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Autore: Lost on Mars    24/03/2014    10 recensioni
A diciassette anni non sai cosa sia la morte e perché debba capitare proprio a lei. Non sai perché il destino abbia deciso di fare questo scherzo proprio a voi. Perché tu debba soffrire così.
A diciotto capisci che non si può più cambiare nulla, allora provi ad uscire di casa, ma tutto ti ricorda troppo lei.
A diciannove ricominci a vivere, ma sei ancora legato ai fantasmi del passato,tant’è che non riesci più a legarti a nessuno, perché ti sembra di tradirla, perché la ami ancora, anche se è morta.
Ashton ha diciannove anni ed è convinto che il tempo che guarisce ogni ferita sia un gran cazzata: lei è morta da due anni, ma lui non smette di sanguinare dentro.
E se fosse una persona a guarire ogni ferita? Se il tempo non c’entrasse proprio niente?
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«Non credo quanto possa interessarti la storia di un ragazzo depresso.»
«Oh, non credo che tu sia depresso. Non hai l’aria da depresso.»
«Allora devi essere una pessima osservatrice.»
«Hai l’aria da distrutto, a dir la verità, ma hai anche l’aria di uno che ne è uscito, da qualsiasi cosa tu fossi dentro. Hai un sacco di arie, in effetti.»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
 
«Oh, it’s in the stars. It’s been written in the scars of our hearts.»
(P!nk ft. Nate Ruess – Just give me a reason)

 
La prima volta che Thalia aveva visto Sydney aveva pensato che tutte le cartoline, le foto su internet e i racconti di suo zio al telefono non le rendevano affatto giustizia. Vederla con i propri occhi era stato indescrivibile. L’America non era niente, a confronto. Quando era ancora in aeroporto, con la sua valigia rossa, non aveva ancora idea di quanto Sydney potesse essere bella, ma soprattutto, non aveva idea di quanto potesse essere grande.
Era convinta che, senza suo zio che le spiegava dove portava ogni strada, non sarebbe durata due minuti in quella città. Dopotutto, non che facesse questi grandi spostamenti: la mattina prendeva l’autobus per andare a scuola e, talvolta, il pomeriggio usciva con le sue amiche che conoscevano la città meglio delle loro tasche.
Una cosa però era certa: prima di arrivare a Sydney, Thalia aveva una vita ordinaria, anonima nella sua piccola cittadella nel cuore della Pennsylvania, da dove osservava il cielo e pensava che lì fuori sarebbe arrivata la sua occasione, il suo momento. Poi i suoi genitori avevano deciso di trasferirsi, perché in Pennsylvania le cose non andavano bene, ed ecco che era cambiato tutto. Ma tutto non era cambiato quando era scesa dall’aereo, né quando aveva varcato le porte della sua nuova scuola, oppure quando Luke Hemmings aveva deciso di averla come amica e aveva cominciato a chiamarla ogni giorno.
Tutto era cambiato quando aveva conosciuto Ashton Irwin.
Quando lo vide per la prima volta, circa un mese dopo essere arrivata a Sidney, le sue compagne di classe l’avevano invitata a passare un pomeriggio al centro commerciale per conoscerla meglio, e lei aveva accettato. Fu proprio lì che lo vide.
Lo notò  perché, tra tutti i ragazzi che avevano visto quel pomeriggio, lui era l’unico che se ne stava seduto da solo su una panchina, col cellulare in mano e uno sguardo triste. Thalia odiava gli sguardi tristi. Odiava la tristezza in generale. Perché le persone dovevano lasciarsi abbattere dalla tristezza? Era una cosa ingigantita talmente tanto che si lasciavano colpire e si arrendevano, credendo di essere troppo deboli, ma in verità, le persone erano più forti della tristezza, solo facendo un sorriso la mandavano via. E cos’è un sorriso rispetto a tanti  altri gesti che siamo in grado di fare?
Lui rimase  a fissare il cellulare per tutto il tempo che lei rimase fuori dal negozio in cui due delle sue amiche erano appena entrate, e lo osservò, cercando di capire perché fosse così triste. Poi lui alzò lo sguardo e Thalia vide negli occhi di Ashton il dolore di chi aveva pianto e aveva avuto il coraggio e la forza di smettere, per affrontare il mondo a testa alta. Allora, imbarazzata e rossa in viso, si girò a guardare altrove.
Quando ci parlò per la prima volta, fu qualche mese dopo l’episodio del centro commerciale,verso gli inizi di Novembre. Era andata al parco vicino casa sua per studiare in pace, dato che sua sorella non la smetteva di fare chiasso insieme alle sue nuove amichette, mentre si imbrattavano con ombretti-giocattolo. E lui era lì, seduto sull’altalena, senza dondolarsi. Indossava dei jeans neri, strappati sulle ginocchia spigolose, e solo allora Thalia si rese conto di quanto fosse magro. Aveva una camicia a quadri rossa e bianca aperta, a maniche corte, su una canottiera nera, guardava sconsolato a terra e respirava piano, come se anche respirare gli richiedesse troppo sforzo. Thalia, allora, che si era seduta sotto l’ombra di un albero, rimise i libri nella borsa colorata e si avvicinò all’altalena. Si mise seduta sull’altra seggiola di plastica rossa, con la borsa in grembo e lo sguardo perso di fronte a sé, mentre con la coda dell’occhio guardava Ashton ogni tanto. Lui si accorse di lei solo quando la catena che teneva sospesa la sua seggiola cigolò, allora si voltò di scatto e la osservò.
Non l’aveva mai vista prima, altrimenti, si disse, l’avrebbe ricordata una ragazza così strana: capelli castani che, quel pomeriggio, colpiti dal sole, avevano dei riflessi rossi. Occhi di un colore che Ashton non aveva mai visto prima, forse perché negli occhi non ce l’aveva ancora guardata, e perché aveva paura a farlo, ma gli sembravano verdi, però non erano verdi, erano… strani, ecco come li avrebbe definiti. Era vestita con dei jeans tutti disegnati – ed era sicuro che non fossero usciti dalla fabbrica ridotti in quel modo – e una felpa nera, anche se all’estate mancava davvero poco, ad Ashton era parso di aver visto delle orecchie da gatto sul cappuccio. Un ammasso di eccentricità unica, ma piacevole nel complesso. Aveva uno stile tutto suo.
E mentre lui la guardava ancora, con la fronte aggrottata, lei si girò e incontrò i suoi occhi. Allora Ashton poté essere sicuro che gli occhi della ragazza fossero esattamente uguali ai suoi: un po’ verdi e un po’marroni, più chiari col sole e più scuri con la pioggia. E fu allora che lei gli sorrise e aprì la propria borsa, tirandone fuori degli occhiali da sole, dei Ray-Ban neri.
Ashton ritornò con la mente a due anni prima dove, sempre in quel parco, Lilian aveva tirato fuori i suoi Ray-Ban neri e glieli aveva messi sul naso. Allora Ashton tossì e cominciò a tremare, anche se non faceva per niente freddo.
Thalia lo guardò ancora, spostandosi i capelli all’indietro, e poi «Ti senti bene? Vuoi che chiami un’ambulanza, oppure…» provò a chiedere, ma lui fece di no con la testa. «Intendi “no, non sto bene” o “no, non chiamare un’ambulanza?»
«Entrambe.» rispose Ashton. Non poteva stare affatto bene con il ricordo di Lilian a bussare sulle pareti del suo cervello, ma non era ancora uscito così fuori di testa da aver bisogno di un’ambulanza. Aveva già una psicologa a fargli credere di essere pazzo, un pronto soccorso non avrebbe di certo migliorato le cose.
«Quindi stai bene ma devo chiamare un’ambulanza?» chiese ancora Thalia, mettendo una mano sotto al mento, pensierosa. Ashton sbuffò, quella ragazza era decisamente strana. Non capiva se era lui lo stupido o lei ad essere troppo intelligente.
«Non sto bene, ma non mi serve un’ambulanza.» disse il ragazzo, scandendo bene ogni parola.
«Problemi di cuore?» chiese Thalia.
«Scusa, che te ne frega?» ribatté Ashton in modo abbastanza scorbutico. Tanto, lui le allontanava sempre le persone, con quella sconosciuta non sarebbe stato diverso. Bastava distaccarsi, bastava non guardarla negli occhi, bastava chiudersi come sempre. Bastava innalzare il solito muro, mattone dopo mattone.
«Hai ragione, sono così maleducata che non mi sono nemmeno presentata» esordì la ragazza, togliendosi gli occhiali da sole, li mise sulla testa a mo’ di cerchietto. Poi gli tese la mano e «Thalia.»
Ashton osservò la mano piccola e all’apparenza così fragile di Thalia, spaesato, quella ragazza ragionava a modo suo, parlava in modo particolare,  e lui non poté far altro che stringergliela e dire «Ashton…» confuso come non lo era mai stato. La mano di Thalia era calda.
«Allora Ashton, io sono venuta qui per studiare ma a quanto pare la cosa non è andata a buon fine…» iniziò Thalia, gettando un’occhiata sconsolata alla sua  borsa. «Tu perché sei venuto qui?»
«Ci vengo ogni pomeriggio, e poi non credo quanto possa interessarti la storia di un ragazzo depresso.» rispose Ashton, dandosi una leggera spinta con i piedi.
«Oh, non credo che tu sia depresso.» disse Thalia, si sporse dalla seggiola per guardarlo meglio. negli occhi. «Non hai l’aria da depresso.»
«Allora devi essere una pessima osservatrice.» disse Ashton, scettico.
«Hai l’aria da distrutto, a dir la verità, ma hai anche l’aria di uno che ne è uscito, da qualsiasi cosa tu fossi dentro.» ribatté Thalia, cominciò a dondolarsi anche lei, prima piano e poi sempre più velocemente. «Hai un sacco di arie, in effetti.»
«Sei davvero strana, lo sai?» le chiese Ashton.
«Sì, me lo dicono in molti, però sei strano anche tu, altrimenti non staresti qui a parlare con me, non trovi?» esclamò Thalia, salendo sempre più in alto. Ashton alzò gli occhi al cielo e cominciò a dondolarsi sempre più velocemente, nemmeno sapeva perché, ma quella ragazza – Thalia, si corresse – sprizzava energia pura, che lo investiva come l’avrebbe facilmente investito un camion. Lo colpiva in pieno. Gli entrava dentro. Era come se prendesse un po’ della sua luce, della sua gioia e la mettesse dentro di lui senza nemmeno chiedergli il permesso.
«Tanto non mi batti.» gli disse lei.
«Ho sempre superato tutti!» ribatté Ashton, e poi si ritrovò a ridere, cosa che non faceva da tanto tempo, così tanto che nemmeno se lo ricordava. Allora Thalia rallentò fino a fermarsi definitivamente, i capelli scompigliati e il cappuccio con le orecchie da gatto tirato su. Fissava Ashton con uno sguardo dolce e radioso.
«Che c’è?» le chiese quando anche lui si fermò.
«Ora non hai più l’aria da distrutto, hai sorriso!» esclamò Thalia, scese dall’altalena e si rimise la borsa di stoffa colorata a tracolla. Ashton la guardò meglio: era decisamente una ragazza strana. Non si conoscevano nemmeno, eppure eccola lì, ad aver fatto quel che poteva per farlo ridere. E poi, c’era qualcosa di strano… il modo in cui parlava, il modo in cui si muoveva, Ashton ne rimase colpito, perché nessuna ragazza che aveva incontrato era così luminosa senza essere appariscente.
Nessuna tranne Lilian. Lilian brillava, ma solo agli occhi di Ashton. Era bellissima, ma solo per Ashton. Lilian era la sua oasi segreta, era sua e di nessun altro. Era gli occhi da cui tornare a casa e le labbra da baciare perché, maledizione!, i baci di Lilian erano sempre troppo pochi.
Ma Lilian è morta, Ashton. Dovresti ricordartelo.
Ashton chiuse gli occhi per un momento, affogando nel buio dei ricordi. «Devo andare.»  si alzò dall’altalena e si sistemò il colletto della camicia all’infuori, superò Thalia, passandole accanto, e si avviò verso l’uscita del parco.
«Sei tutti i giorni qui, Ashton senza-cognome?» gli chiese Thalia con un tono di voce più alto, sorridendo come una bambina.
«Irwin» precisò lui, dopo essersi fermato, le dava le spalle. «Ashton Irwin.»
«La mia domanda era diversa, Ashton Irwin.» disse ancora Thalia.
«Sì, e tu vieni qui a studiare tutti i giorni, Thalia senza-cognome?» Ashton si voltò leggermente.
«No» rispose lei. «E, comunque, è Thalia Reed.»
Allora Ashton sorrise e Thalia notò le sue fossette anche se era lontana, fu allora che decise che Ashton Irwin doveva ridere di più: era decisamente un peccato tenere nascosti quei sorrisi così belli.
 
 
Ricapitolando tutte le cose strane che gli erano successe quel giorno: Ashton era quasi inciampato sui suoi stessi piedi quando era sceso dall’autobus, per fortuna si era aggrappato ad un palo della luce prima di poter fare una colossale figura di merda; i due gemelli della signora Morgan – a cui Ashton faceva da babysitter ogni sabato mattina –  l’avevano scambiato per una bambola di pezza e per poco non gli avevano bruciato i capelli; era andato al parco e aveva pensato a Lilian, ma quella non era una cosa strana, la cosa strana era essere andato al parco, aver incontrato una tipa stranissima che era riuscita a fargli fare un giro sull’altalena e a farlo ridere come un perfetto idiota, e l’aver pensato a Lilian meno del dovuto. Meno di quanto il suo cervello e il suo cuore gli permettessero di fare.
Thalia Reed era davvero una ragazza singolare, nessuno, in quei due anni, era riuscito a farlo uscire fuori dal guscio in quel modo così spontaneo, e lei con qualche frase a trabocchetto gli aveva tolto Lilian dalla testa per qualche minuto.
Si buttò sul letto, esausto, e sospirò, mettendosi le mani di fronte al viso.
Thalia Reed. Thalia Reed. Stramaledetta Thalia Reed, perchè aveva dovuto incontrarla? E soprattutto, come era riuscita, lei, ad incasinargli il cervello con quelle poche parole?
Sentì la porta di casa aprirsi e richiudersi, riconobbe i passi di sua madre, la sentì mentre lanciava la borsa sul divano.
«Ashton, sei a casa?» chiese la donna con voce squillante.
«Sì, mamma!» rispose Ashton, si passò una mano tra i capelli spettinati, più del solito quel giorno. La porta della sua stanza si aprì.
«Tutto bene?» gli chiese sua madre. Ashton annuì, stropicciandosi gli occhi.
«Sono solo un po’ stanco.» rispose Ashton. Sua madre gli sorrise ed uscì dalla stanza, lasciando Ashton da solo. Lui si rigirò sul letto e allungò la mano destra verso il comodino, prese la foto di Lilian, che teneva lì da sempre.
La osservò: era bella, in quella foto – ma lei era sempre bella, in fondo –, i capelli biondo scuro ricadevano disordinati sulle spalle bianche, tempestate di lentiggini, come le sue guance. I suoi occhi scuri erano luminosi e lei sorrideva.
«Lily, è passato tanto tempo da quando non ci sei più, ma io non sono ancora riuscito a vivere» iniziò, a bassa voce. Gli sembrava stupido parlare con una fotografia, però lo aiutava, lo faceva stare bene, lo rilassava, gli sembrava che Lilian potesse sentirlo, ovunque si trovasse. La sua psicologa gli diceva che poteva farlo se ne sentiva il bisogno. «Come posso fare?»
Non si aspettava una risposta, la sapeva, la risposta che avrebbe dato Lily: gli avrebbe chiesto di vivere per lei, di non lasciarsi abbattere, di essere felice. Di fare tutte quelle cose che lei non aveva potuto fare, di comportarsi come un qualsiasi diciannovenne.
L’unico problema era che Ashton non ci riusciva affatto.
Si strinse la foto al petto, immaginando che Lilian fosse lì con lui, i suoi capelli e profumavano di vaniglia e, sul collo di lui, il suo respiro fragile, collegato alla bombola d’ossigeno che tante volte era stata ai piedi del letto di Ashton.
Era passato quasi un anno e mezzo da quando Lily era morta, due anni da quando l’aveva vista per l’ultima volta.
“Il tempo guarisce tutte le ferite”, quante volte gli avevano ripetuto quella frase, quante pacche sulle spalle gli avevano detto, per dargli forza, quanti abbracci aveva ricevuto, e quante di quelle cose avevano funzionato? Nessuna. Nemmeno il tempo aveva funzionato.
La verità era che il tempo non guariva proprio niente, il tempo se ne stava lì e scorreva inesorabile, fregandosene di quelle che succedeva alle persone. Diventava tempo sprecato, tempo passato e tempo ben impiegato, ma non aveva nessun potere terapeutico. Era una forza a sé, gli uomini non potevano controllarlo.
Il tempo era passato, e anche tanto, ma Ashton soffriva ancora.
Sanguinava ancora. Sentiva il cuore a pezzi e non aveva niente per rimetterlo a posto. Forse era una sorta di strana eccezione, ma il tempo non l’aveva guarito, lui era ancora ferito profondamente. Lui – come aveva detto Thalia, quel pomeriggio? – aveva l’aria da distrutto.
«Ci proverò, Lily, okay?» disse ancora Ashton, guardando il soffitto sopra la sua testa. «Proverò a vivere per te.»
Passò alcuni minuti così, steso sul letto, con la cornice stretta al petto e gli occhi chiusi. Immaginò che Lilian fosse lì , con la sua risata e il suo profumo, ritornò alla sera due anni prima, quando la teneva tra le braccia, sentendola piccola e fragile. Quando sapeva benissimo che non ce l’avrebbe fatta nessuno dei due.
 
 

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Angolo di Marianne
Salve a tutti! Ecco a voi il primissimo ed effettivo capitolo di questa storia.
Qui entra in gioco Thalia, la nostra vera protagonista. Mh, sono davvero curiosa di sapere le vostre impressioni su Thalia. Sto cercando di costruire al meglio il suo personaggio e intendo approfondirlo quasi come quello di Ashton. Dopotutto, i protagonisti sono loro, no? Però non temete, nei prossimi capitoli arriveranno anche i nostri cari Luke, Michael e Calum. ;)
Bene, qui abbiamo anche il primo incontro tra Thalia e Ashton. Mio marito, ehm, Ashton, è ancora turbato da tutto. Si sta abituando pian piano alla realta e non riesce ancora ad accettare la morte di Lilian, ma io Thalia l'ho creata per un motivo ewe
Passiamo alle questioni decisamente più importanti: aggiornamenti. Dunque, io ho l'abitudine di aggiornare una volta a settimana, così ho tempo per rivedere il capitolo ecc. Questa volta ho aggiornato dopo quattro giorni perché 1) il capitolo avevo già iniziato a scriverlo subito dopo il prologo, 2) non volevo farvi aspettare troppo perché io non volevo aspettare troppo (?) lol
Solo che c'è un problema. Giovedì parto con la scuola e tornerò lunedì pomeriggio, non so se riesco a scrivere il capitolo tra oggi, domani e mercoledì, e di certo in gita non posso scrivere, quindi non so con esattezza quando aggiornerò. Spero solo che non mi abbandoniate ç_ç conto di pubblicare il prossimo capitolo entro martedì prossimo :3
Detto questo, ringrazio Nanek, Aletta_JJ e DarkAngel1 per aver recensito il Prolgo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e lasciate una recensione, anche piccina picciò, non mordo! :3 
Alla prossima ♥
Marianne


 
 


 
   
 
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