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Autore: coffeeANDwords    24/03/2014    0 recensioni
"[...] Mentre scriveva lanciò un’occhiata al ragazzo e vide le sue mani grandi. La sua pelle era di un colore delicato e punteggiata da migliaia di imperfezioni che lo facevano somigliare ad un prato fiorito."
"[...]Quello era un silenzio diverso: era piuttosto un’assenza di rumore che si stagliava tra di loro come un sottile muro di carta, intimo e piacevole. Era come le gentili note di un pianoforte, come se tra loro ci fosse una comunicazione muta costellata da una forte empatia."
"[...]Rimase a fissare quel pezzo taciturno di marmo e il suo viso si ricoprì di un velo. Era di una bellezza rara, anche con quell’ombra dipinta sul viso. I suoi occhi chiari sembravano raccogliere l’acqua di tutti i mari della terra."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aprì gli occhi per la prima volta quel giorno, e fu costretta ad ascoltare le sue vuote parole mentre pensava che fosse impazzito. Tutte quelle parole sarebbero solo servite a gettare benzina sul fuoco, quello era il momento di fingere di non aver sentito nulla. Uscì dalla casa, con le mani tremanti per il nervoso. Intanto pensò per un attimo a suo padre e poi più niente. Per un secondo si chiese se quella fosse la vita che davvero aveva desiderato, poi in un battito di ciglia mise in moto e partì. Tutto troppo velocemente. La strada era ancora buia e la mattina era appena iniziata disastrosamente: era pronta a vendere l’anima al Mefistofele di turno pur di liberarsi da quella situazione. Quando arrivò all’ospedale il cielo iniziava a coprirsi di scure nubi che suggerivano l’arrivo di un acquazzone, al che abbandonò l’idea e la speranza di vedere un cielo azzurro. Appena scese, in pochi miseri secondi iniziò a piovere, piovere fisso, con gocce grandi come ciliegie. Sospirò, poi portò con sé la borsa, i guanti. Tutto l’occorrente, fece una corsa veloce fino all’ingresso. Quando fu all’interno si ricordò degli appuntamenti, e salì veloce al piano superiore, nel suo ambulatorio, per il giro di visite. Lo studio era una stanza piccola ma accogliente, con le pareti color crema e una grande scrivania imbandita di gadget, post-it, appunti e caramelle senza zucchero. Quando aprì l’agenda notò che gli impegni del giorno erano sostanzialmente di routine, senza grandi nuove cose e sospirò annoiata, aggrottando le sopracciglia, poiché era una donna dai sani principi, una di quelle che si emozionano di fronte alle novità. Il turno del primo appuntamento giunse dopo mezz’ora, con un anziano contadino con le mani screpolate e le unghie rovinate dal suo lavoro. Aveva un forte, lancinante dolore alla schiena che gli impediva di coltivare la sua passione nel suo piccolo orto dietro casa. La donna sorrise e lo visitò, poi gli prescrisse un farmaco adatto a risolvere il suo problema. Quel vecchio era un signore di una settantina d’anni con dei grandi occhi chiari e una lunghissima barba grigia; sembrava un marinaio, invecchiato e saggio che si era messo a coltivare pomodori. Quando l’uomo uscì, si presentò una bambina con la madre, una bellezza particolare, un brutto rash sulla schiena, che le parlò nella sua lingua un po’ difficoltosa vista la piccola età. La fece sorridere, così come si sorride quando si vede un cucciolo. Parlò a lungo con la madre, che le disse di aver portato la bambina in un campo a raccogliere dei fiori e quell’eruzione cutanea derivava da lì. Così la dottoressa alzò un sopracciglio e sorrise e le spalmò con delicatezza un antistaminico sulla pelle, senza neanche usare i guanti. Quando salutò la signora, accolse nello studio un uomo infranto, un uomo alto e forzuto, con pochi radi capelli e una folta barba nera e un sguardo rivolto verso il basso come a trarre beneficio da lì. Lei lo conosceva, il signor Mauro, un pover’uomo negli ultimi tempi. Era un grande lavoratore, con una vita felice e una moglie amorevole. Da qualche mese era stata colpita da una brutta malattia degenerativa e giaceva a letto quasi tutti i giorni, senza forze per fare le piccole necessarie mansioni di routine al fine di sentirsi una persona normale. Mauro veniva ogni tre settimane a prendere le ricette per la moglie, per i suoi farmaci e con un sorriso amaro, ogni volta, restava in studio qualche minuto in più poiché nemmeno lui era più in grado di tornare a casa e di rivedere ogni minuto quella donna avvelenata, consumata dalla malattia Gli scrisse tutte le medicine con estrema cura e gli prese le mani, osando promettergli che sarebbe potuta guarire, che le guance non sarebbero state più grigie, i capelli sarebbero ricresciuti, gli occhi avrebbero riacquisito vita. L’uomo si fidava della dottoressa, l’ascoltava e cercava di credere a quel mucchio di inconcepibili ipotesi, poiché erano tanto improbabili quanto consolatorie. Guardò la donna e la ringraziò, poi uscì. Un ragazzo di poco più che vent’anni entrò in studio con dei rantoli di asma profondi e inquietanti, e venne visitato con cura per non rischiare qualche banale ma fatale errore. Dopo di lui entrò la signora Mirò, una donna anziana e rovinata dagli anni, che odorava di erbe balsamiche e aveva sempre avuto un bisogno più psicologico che fisico. Parlava sottovoce, come per esorcizzare qualche strana convinzione. Parlava della figlia, della figlia che aveva perso in un incidente, ed era affetta da una forma non leggera di Alzheimer. Lo ripeteva ogni volta che si presentava in studio per ricevere la fondamentale ricetta per il suo antico male, una cardiopatia mai risolta e tutt’ora pericolosa. Parlava continuamente di questa giovane donna con i capelli chiari e la vita breve, consacrata a chissà quali dei, una vita durata poco e fuggita fugacemente in pochi, brevi, velocissimi attimi. Ogni volta diceva di sentirsi morire, di non poter più vivere, e la dottoressa l’abbracciava e la stringeva forte, come per poterle trasmettere qualcosa, un po’ della sua giovane esistenza, un po’ di lei. Poi usciva, smarrita, e tornava una settimana dopo, con la stessa figlia morta in incidente, la stessa cardiopatia, la stessa mole traballante e il solito andamento insicuro. Vide poi una giovane donna di poco più di trent’anni, che le ricordava sé stessa, ma era diversa poiché incinta e soprattutto, felice. Sorrideva ripetutamente, con quei due gemelli nella pancia ed anche lei correva ogni settimana per le medicine. Ogni volta era così entusiasta che mancasse sempre una settimana in meno, che era quasi un po’ pedante. Quando uscì la donna, la dottoressa si sedette sfinita sulla poltrona, sospirando e stropicciandosi gli occhi stanchi. Infine si alzò, lanciò un’occhiata alla sala d’attesa e la notò vuota, così si mise a lavorare sul computer aspettando eventuali impegni.
La dottoressa Ambrosia Mann era una donna di trentadue anni, nata nel millenovecentoottantuno, chissà dove in qualche paese nordeuropeo e aveva vissuto una vita grigia e povera in un orfanotrofio di Berlino. Verso i sei anni era stata adottata da una coppia di coniugi triestini, che non avrebbero potuto avere figli. Quando la videro se ne innamorarono subito, Franz ed Elsa Mann. Era cresciuta con modeste richieste, divenuta medico all’età di ventotto anni con intensissimi studi ed approfondimenti, con inesorabili fatiche e impegno. Aveva preso la specializzazione in oncologia e dopo pochi anni aveva visto il padre ammalarsi. Si era sposata con un uomo di estrazione borghese, un intellettuale di sinistra con ambizioni ben al di sopra delle sue capacità  intellettive. Ambrosia non era una donna con grandi pretese, ambiva solo ad un titolo medio di felicità, di stabilità, per poter godere della sua gioia come di quella degli altri. Odiava quell’uomo. L’aveva sposato molti anni prima, quando ancora suscitava un fascino a cui non poté resistere, quando ancora aveva l’aspetto di un giovane con i capelli color del platino e punteggiato in faccia da migliaia di lentiggini. Aveva un sorriso grande e rassicurante e occhi del color della corteccia. Lo amava, a quel tempo. Poi con gli anni qualcosa era cambiato: aveva coltivato una pancia grassa, erano sparite quasi per magia le efelidi ed erano comparsi dei purulenti brufoli da cibi malsani, inoltre gli erano cresciuti baffi lunghissimi e così era divenuto un personaggio importante e noto. Un avvocato, uno che è ricco e stimato, ma che ha bruciato la sua vita. Lei lavorava da poco e contemporaneamente faceva qualche lezione alla facoltà di medicina, prendendo uno stipendio saltellante e facendo ore su ore all’ospedale, per cui era costretta a sopportarlo. Nonostante fosse una donna di sani principi, la convenienza aveva contagiato anche lei, che lentamente si lasciava vivere dalla vita che non le piaceva nemmeno un po’, che viveva alla giornata, sperando sempre in qualcosa di migliore. Un appuntamento misterioso era scritto sull’agenda, ma quella persona non arrivava mai ed Ambrosia era stanca e un po’ combattuta, poiché la mattina si stava concludendo tra una cosa e l’altra molto lentamente e nel pomeriggio avrebbe avuto altri impegni. Aspettò mezz’ora, poi disse alla segretaria di contattare quella persona e di comunicare che l’appuntamento era spostato alle sei di sera, dopo il giro di visite in reparto. Guardò l’orologio dal cinturino marrone rovinato dagli anni e poi andò a consumare un pranzo inconsistente, con le cuffie nelle orecchie e un libro di medicina interna davanti. In un angolo della mensa, sola e senza alcuna disturbo. Uscì e si ritirò nel suo ufficio, dove si mise un camice bianco che le arrivava alle ginocchia, con la tasca ricamata dall’anziana mamma. Entrò in reparto e fiutò subito quell’aria pesante ed angosciante dell’oncologia: sentiva il tossire insistente di anziani in terapia, sentiva donne e uomini piangere sotto l’effetto di terribili farmaci. Passò tutto il pomeriggio lì, avanti e indietro per il lungo corridoio chiaro, con lo stetoscopio al collo e la cartellina azzurra in mano. Entrò in ognuna delle trenta stanze e visitò ogni paziente, rassicurandolo per qualche decina di minuti, ridendoci un po’ su e ascoltandolo. Ogni parola di quelle persone che sentiva era un tuffo al cuore, ma lei sorrideva ed annuiva dando consigli ed appena usciva dalla stanza una morsa ferrea le stringeva lo stomaco. Pochi secondi dopo tornava in sé. Era così ad ogni stanza, ormai ci aveva fatto l’abitudine. Il reparto di oncologia dell’ospedale di Trieste era così grande che le occorreva un intero pomeriggio per tutto il giro di visite settimanale, con una forza improponibile. Quando ebbe finito il cielo era già scuro, erano quasi le sei e quando se ne accorse scese di corsa la scala del reparto, fino a recarsi in ambulatorio. Si sfilò il camice in tutta fretta e sistemò le cose per l’appuntamento. Si sedette alla scrivania, ansimante e deglutì in un profondo respiro. Pochi minuti dopo qualcuno bussò alla porta ed entrò. Era un giovane, con un viso nuovo e fresco, degli scuri capelli arruffati sul capo e una foltissima barba scura. Aveva decisamente molti anni in meno rispetto a lei e quando entrò si presentò. Disse che era lì per il tirocinio, che veniva da Torino, si era trasferito a Trieste per studiare in tutta calma la sua amata disciplina e stava preparando la specialità di oncologia. Ambrosia rimase esterrefatta, poiché non le era mai capitato prima e non aveva neanche mai avuto un tirocinante o, per così dire, un qualcuno che la seguisse ovunque e che prendesse per oro colato ciò che diceva. Sorrise, e lui ricambiò il sorriso in un secondo, scoprendo i denti. Si notavano lievi rughe d’espressione accanto ai suoi occhi, che si stringevano alle estremità, ma lasciavano comunque brillare un celeste chiaro e magnetico. Gli strinse la mano. Quella stretta le diede una sensazione strana, era una stretta energica ma allo stesso tempo familiare e la sua mano le trasmetteva un insolito calore, a differenza di tutte quelle persone malate che avevano sempre le mani fredde e sudate. Quel calore era asciutto, era un tepore delicato, come quello che si sente quando si tocca la sabbia calda al sole e quel calore le fece improvvisamente figurare nella testa un’immagine antica e ricca di tenerezza. Quando era piccola era solita andare con Franz sul lungomare, quando le giornate lo consentivano. Ambrosia si ricordava con straordinaria precisione la sensazione che provava quando consegnava al padre i sandali e correva veloce nella sabbia calda fino al molo. Quel calore, quella sabbia sottile sotto i piedi le ricordava un’infanzia mai vissuta, o vissuta due volte, tra Franz, che era stato sicuramente un ottimo padre e un’immagine sfuocata e  traballante di qualcun altro, forse del suo vero padre, ma di chissà quanti anni prima, un po’ rassicurante quanto spaventosa. Lui disse di chiamarsi Manlio Venier e la dottoressa lo guardò con sguardo ammiccante, chiedendogli il perché di quel nome tanto strano ed inusuale. Lui non rispose, ma poco dopo le disse che gliel’avrebbe spiegato se un giorno si fosse trovato in una particolare situazione che non specificò affatto, lasciandola perplessa, più che altro incuriosita. Lei cercò di gettare lo sguardo altrove, poi decise di compilare i documenti per il giovane e gli fece qualche domanda. Era nato a Torino il ventinove novembre del millenovecento ottantasette. Mentre scriveva lanciò un’occhiata al ragazzo e vide le sue mani grandi. La sua pelle era di un colore delicato e punteggiata da migliaia di imperfezioni che lo facevano somigliare ad un prato fiorito. In tutta la sua bellezza e freschezza. Si distrasse un paio di volte, rapita da quei piccoli, infinitesimi dettagli, ma sempre cercando di non incontrare mai il suo sguardo per mantenere quell’alone di professionalità che avrebbe dovuto caratterizzarla. Quando ebbe finito si fermò a guardarlo, mentre firmava i documenti, fissando ossessivamente quei particolari. Di colpo la sua espressione divenne cupa e grigia. Erano quasi le sette di sera e lei non accennava ad andarsene. Non osava tornare in quella casa dove la vita è tutta un’altra cosa, è noia, nausea, sopportazione e pazienza continue, è fatica e sopruso. Sgranò gli occhi, gli consegnò i documenti e poi si infilò il cappotto grigio. Il ragazzo la guardava, aspettando forse qualcosa, al che lei lo guardò e notò nei suoi occhi una punta di curiosità, conseguentemente domandando cos’avrebbe voluto sapere, severa. Lui sorrise un po’ a disagio e le fece notare che sembrava infastidita dal rientro a casa, che si chiedeva perché avrebbe dovuto esserlo. Ambrosia s’intricò in uno sguardo fisso e vacuo e gli rispose che a casa la vita è un’altra. È difficoltà e inganno, lì invece lavorava, ma in serenità. Lui sorrise appena, quasi compatendola, coprendo il sottile labbro superiore nei folti baffi scuri e le disse che secondo lui ella viveva per lavorare, non come tutti quelli che lavorano per vivere. La donna si affacciò sulla sala d’aspetto, vuota, dipinta di un cupo grigio topo e con un vaso di peonie nell’angolo a nord che velavano la stanza di un fievole rosa pastello. Notò le poltrone vuote e il tavolo ricolmo di riviste. Dunque gettò per un attimo lo sguardo alla finestra. Il telefono ruppe quel minuto di riflessione, di sacro silenzio tra i due, breve ed intensissimo ed ella dovette rispondere annoiata. Alzò la cornetta ed immediatamente volse gli occhi al vetro opaco, ascoltando a fatica quell’uomo di dieci anni più vecchio di lei, sia mentalmente che fisicamente. Annuì distorcendo le labbra in una smorfia di disappunto, alzando un sopracciglio e giocherellando distrattamente con un elastico che aveva sulla scrivania. Dopo qualche breve minuto, pronunciò un solo sibilato <> e riappese chiudendo con un sospiro profondo e forzato. Il giovane colse l’alone di tristezza che le aleggiava intorno e non osò domandare. Ambrosia pensò che non poteva più sopportare il suo amore, al che Manlio rimase stupefatto. Successivamente si precipitò fuori senza neanche salutarlo. Saltò in auto ed allungò la strada più che poteva, con i tergicristalli che correvano sul vetro. La città era un intrico di strade, un silenzio disagevole pervadeva quell’auto e l’esterno sembrava privo di suoni e la donna osservò davanti a sé quel paesaggio grigiastro e caotico. Le ricordava un delizioso film muto degli anni Venti, bianco e nero. Sullo sfondo l’emblema del capitalismo: i palazzi, gli uffici e le auto, che vomitavano fumi nebulosi. Sembrava la città irreale di Eliot, una città non vissuta ma dove gli abitanti sapevano solo lasciarsi vivere dallo scorrere degli eventi. Per un attimo sognò una vita diversa, anche se in realtà aveva certi desideri per la maggiorparte del tempo. Si ricordò di quel quadretto felice della città di Porto Torres dove passava la primavera con gli zii da parte del padre. Era una cittadina piccola e precisamente disegnata su quella costa che sembrava un dipinto dell’epoca romantica. Per un attimo le sembrò di risentire quell’acqua sarda sulla pelle. Senza alcun dubbio, il marito, se fosse venuto a sapere di questi suoi pensieri, sarebbe somigliato a quella Emma de La Dolce Vita, quando il povero Marcello si trova innamorato della bella Sylvia. L’acqua sarda, la sabbia chiara e quel sole diretto e caldo, con l’umidità del clima delle isole e il calore di quel paese avrebbero significato un metro di paragone con lui e se avesse potuto eliminare quel rivale che era un’isola, l’avrebbe fatto. Questo sta a dimostrare quanto quell’uomo mostrava il suo istinto morboso ed esagerato. Ambrosia non poté non pensare a quelle campagne gialle, secche e con l’erba alta. A quel sole, a quel mare ed a quel fresco che popolava le notti sarde. Lei invidiava i gatti di Porto Torres, che camminavano sui tetti quando era buio, che si sdraiavano sotto le tettoie quando era caldo. Poi lasciò fuggire quel pensiero e tornò a concentrarsi sulla guida. Aveva una maglietta rossa con le maniche lunghe e, sopra, portava un pesante cappotto marrone, con dei grandi bottoni neri nel centro. Le stringevano la vita come se stesse indossando un elegante corsetto in stile vittoriano. Corse ancora per poco, poi rallentò. Quando fu arrivata, una sottile ansia la pervase proprio di fronte alla villetta con le viole sul balcone. Con sguardo cupo e con qualche astruso luccichio negli occhi parcheggiò la vettura lentamente sotto la cascata di passiflora. Poi spense il motore. Si appoggiò rassegnata al sedile, pensando solo alla sensazione di quel giorno, diverso dagli altri. Un giorno durante il quale qualcosa di estremamente innovativo era appena subentrato nella sua vita, allo stesso modo che impiega un raggio luminoso per attraversare un vetro.
Si incamminò verso la porta. Era scura, alta ed imponente. Quando entrò lo trovò subito sul divano ad aspettarla, con l’espressione  di un uomo rinato e soprattutto, con strane idee fisse in testa. Lei inchiodò i suoi occhi color del gelo sul marito, fermando il respiro affannoso e sbattendo le palpebre frettolosamente. Quell’uomo sorrise, con i baffi a coprirgli le labbra. L’abbracciò e lei cadde in un gelido tremore, un insopportabile, acutissimo senso di nausea, di ribrezzo. Erano tutte effusioni obbligatorie, vista la condizione in cui si trovava, costretta a subire per garantirsi una vita esternamente dignitosa, non desiderate ma nemmeno respinte. L’atroce odore della sua pelle le lasciava in bocca un sapore come di veleno e la tormentavano le sue ripugnanti, sporche mani addosso. Le tossine del suo animo le invadevano il colletto della camicia, ed ella piegava il capo in modo da non sentire il miasma del suo alito volgarmente alcolico. Socchiuse gli occhi fino a liberarsi delicatamente dalla sua presa e scivolare via. Si fece una doccia, per ripulirsi da tutte quelle sensazioni di sporca ipocrisia che si erano dipinte su di lei come su di una tela, con maestosità e orgoglio. Si infilò a letto e pregò un qualsiasi dio di svegliarsi la mattina seguente nello stesso stato in cui s’era addormentata. Sul tavolo passeggiava Sigmund, il gatto bianco e grigio di Ambrosia, che aveva colto la situazione spiacevole e, abbassando le piccole orecchie, era andato ad accoccolarsi nel letto, nell’incavo tra la spalla e il collo. La mattina dopo Sigmund si svegliò per primo e con le sue piccole zampe fece pressione ad intermittenza sul petto di Ambrosia. Aprì gli occhi e vide Ermanno, dormiente. Russava in modo anomalo, con un rumore continuo e soffocato, alternato a strano lamenti sonori, e rimase un attimo lì a guardarlo, storcendo un po’ gli angoli della bocca e pensando a quel respiro affaticato, come il rantolo di un moribondo, come quando ci si sente l’affanno dell’ultimo fiato e poi si cade in un silenzio in cui si gesticola ancora per pochi secondi. Per un attimo Ambrosia si sentì colpita da un forte senso di oppressione, come se un peso le ostruisse il battito. Dopo pochi secondi lasciò sgorgare il suo oscuro pensiero, guardandolo, ascoltando quei rumori che avrebbero tanto potuto piacevolmente prevedere un silenzioso arresto respiratorio. Non soffocò quel pensiero, ma alzò le sopracciglia e si levò in piedi, camminando silenziosamente verso il bagno, e sentiva fino alle ossa il freddo del pavimento. Sui muri vi erano decine di quadretti insignificanti, la maggior parte in bianco e nero, incorniciati in scuri listelli di legno venato, ed affissi con sottili chiodi grigi. Rappresentavano tristi scene di vita passata, qualche avo e tanti paesaggi vuoti come campi di grano abbandonati e corsi di fiumi in montagna, quando arrivò sulla soglia del bagno abbassò lo sguardo e posò due dita sull’arteria del collo, per sentirsi il battito, e lo percepì rallentato e tranquillo, che pulsava nelle orecchie come un orologio, con un sordo correre di lancette. Si guardò nel grande specchio privo di cornice, osservando curiosamente la sua espressione vivida e il suo sguardo, rinvigorito da quei terribili pensieri, e lasciò cadere lentamente nel lavandino quello scolorito sentimento di rimorso. S’infilò la camicia rosa pallido e l’abbottonò con delicatezza, coprendo a poco a poco il reggiseno chiaro, di pizzo. Ad ogni bottone si sentiva vicina ad una sensazione di liberazione, come se quella camicia, che a poco a poco nascose nei pantaloni scuri. Quella camicia segnava l’inesorabile distacco dalla sua penosa e infelice vita familiare e il suo lavoro, che assurdamente le giovava. Il paradosso era nel confronto tra la vita che dovrebbe simboleggiare la quiete e il riposo. La pace dell’ambiente familiare, il tepore della sera invernale di fronte al camino e la vita frenetica e faticosa, cioè la vita complessa e pericolosa del medico, che costantemente deve impegnarsi in molteplici responsabilità ed avere mille occhi. Nel suo caso, queste due dimensioni si scambiavano i ruoli. Intanto fuori il cielo era ancora scuro, appannato di nebbia: un vento freddo scuoteva le fronde degli alberi quasi spogli e l’esterno di quella casa, seppur tanto freddo, buio e umido, poteva celare meno insidie di quella casa. Guardò l’orologio e improvvisamente si accorse che era ora di iniziare la giornata lavorativa, dedicandosi totalmente al lavoro, alle persone che avrebbero avuto bisogno di lei, concedendosi all’unico modo di evadere che faceva parte della sua vita. Alzò le sopracciglia e guardò Sigmund che continuava ad avvolgere la lunga coda attorno alle sue esili caviglie e miagolava ripetutamente, chiedendo cibo. Di nuovo davanti allo specchio si spazzolò i lunghi capelli, raccogliendoli in un elegante chignon. Sembrava tanto un fitto gomitolo di seta, composto da migliaia di metri di fili: lo fermò sulla nuca con un fermaglio nero. Si guardò allo specchio di nuovo, con l’espressione di chi non sa cosa accadrà, lo sguardo di chi pensa che il proprio destino sia incerto da morire. Scese le scale seguita da Sigmund. Con i piedi nudi sentiva le fibre del legno scorrere sotto le piante, che correvano lungo gli scalini e lungo il pavimento del salotto buio, come le venature sottili delle foglie in primavera. Quando fu scesa, si guardò intorno e, seguendo Sigmund, andò in cucina per aprire la finestra. Il novembre di quell’anno era carico di sensazioni particolari, l’autunno portava colori di una bellezza unica e rara, ed Ambrosia guardava fuori, dove gli alberi gialli e arancioni si piegavano sotto il freddo del mattino. Aveva sempre desiderato vivere in una casa nel bel mezzo di un bosco, con tutta quell’erba, quei fiori e quei colori deliziosi, ma col tempo le esigenze l’avevano portata verso un destino in una grande bellissima città ma in un’infelice casa glacialmente piazzata in mezzo al traffico. Mise sul fornello la moka, e poco dopo Sigmund ricevette la sua colazione. Ella si sedette al tavolo, aspettando che fosse pronto il primo ma non ultimo caffè della giornata. Il profumo che trapelava dalla moka aveva qualcosa di speciale, era un aroma che la costringeva ogni volta a chiudere gli occhi. Risvegliava in lei un ricordo forte ed incisivo della sua infanzia, da quando era andata a vivere in quella città. Del paese in cui era nata non ricordava granché, se non quei grandi parchi coperti di neve che sembravano suggerire l’idea di un mondo infinito e di un orizzonte inesistente. Da quando aveva visto quel ragazzo, c’era un sottile desiderio di evasione in lei. Lui era apparso così innocente e genuino, che lei non avrebbe visto mai più nessuno come lui.
Ogni qualvolta che chiudeva gli occhi, le tornavano in mente quelle mattine in cui la sua mamma adottiva, Elsa, si alzava presto e le preparava i vestiti per andare a scuola, quando lei correva giù dalle scale e si lanciava tra le sue braccia. Con l’odore del caffè si univa il profumo del freddo che entrava dalla finestra, che creava una suggestione fortissima, ma destinata a finire presto. Una suggestione particolare e ricca di sensazioni diverse l’una dall’altra. Si immaginava il freddo delle grandi regioni nordiche, quelle in cui il vento è sempre costante e la neve è alta: lì sì che avrebbe voluto correre spensieratamente in quella neve alta della Russia occidentale, dove è così fitta e compatta che sembra di camminare su una distesa di zucchero caramellato, indistruttibile. L’affascinavano i paesi dell’est, quelli che hanno quel lontano incanto della fiaba dell’inverno. L’unica volta che aveva passato del tempo in quel genere di paesi, era stata alla sua nascita e per pochi anni dopo. Pochi anni di incoscienza e di coscienza minima, di cui ricordava solo un’istitutrice del collegio e qualche camicetta bianca con le spalle gonfie.
Una volta bevuto il caffè, si diresse nel suo studio tutto ricoperto di assi di legno come la sua vecchia casa, dove raccolse le borse, i documenti e le cartelle da portare in ospedale e si infilò le scarpe nere con il tacco, appoggiandosi allo stipite della porta. Per un attimo si bloccò a fissare quei documenti, ascoltando il vuoto silenzio che coronava ogni mattina, quella sensazione che si posava in quella casa divinamente, come polvere leggera, ma anch’essa destinata a cessare. Fuori le viole sul balcone erano scosse dall’aria ed il vialetto era quasi completamente coperto di foglie. Le strade erano ancora umide della pioggia notturna. Ambrosia si voltò per uscire di casa e distrattamente raccolse la borsa. D’un tratto tornò a sentire il fastidioso rantolo del marito e sospirò. Quando Ermanno la raggiunse, ancora in pigiama, con i pochi capelli spettinati ed i baffi arruffati, la salutò, con un buongiorno gioioso, poco accettato da lei. Lo salutò con un cenno del capo abbastanza distrattamente e cercò di evadere non pensandoci più, quando però lui la fermò, toccandole il braccio: lei rispose con un’amara espressione facendo notare che stava per uscire. Ella non aveva tempo da perdere. Ermanno le sorrise e pronunciò, rauco, la proposta di avere dei figli. Il vibrante luccichio dei suoi occhi andò a scontrarsi a fortissima velocità contro la corazza dura ed impenetrabile del viso di lei, contro il suo sguardo forte e grigio come una distesa di granito, rigido e vacuo. Non percepì quelle parole, che si schiantarono contro quel guscio fino a disintegrarsi in milioni di particelle. Lui richiamò la sua attenzione quando notò il suo sguardo, ma lei sembrava anestetizzata, come se non avesse nemmeno percepito la proposta. Sbattè più volte gli occhi e poi sgusciò fuori di casa giustificandosi, con la scusa che doveva andare, frettolosamente, chiudendosi la porta alle spalle e rispondendo distrattamente che ne avrebbero parlato la sera seguente, al suo ritorno. Sospirando, si diresse verso la macchina ed appena si sedette al suo interno, crollò. Si lasciò cadere contro il sedile come sottilmente catturata dal panico, il suo sguardo vuoto rimase fisso in un punto qualsiasi e la situazione fu improvvisamente più chiara. Quando percepì quelle parole, la sua gola si strinse in un nodo rigido, il cuore batteva fortissimo, pulsando forte nelle orecchie e nella pancia, e la sua respirazione era affannosa ed intervallata da brevi e languidi lamenti. Per la prima volta si trovò di fronte alla possibilità concreta di dover subire qualche responsabilità irreversibile. Ambrosia era solita essere presa dal panico, ne soffriva da sempre, ed ogni sera prendeva due gocce di Alprazolam per non svegliarsi sudata e nel bel mezzo di una crisi durante la notte. In quell’auto si sentì mancare, durò pochi secondi, come se fosse stata sull’orlo dello svenimento, della disperazione, di un banale calo di zuccheri. Passarono due lenti minuti, durante i quali Ambrosia decise di rallentarsi il battito, di calmarsi e di affrontare la situazione con la freddezza di cui avrebbe potuto essere capace. Accese l’auto, e fuori iniziava di nuovo a piovere, pioveva sul vialetto sporco, sull’erba ghiacciata di brina, sul balcone con la ringhiera appannata, sul vetro della sua auto che portava con sé ricordi antichi e delicate scene di un passato felice seppur complesso. Appena il cuore rallentò, Ambrosia riacquistò lucidità e guardò fuori dal finestrino alla sua sinistra e con sguardo leggero e disattento rimase ancora per qualche minuto a riflettere, sulla soluzione più fattibile da intraprendere per risolvere quella brutta ed agghiacciante situazione. Sigmund era sulla finestra, che si reggeva sulle zampe tra il vetro e il davanzale, e la fissava con lo sguardo di chi prova un’intensa e profonda compassione, come ad aver perfettamente colto la situazione di disagio che stava vivendo lei, e forse con la vaga e puerile intenzione di sistemare le cose, di trasmettere una certa comprensione alla donna, come se quegli occhi color giallo ambra avessero potuto rassicurarla in qualche modo. Mise in moto ed iniziò ad escogitare qualcosa per scappare velocemente da quell’orribile proposta, anche se probabilmente non ci sarebbero state tante vie di fuga. Corse veloce verso l’ospedale, e parcheggiò come parcheggia un pirata della strada, ad una velocità spropositata. Frenò l’auto in pochissimi secondi, poi scese. Risolse quella situazione con la diplomazia che solo un medico ha, compilandosi una ricetta per un farmaco adatto ed assumendolo di nascosto, tanto il marito non avrebbe mai dubitato di lei, per come si comportava candidamente. Uscì, applicando sul blister un’etichetta posticcia, con una bella scritta colorata indicante la presenza di vitamine, proprio perché così avrebbe facilmente raggirato l’uomo, incuriosito da questa nuova abitudine.
Sarebbe stato un gioco da ragazzi, da disonesti e da bastardi. Non avrebbe mai voluto arrivare a questo, poiché i suoi genitori, anche se tardi, le avevano insegnato cos’era l’onestà e perché è giusto essere onesti, ma in quella situazione ella non poté mettere in pratica i corretti insegnamenti poiché si sentì come se abusassero di lei, della sua pazienza. La donna corse nel suo studio con una strana serenità negli occhi e lasciò che un respiro profondo scivolasse fuori dalle sue labbra. Avvistò Manlio, dietro l’angolo del suo studio. Rallentò il passo, improvvisamente. Per la prima volta il cuore le balzò forte nel petto, con la sensazione di un capogiro e scosse il capo velocemente, il tempo di un battito d’ali. Si fermò nel lungo corridoio e sentì il cuore rimbombarle forte nelle orecchie. Poi cercò di calmarsi, respirando. Le tuonò nella mente l’immagine del giorno prima, secondo dopo secondo, quella stretta di mano, quella sabbia calda, quel ricordo lontano ed insolito ma più che altro, sconosciuto. Camminò prudentemente, controllando il respiro che in pochi minuti si era fatto affannoso ed improvvisamente, mentre entrava in ufficio, si sentì colpita da un tuffo al cuore, un vuoto profondo, una lacuna lasciata da qualcosa di anonimo, di improvviso. Quando fu sulla soglia sobbalzò, accolta da un sonoro e sereno buongiorno pronunciato da lui e vide il suo braccio tendersi verso di lei e chiudersi in un’altra stretta di mano, uguale a quella del giorno prima, lo stesso calore, la stessa sabbia. Lo guardò in viso e sorrise, confortata da quel volto rassicurante che tanto le ricordava qualcuno che era nel profondo parte di lei, ma che non poteva né immaginare né ricordare, tantomeno riconoscere. Procedette consegnandogli il camice e notando nei suoi occhi un fondo di eccitazione, di fibrillazione, con un lieve tremore alle mani e di agitazione. Lei gli disse che quel giorno si iniziava sul serio ad esercitare. Finalmente lui sarebbe entrato a fare parte di quel mondo di responsabilità, di importanza, di vita e di fatica. Manlio rimase a guardarla, annuendo lentamente, ingabbiando velocemente quelle parole. La sua testa era piena di ogni cosa, con i capelli scuri spettinati sulla fronte. I suoi occhi erano fissi sul viso della dottoressa, pallido e con tratti particolarissimi, tratti tipicamente nordici, i tratti che tutti sono abituati a vedere sulle carte delle cioccolate tedesche. Quei tratti che le dipingevano sul volto delle folte sopracciglia color del grano, un naso delicato seppur ben definito, diritto e che pareva essere scolpito in quel pallore marmoreo, e una bocca carnosa, del colore delle ciliegie, impossibile da dimenticare poiché contrastava con il resto delle caratteristiche. I due erano completamente diversi, provenivano da due realtà opposte, nascevano con dieci anni di distanza, crescevano lontani ma nonostante tutto, lei qualcosa nascondeva, dentro di sé. Celava una domanda imponente, ma che nemmeno lei era in grado di capire, ed inoltre continuava a pensare a quel dubbio sottile che si celava dietro a quel nome, che lasciava totalmente pensare a qualcosa di chiaro e rassicurante. Quel secondo scorse velocissimo, quasi impossibile da individuare ed incredibile da comprendere. Con un sorriso largo - scoprendo quei denti bellissimi e diritti, di un bianco puro, che ricordavano i sassi della spiaggia di Is Arutas, un delizioso deserto di sabbia sardo, di una bellezza incontaminata - lo condusse all’interno del reparto. La vita in ospedale era tutta un’altra cosa. Lei era cresciuta in quello studio, e vedeva in Manlio quella cosa strana ed anonima e però anche sé stessa quando era alla facoltà di medicina. Lui era così giovane, ed impacciato, e un po’ goffo, ed arrossiva ad ogni ingenuo complimento delle vecchie signore nei letti. Camminava incerto lungo il corridoio e barcollava leggermente chinandosi verso una stanza e l’altra, guardando dentro con sguardo timido, accingendosi a svolgere la sua nuova attività da giovane tirocinante medico, il sogno della sua vita. Guardava la donna correre su e giù per il corridoio, bianco e spoglio, con una sporgenza grigiastra di plastica che correva lungo tutto il muro chiaro. Poche piccole finestre riquadrate da listelli di legno verniciati e con sottili tapparelle verdi, lasciavano intravedere, in fessure tra un asse e l’altra, lo scarno paesaggio esterno. Era carico di quell’autunno grigio e desolato. Manlio rimase un secondo a contemplare quella finestra chiusa e triste, chiedendosi silenziosamente se l’avrebbe maggiormente rattristato il grigiore autunnale triestino o il corridoio bianco del reparto di oncologia. La mattinata scorse veloce tra una visita e l’altra e Manlio aveva imparato molte cose al fianco di Ambrosia. Iniziava a sentirsi una persona diversa, che avrebbe dovuto impiegare le sue energie giorno e notte per studiare quelle teorie piene di parole difficili, di numeri. Altrettante altre energie sarebbero servite per capire ogni situazione clinica, ogni episodio diverso ed avrebbe dovuto prepararsi ad abbracciare centinaia di donne affrante e tutti gli altri effetti collaterali della vita del medico. Quando la mattina fu finita, improvvisamente scoppiò un temporale di una violenza inaudita e Manlio, con Ambrosia, si trovava appena fuori dall’ospedale, dove la donna fumava nervosamente una sigaretta e il ragazzo la guardava, e pensava e pensava. Quell’acqua li bagnò entrambi, come bagnò anche tutto il resto del porticato e i due giovani risero piano sotto lo scrosciare di quella pioggia. Ambrosia aveva i lunghi capelli chiari tutti appiccicati al volto pallido e un sorriso incerto e non seppe cosa dire se non che Manlio avrebbe potuto diventare un buon medico, vista la sua ottima attitudine a comprendere alla perfezione i problemi ed i crucci delle persone. Lui sorrise dopo le sue parole, soffiando fuori una nuvola di fumo bianco che andò a disperdersi nella pioggia fitta e sottile. Ambrosia continuò a guardarlo, ripensando incessantemente a cosa nascondevano i suoi occhi, quel sorriso, quella presenza. Poco dopo il suo cellulare squillò e lei, con una smorfia annoiata, lo estrasse dalla tasca del camice. Rispose. Dopo pochissime parole, il suo viso divenne ancor più cupo, le sopracciglia le si corrugarono sulla fronte, gli occhi assunsero in pochi secondi quell’opacità che hanno gli occhi dei ciechi. Fissò il suo sguardo nel vuoto, su quel cielo grigio e grondante d’acqua. Manlio divenne improvvisamente serio alla vista di quell’espressione, di quello sguardo, di quella patina opaca e trasparente che velava i suoi occhi. La guardava senza poter immaginare la situazione che l’aveva rapita così duramente, ma comprendendo che qualcosa doveva essere successo. La osservava mentre boccheggiava senza emettere parole ma solo brevi gemiti. Vide i suoi grandi occhi azzurri che si riempivano, alla base, tra l’attaccatura delle ciglia chiare e la palpebra, di un sottile filo di lacrime. Spense la sigaretta e rimase lì a fissarla mentre nei suoi occhi lucidi vedeva le nuvole scure riflesse come in una pozzanghera e non aprì bocca finché Ambrosia non ripose il telefono. La donna alla fine pronunciò un unico fievole e sottilissimo “arrivo” e poi ripose il telefono nella tasca del camice e guardò per terra. Si scusò e corse dentro, gettando la sigaretta a terra. L’uomo rimase fuori, con i capelli ormai fradici di pioggia. Rimase a riflettere sulla noncuranza con cui la dottoressa aveva gettato la sigaretta accesa e sul modo che aveva avuto quel mozzicone di spegnersi velocemente in quella fessura del marciapiede. Guardava la strada e le auto che sfrecciavano veloci, sollevando quantità esagerate d’acqua. Vedeva le piante scuotersi sotto il vento ed i gatti correre al riparo sotto qualche grondaia. Poi gettò la sigaretta e rientrò all’ospedale, dove incrociò Ambrosia che correva verso l’esterno senza camice, ma col cappotto e la borsa, in classica tenuta da fine giornata. La rincorse nell’atrio, chiedendole dove stava andando ed incontrando il suo distacco più profondo. Notò il suo sguardo terrorizzato e preoccupato allo stesso momento e il suo respiro affannoso. La donna non rispose e corse fuori dalla struttura, dirigendosi verso l’auto, di corsa, con i lembi del cappotto che sventolavano. La facevano somigliare ad una fragile bandiera abbandonata al vento, esile e sfuggevole. La donna entrò in macchina e chiuse la portiera, e Manlio arrivò. Correndo, in camicia, fradicio di pioggia dalla testa ai piedi si avvicinò alla macchina e bussò al finestrino. Ambrosia lo vide e con lo sguardo gli lasciò ad intendere che era una situazione difficile e gli fece cenno come a dirgli che non sapeva cosa spiegargli. Intanto fuori diluviava ancora. Manlio continuò a battere insistentemente contro il finestrino, finché Ambrosia non fu costretta ad abbassare il vetro. La donna gli spiegò che era successo un caos momentaneo e che avrebbe dovuto andarsene, ma che sarebbe tornata. L’uomo la guardava incredulo, dicendole che lui aveva perfettamente compreso che era successo qualcosa di grave, poiché, disse con fare deciso, non aveva mai visto quegli occhi prima. Quello sguardo e quel fievole tremore che le era venuto alle gambe mentre telefonava erano chiari segni. La donna rimase impietrita da questa sua considerazione, dall’acutezza che aveva avuto nell’interpretare le parole che lei non aveva detto durante la chiamata. Le disse che voleva andare con lei, che non poteva restare all’oscuro dei motivi di quella fuga. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare la cosa. Ambrosia sbuffò e lo lasciò salire, poi corse veloce in strada. La sua auto era un condensato di impersonalità, che lasciava intravedere la trasparenza di una vita bianca e asettica. Lui le sorrise con lo sguardo di un bambino quando combina una marachella e ottiene ciò che desidera. Nonostante la situazione in cui lei si trovava, le scappò un sorriso tirato alla vista della faccia di lui così incessantemente agitata e particolare. 
  
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