, delle mie verità, dei miei segreti stampati su ogni superficie e nessuno se ne accorge.
Non so cosa mi faccia sentire peggio. Che abbia il costante timore che io non riesca a occultare nulla, o che non una singola persona ci faccia caso.
O sono io bravo a fingere, o sono loro a non essere attenti.
La seconda, immagino. Io non sono bravo a fingere. Sono bravo a glissare. Faccio finta di niente, calo veli su veli sui miei sentimenti, sulle mie illusioni, sulla mia personalità, sui miei desideri. Sul mio futuro.
Non so perché per me sia così difficile.
Eppure conosco gente che è riuscita a farlo per anni, per una vita intera.
Perché a me dà così tanto da fare non confessare che mi piacciono gli uomini? È una colpa? È un crimine? È una vergogna?
No.
No, no, no.
È inopportuno. Soltanto inopportuno.
D’altronde me la sono cercata. Mi sono costruito un personaggio, un’impalcatura solida su cui porre le fondamenta del successo, ho giocato mischiando luoghi comuni e bugie bianche, ho taciuto dettagli e ho permesso che gli altri si facessero idee in autonomia senza che io dovessi spiegare alcunché.
È così che è nato Ashley Purdy. Attraverso i filtri altrui. Non ho dovuto mentire, non ho dovuto crearmi alibi, non ho dovuto calarmi in un personaggio, mi sono limitato a lasciare che chi mi incontrasse pensasse di me ciò che voleva, che giudicasse dall’apparenza, e non mi sono mai preso la briga di smentire.
A quanto pare non ho l’aspetto di un frocio. È una consolazione? Una volta lo era. Adesso è una prigione.
Vado fiero di me per tanti motivi, e per altrettanti motivi mi sento una merda ogni volta che conosco qualcuno, che gli parlo, che rispondo su Twitter, che mi presto a un’intervista.
Adesso sì, mento.
Per necessità. Per sopravvivenza. Per autoconservazione. Per paura. Per autocommiserazione.
In giorni come questo mi faccio pietà.
Mi sento come se stessi soffocando dall’interno, come se stessi ingoiando azoto che si lega all’emoglobina impedendo all’ossigeno di farlo, mando giù aria senza riuscire a respirare eppure procedo, procedo nonostante tutto lungo un percorso che conosco a memoria ed è l’unico che forse riesce a tenermi in vita senza far franare gli argini.
Ashley Purdy per il mondo è una puttana. Una puttana in versione maschile, ma sempre una puttana.
Sono il bassista dal fisico scultoreo che fa esplodere le ovaie alle ragazze sotto al palco, sono il cantante glam che per le poche serate che fa riesce sempre a richiamare centinaia e centinaia di donne, sono lo stilista che ha inventato le Purdy Girls, sono il chiacchieratissimo ex di Kina Tavarozi, sono The Deviant, sono il vizioso dei Black Veil Brides, sono quello a cui si pensa quando c’è da organizzare qualcosa che comprende alcol a fiumi, donne con le tette enormi e delirio catastrofico.
Sono io, Ashley Purdy?
Sì. No. Forse. Talvolta.
Sono una facciata. Sono una creazione, sono un marchio che fa parlare perché da sé non ne sarebbe in grado, sono ciò che gli altri hanno bisogno di figurarsi per avere un punto di riferimento, un metro di giudizio, un feticcio da idolatrare. E sono falso.
Falso come i miei baci con Kina, falso come il mio legame con le bionde maggiorate con cui mi faccio fotografare, falso come i miei sorrisi quando guardo un obiettivo e non ho le forze per crederci.
In giorni come questo sono stanco, così stanco della mia vita da desiderare di piantare in asso il presente, incazzarmi e mettermi a urlare fino a gridare la verità e mostrare al mondo che sono patetico, introspettivo e fragile come il più irritante dei personaggi di un qualsiasi libro strappalacrime.
Manco alla mia integrità.
Manco al mio amor proprio.
Manco alla mia onestà.
Vorrei poter dire ad alta voce chi sono, come sono, vorrei sciogliere i nodi che mi legano agli stereotipi e farli scivolare lontano, vorrei confessarmi e ammettere che io con l’Ashley Purdy su cui la gente vagheggia non ho niente a che fare.
Vorrei poter dire che sono gay.
Vorrei poter dire che detesto che la mia esistenza venga toccata nell’intimo da persone che non conosco.
Vorrei poter dire che sono innamorato.
Vorrei poter dire che fa così male che non so dove fuggire per non sentirlo più.
E dove potrei scappare per fuggire da me stesso?
Eppure credevo che sarebbe stato facile, credevo che sarebbe andato tutto bene. Credevo che non mi sarebbe mai capitato di sentirmi travolto fino a minare le sicurezze che ho sempre avuto.
E la colpa è del Galaxy. Del ventitre marzo. Di Los Angeles. Del metal. Di Andy. È tutta, fottutamente tutta di Andy la colpa. E per quanto cerchi di odiarlo, di immolarlo, di scaricare su di lui il peso che sento sulle spalle, non riesco a non volergli bene.
Non ci riesco.
E mi maledico per questo, perché se l’amore che provo scomparisse, evaporasse, esautorasse starei meglio, l’ossigeno tornerebbe a scorrere nelle mie vene, le corde ruvide che mi segano i polsi e il cuore si disintegrerebbero, i miei sentimenti somiglierebbero a qualcosa di molto meno dannoso di uno stillicidio consapevole e autolesivo.
Senza Andy sarei libero. Senza Andy non mi sentirei confinato in un guscio da cui non so se vorrei uscire o in cui vorrei morire. Senza Andy dissimulerei senza difficoltà senza provare il minimo rimorso, e senza Andy non mi fare problemi a trovarmi un ragazzo diverso ogni sera, scoparmelo e poi gettarlo nel dimenticatoio come facevo prima.
Prima di incontrarlo.
Prima che i suoi occhi di fiordaliso mi sorridessero attraverso i capelli tinti di nero.
Prima che l’incantesimo di cui è impregnata la sua voce mi incatenasse definitivamente a qualcuno che non potrò mai avere.
Era marzo, ero al Galaxy con la mia band, avevo ventuno anni e pensavo che la vita fosse meravigliosa e pronta a prostrarsi ai miei piedi. Avevo appena finito di cantare una canzone che aveva fatto muovere a ritmo la testa di ogni tizio in sala, e all’improvviso ho visto un gruppo di ragazzini che con molta probabilità si erano vestiti al buio avvicinarsi al palco. Ed erano qualcosa che somigliava parecchio all’emo.
I metallari tutt’intorno avevano già cominciato a lanciare loro occhiate omicide, e per quanto nemmeno a me piacessero gli emo mi sono sentito in dovere di salvarli da un pestaggio certo che gli avrebbe fatto saltare i loro bei denti freschi di apparecchio. In un momento di pausa mi sono accostato a quel mucchietto di adolescenti ossuti, ma prima che potessi dire qualsiasi cosa lui mi ha preceduto.
«Mi piace come suoni la chitarra!»
Lui. Andy. Chi altro potrebbe dire una cosa del genere in totale tranquillità in un locale pieno di gente visibilmente pronta a fargli il culo?
«Anche noi siamo una band. Ti va di venirci ad ascoltare qualche volta?»
Noi chi? In quel momento non vedevo altri che lui, altri che quel ragazzetto dall’età imperscrutabile tra i quattordici e i diciassette anni con gli zigomi affilati e un sorriso che da solo era in grado di oscurare l’intero locale.
Quel sorriso mi ha fregato.
Quella sera li ho salvati facendoli entrare nel backstage, e confesso che per il resto del concerto ho cercato di fare il massimo, di dare il meglio di me, di rendermi indimenticabile. Volevo che fosse lui a non dimenticarmi più.
Non sono stato colpito da niente in particolare di lui. Era un ragazzino troppo alto e troppo sottile, dal viso spigoloso di chi è cresciuto tutto in una volta, e ricoperto di borchie, monili e puttanate che facevano un casino incredibile ogni volta che si muoveva.
Sono stato colpito dall’energia che emanava. Non era carisma. Era purezza. Era acido.
Era un’insondabile, esagerata sincerità, una sorta di ingenuità allo stato gassoso che rarefaceva l’aria e ubriacava, che sembrava esclamare che non aveva nulla da nascondere e era nitido come un foglio bianco, luminoso come la neve che riverberava i riflessi, strano quel tanto che bastava per essere adorabile. C’era forza. Una forza potente, magnetica, un campo gravitazionale che attraeva e faceva entrare in un’orbita non circoscritta, che chiamava a raccolta e lo rendeva il centro di un mondo di cui forse non si rendeva neanche conto.
E quel sorriso che mi ha preso, mi ha fatto cambiare marcia al battito cardiaco e mi ha teso una trappola in cui mi sono gettato senza pensarci due volte.
E adesso sono qui. Nei Black Veil Brides. Al suo fianco. Quasi dieci anni dopo. Col battito cardiaco che ricalca un requiem.
Sono confuso.
Sono sfinito.
Sono triste.
Vorrei dimenticarmi tutto.
Vorrei dimenticarmi lui.
Vorrei dimenticarmi come mi faceva sentire quando si entusiasmava quando facevo qualcosa che lo rendeva felice.
Vorrei dimenticarmi come mi fa sentire quando mi sorride durante i concerti e sembra che stia per abbracciarmi davanti all’universo che è riuscito a creare da sé, grazie alla sua energia, grazie a quel fascino inspiegabile e sleale che fa innamorare e poi ti abbandona senza darti la possibilità di non curartene.
La cosa che fa più male è che non lo sa. Non l’ha mai saputo. Non gliel’ho mai detto.
E Andy , come tutte le persone come lui, crede nel nitore, nel candore, nella trasparenza. Il suo animo non concepisce i sotterfugi, gli intrighi, le omissioni, non è in grado di percepire le parole non pronunciate perché non ne ha mai fatto uso e non comprende il motivo per cui non dirle.
Non sa che sono gay. Non penso gli importi. Per lui sono un amico. L’amico che l’ha aiutato a farsi un nome, quello che gli ha insegnato a farsi strada, quello che ha accanto da più tempo degli altri. Finito.
Andy non fa distinzioni labili, e io non sono così importante da travalicare il livello degli amici e finire in quello delle persone da tenere chiuse in un abbraccio.
È doloroso. Doloroso perché in fondo me lo merito, doloroso perché il problema non è lui ma sono io, doloroso perché vorrei smetterla di essere un suo satellite e prendere le distanze, ma non ci riesco.
Non ci riesco.
Perché non svanisce? Perché non si spegne? Perché ciò che provo non diminuisce giorno dopo giorno per farmi svegliare senza più questa droga in circolo? Dove sbaglio? Cos’è che non funziona?
Non dicono che l’amore finisce? Non dicono che è effimero, che è un’invenzione, che implode da sé?
Credo di essere la prova che l’eterno amore esiste.
‘Fanculo.
Posso ignorarlo quanto voglio, posso tacerlo quanto voglio, posso trovarmi un uomo diverso con cui abbandonarmi agli ormoni quando voglio, posso autoconvincermi quanto voglio. La verità è che non riesco a separarmi da lui. Da quello che provo, da quello che sento, dal senso di euforia brutale e scardinante che avverto quando gli sono accanto, dal tremore sconvolgente e idiopatico che spezza le parole che ho in gola e mi annienta con una cascata di piacere che non so spiegare.
È una dipendenza erosiva, un’assuefazione che mi spinge a ferirmi sempre di più per sempre di meno, figurativamente è l’equivalente del pugnalarmi giorno dopo giorno in un punto diverso, e per quanto sanguini non riesco a smettere. Non voglio smettere.
Vorrei, ma non voglio. Vorrei volerlo.
Vorrei che capisse, che usasse i suoi occhi di vetro per scandagliarmi e leggermi, vorrei che per un momento la smettesse di occuparsi di un popolo senza viso e si concentrasse sul mio sguardo, sui sismi che mi fanno vacillare sulle gambe quando siamo insieme, sul motivo per cui sto apponendo una distanza inutile che fa male solo a me.
Eppure basterebbe così poco per cambiare le cose.
Basterebbe che anch’io fossi sincero.
Basterebbe aprire la bocca e dirlo.
Sono gay. E tutto quello che sono stato finora è un simulacro infedele.
Suppongo che la mia vita non sarebbe la medesima di prima. Suppongo che tre quarti del mio seguito costante scoppierebbero in lacrime e non ci penserebbero due volte ad andarsene, perché in fondo in fondo la speranza che potessi accorgermi di qualcuna di loro era latente ma presente. Lo so. Lo so perché è la stessa identica speranza che costringe me ad alzarmi ogni mattina. La stessa identica speranza che mi inchioda in California impedendomi di tornarmene a casa e chiudere coi BVB. La stessa identica speranza che mi impedisce di confessarmi e girare quell’unica pagina che mi manca per chiudere il capitolo, e forse passare a un nuovo romanzo.
Cosa ne sarebbe di me se sapessero?
Le donne, le ragazzine, le mie Purdy Girls si sentirebbero oltraggiate e mi volterebbero le spalle come amanti rifiutate. La maggior parte delle fan dei Black Veil Brides, sveglia com’è, non apprezzerebbe per niente un coming out che probabilmente giudicherebbero inconcepibile, e magari contro natura.
Il mio mondo andrebbe in pezzi. La nicchia che mi sono costruito nel tempo crollerebbe, verrebbe divelta e sprofonderebbe lasciandomi senza un riparo, senza un sostegno, senza più quel percorso che avevo iniziato un po’ per gioco e un po’ distrazione, e che è diventato la mia esistenza.
Non ho nessuno da cui tornare. Non ho una famiglia di cui far parte. Non ho un background che mi appartenga. Vivo della mia apparenza, relegando la sostanza oltre un sipario dietro cui mi nascondo quando ho bisogno di ricordarmi chi sono e su cui piangere senza un’anima intorno.
Rivelando me stesso permetterei a un’orda di sconosciuti di entrare nel mio spirito e analizzarlo, scoperchiarlo, vagliarlo, toccarlo, graffiarlo, mallearlo. Non voglio. Non posso.
Sono un idolo. Un dio sceso in terra, un irraggiungibile, un inarrivabile. Sono un sogno che un numero sempre più grande di persone anela ma che in realtà non vorrebbe mai incontrare per paura che io mi riveli qualcosa di diverso da ciò che immaginano, e non sono abbastanza crudele per farlo.
Le persone hanno bisogno di illusioni, hanno bisogno di covare un desiderio che non si avvererà mai.
È un gioiello. Una fantasia preziosa che diventa quasi tangibile, è una gemma da tenere vicina al petto e da non far vedere a nessuno, è l’unico segreto da non rivelare, è il confine che divide il vero dal possibile.
Il mio gioiello è Andy. Un gioiello maligno. Un gioiello che brilla di luce propria e che mi brucia le mani se tento di stringerlo, dalla superficie liscia eppure taglia come se fosse cosparso di spine, e sfuggevole come un fantasma alle prime luci dell’alba.
Vorrei che lui sapesse. Vorrei scostare il sipario per mostrargli cosa nasconde, vorrei rivelargli la verità, vorrei che si accorgesse di me, di cosa provo, di cosa sono, vorrei che si rendesse conto che mi basterebbe sapere che sa per essere in pace.
Vorrei un bacio, un unico, miserabile, semplice bacio per avere la forza di andarmene.
Lo voglio vicino, ma vorrei essere lontano. Vorrei che sapesse, ma vorrei che non cambiasse. Vorrei essere me stesso, ma non voglio lasciar cadere la mia maschera.
Un circolo vizioso affilato che non mi abbandona, una croce aguzza che mi scava le spalle, l’incertezza che diventa ghiaccio e mi blocca il cuore e mi chiude in una gabbia da cui non so se voglio uscire.
Non lo so.
Ho paura e non so cosa farci.
Sono innamorato di un ragazzo che non capirebbe.
Vorrei non essere l’Ashley Purdy che tutti conoscono.
Vorrei essere l’Ashley Purdy che io conosco.
Vorrei che fosse facile mollare tutto.
Vorrei che fosse facile mollare Andy.
Vorrei che venisse con me.
«Ehi, Ash.» Trasalgo quando Jesse entra nella mia stanza. Non mi ero accorto neanche dei suoi passi «Vai tu a chiamare Andy?»
«Certo.» Fa bene, fa male, fa tutto insieme quando il suo nome mi scivola sulla pelle e penetra fino ai globuli rossi.
«Tra quindici minuti.» mi ricorda il fonico. Annuisco e se ne va, e io non ho altra scelta che camminare fino alla tenda dov’è Andy e avvertirlo.
Ormai mi limito a questo.
Vorrei poter dire che la nostra amicizia sbocciata per caso al Galaxy non è cambiata, ma lo ha fatto. Lo ha fatto così tanto che non riesco più a riconoscerla. Che non riesco più a sopportarla.
Da mesi io e Andy procediamo su sentieri separati, sto tentando di spezzare il filo rosso che ci lega ma quel bastardo è resistente quanto tela di ragno, e più mi allontano e più sembra crescere la tensione che mi spinge di nuovo verso di lui.
Mi manca. Mi manca da morire.
Ma non voglio voltarmi indietro.
Se non sarò io a spaccarmi il cuore, lo farà lui.
E me lo farò andare bene.
Mi alzo, raccolgo un sospiro ed esco dal padiglione, sotto la calura asfissiante composta da tasselli di umidità e afa sabbiosa.
Continuo a ripetermi che ho bisogno di una pausa da lui, dai BVB, dal successo, da qualunque cosa appartenga all’adesso, e a furia di assillarmi mi convincerò. Spero.
Non hanno bisogno di me, non ho bisogno di loro.
Ho solo bisogno di avere le idee chiare, di disintossicarmi, di raccattare i pezzi della mia anima che ogni giorno si polverizzano sempre di più e troncare questo amore che non ha nessun senso. Nessuno.
Andy non si accorgerà mai di quello che provo.
Andy non si accorge nemmeno che me ne sto già andando.
Meglio.
Ogni volta che ci penso vorrei strapparmi la pelle a mani nude per provare meno dolore.
Ma meglio.
Busso alla sua porta di slancio, perché se dovessi rifletterci non lo farei.
Non risponde.
Abbasso la maniglia e faccio un passo.
Se ne sta seduto sulla poltrona, le mani sulle cosce e lo sguardo che vaga verso la finestra, verso il verde del prato, verso un’immagine che non posso vedere e che non mi riguarda.
Capisco. Immediatamente. E non vorrei.
«Tra quindici minuti in studio per il sound check.» Da un po’ faccio così: le parole indispensabili, ridurre al minimo i verbi che ci accomunano, voce monotono. Adesso dovrei indietreggiare, richiudere l’uscio e levarmi dai piedi in silenzio.
Dovrei.
Dovrei assolutamente.
Per evitare di precipitare ancora.
Ma non lo faccio.
Andy muove la testa, sbatte le palpebre e scruta il vuoto. Ha qualcosa che non va. Lo conosco da troppo tempo per non accorgermene ancora prima di vederlo. Mi basta percepire l’aria che si addensa, il rumore del suo silenzio, la piega delle spalle, l’atteggiamento della bocca, la posizione in cui è, la vividezza degli occhi.
Che schifo.
Mi odio.
Perché?
Perché basta la sua presenza per ricordarmi che dentro di me c’è un frammento di lui?
«Cosa c’è che non va?»
Mi guarda. Mi fissa. Mi trapassa. Mi travolge con l’intensità feroce delle sue iridi color universo e devo tenermi allo stipite per non liquefarmi a terra e abbandonarmi agli inutili momenti come questo, brevi, impercettibili, e così struggenti da fare violenza al mio buonsenso e spingermi a implorare la sua pietà.
Non farmi male.
Non guardarmi in quel modo.
Non guardarmi come se avessi disperatamente bisogno di me.
Non mentire.
Non illudermi in maniera tanto meschina.
Si alza con una mossa fluida, dissolvendo la tensione palpabile in meno di un istante. Ecco.
Svanito.
Il vuoto sotto i piedi non mi fa andare né avanti né indietro.
«Niente.» Bugia, ma una bugia meno aggressiva e meno penosa, cui mi sono abituato.
Non siamo più amici come prima, non abbiamo più una relazione come prima.
Non mi devo aspettare niente.
«Ci vediamo là.»
Mi passa accanto con una falcata, e nelle narici avverto una traccia di profumo di Hugo Boss, il sentore dei capelli di Juliet, e il suo odore.
Odore di maschio. Di uomo. Di Andy.
L’odore che mi ricorda cos’è la felicità.
E che non posso averla.






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Buoooooooongiorno signore e signori! *Schiva pomodori e altre cose* Ok, lo sho, sono in ritardo meditabondo e vergognoso qui su EFP! ç__ç Però non vi ho abbandonate, sappiate che non lo farò, nonostante il tempo che passa! >___< (Ciò vale anche per Look Around [come immagino in realtà vi interessi molto di più!XD] ma ogni cosa a suo tempo. Orbene, questa è la penultima puntata di questa miniraccolta di introspezioni. Sono contenta che ci siano alcuni di voi che la leggono con piacere e che provino empatia verso queste parole e queste immagini, e, beh, spero di riuscire a dare un'immagine veritiera e credibile dei nostri cinque eroi seppur filtrati dal mio punto di vista. Quarto membro è stato Ashley, coi suoi tumulti, e quindi per ultimo verrà Andy... spero dunque abbiate apprezzato ciò che avete letto. Alla prossima, e ultima, puntata di questa serie!
Vi ricordo che, per qualunque aggiornamento in tempo reale voi possiate desiderare, potete seguirmi su 
 e 
dato che per la maggior parte i miei simpatici scleri li trovate tranquillamente lì. u.u
Un bacio, a presto (spero!) :D
   
 
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