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Autore: Pachiderma Anarchico    24/03/2014    2 recensioni
"Le persone che hanno sofferto sono le più pericolose, perché pur temendo il dolore conoscono la loro forza e sanno come sconfiggerlo. La loro paura è pari al loro coraggio. Non si fermeranno di fronte a niente e nessuno e sapranno ingoiare tutte le lacrime, sapranno alzarsi dopo aver toccato il fondo. Chi ha sofferto ha un cuore grande perché conosce il bene e conosce il male e ha rinchiuso in se tutto l'amore e il dolore. Sapranno sempre allungare una mano per fare una carezza e trovare una parola per confortarti, ma non sottovalutarle mai, perché sapranno ucciderti nel momento in cui tu cercherai di farlo con loro."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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Megara X non merito codeste recensioni *.*
Non vi aspettate niente da questo capitolo, è più per introdurre le bombe che lancerò dopo, anzi, gli skateboard che lancerò dopo (Non sei divertente -.-)

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CAP. 1

 

I minuti che seguono il mio risveglio sono un turbinio confuso di sensazioni che giocano con la mia sanità mentale.
I miei occhi vagano nella stanza dalle spoglie pareti color panna, perplessi di rivedere il pulviscolo mostratosi nei fasci di luce galleggianti nell'aria dove batte il sole, o di poter scorgere nuovamente il cielo limpido di un azzurro vivo come, teoricamente, dovrei essere io adesso.
La testa continua a non dar tregua al mio corpo debole, con un tono di intensità dieci volte superiore a quello che mi pareva nel mio stato semi-incosciente, e un ago infilato nella pelle del braccio sinistro si rivela essere il dolore sottile e pungente di qualche minuto prima, se di qualche minuto si tratta. Non ho idea se siano passate ore, mesi, o anni, ho solo una vago sentore del dove mi trovo e del come ci sia finito. Su quest'ultimo punto la mente si rifiuta di soffermarsi, sbarrando con un colpo categoricamente secco il particolare di come sono caduto a pezzi.
Le forme iniziano a disegnarsi con lenta precisione, i colori cominciano a darsi il giusto peso e io mi chiedo se il sentirmi uno schifo sia il contratto che involontariamente ho stipulato con l'aldilà. I condotti uditivi sembrano essere l'unica cosa dell'insieme del mio corpo priva di formicolio, spossatezza o dolore e alle mie orecchie giungono rumori lontani, attutiti soltanto dall'ovatta che sento ostruire il passaggio del suono nei canali che dovrebbero portarlo fin sul cervello per poterne rilevare l'appartenenza.
Il rumore si tramuta in voce, la voce si scinde in più entità, ma oltre all'aver compreso che più essere umani stanno parlando davanti la porta della stanza, non si accende nessuna improvvisa folgorazione né sul nome di quegli essere umani, né sulle loro facce, né sul perchè stiano facendo un comizio proprio qui. Riconoscere quelle persone richiederebbe uno sforzo che il mio cervello, in questo momento, non è in grado di fare, un balzo che dovrebbe puntare troppo in alto.
D'altronde, sono reduce da un pericolosissimo salto nel vuoto di un baratro infinito, e nonostante sappia (quasi) con certezza che è stato solamente il mio subconscio ad essersi divertito con me, i miei arti si rifiutano di collaborare, caparbi nelle loro statiche posizioni.
La porta si apre e una donna in camice bianco avanza verso il lettino su cui sono sdraiato, anzi, mi correggo, su cui sono buttato come un sacco di patate troppo pesante, o come un corpo totalmente privo di soffio vitale, credo dipenda dai punti di vista col quale si guarda la mia reale condizione. La donna, inizialmente dai contorni sfocati, sembra stia armeggiando con qualcosa.
-Dominik.-
I miei occhi deviano tragitto, il mio collo, lentamente, li segue, il mio viso mira a quello le cui labbra hanno pronunciato con chiarezza quelle lettere in successione, senza pensarci, senza saperlo, senza aver comandato ai muscoli del collo di reagire a tale richiamo; evidentemente qualcosa di me risponde ancora a quel nome, qualcosa di me si sente ancora legata alla melodia scaturita dall'intreccio di quelle sillabe, anche se Dominik si è perso nell'inviolabile buio di una stanza, nella disperata prigionia di due occhi, nella musica ignara di una discoteca.
La donna è giovane, mi sorride benevola.
Da quanto tempo qualcuno non mi sorrideva?
Ho provato sulla mia pelle ogni tipo di sguardo, di ghigno, di smorfia provocante o spaventata rivolta nella mia direzione, ma credo che un sorriso vero manchi alla mia collezione recente.
Mi sbaglio.
Io un sorriso vero l'ho visto, e più di una volta, sbocciato, neanche a dirsi, solo per me.
E' strano come proprio coloro i quali si reputano più forti, protetti da una corazza d'acciaio inviolabile e indistruttibile, si perdano nello schiudere le labbra in un semplice sorriso. E a dispetto di queste persone, ho visto un sorriso autentico, concreto, uno che ha lottato tra le lacrime e disteso quelle labbra tanto bramate proprio quando l'oscurità minacciava di richiudersi su di me, trascinandomi nel suo abisso.
Il sorriso di una creatura tanto pura quanto distrutta, disillusa da una realtà che sentiva non appartenerle.
Quasi mi perdo l'entrata di mia madre, se davvero di mia madre si tratta con quell'espressione spenta incastrata nella pelle e quel viso pallido come un lenzuolo troppo consunto. Mi guarda e, forse per la stanchezza, forse per la sua capacità di rimanere decorosamente in piedi anche in certe particolari situazioni, non riesco ad interpretare l'espressione con cui accoglie la mia vista.
Mi parla e la sua voce ha perso il colore di efficienza di cui era satura. Riesco comunque a percepire una ben camuffata nota di profondo sollievo nelle sue poche parole, come qualcuno che non ha respirato fino a questo momento e adesso si trova ad inghiottire avidamente l'aria tutta in una volta.
-Dominik.. Come stai?-
Vorrei rispondere a questa domanda con tutta l'effimera sicurezza con la quale avrei risposto qualche tempo prima, ma la verità è che non lo so, e probabilmente, ora, dinnanzi a lei, con un ago infilato chi sa quanto a fondo nell'interno del braccio, non ci tengo neanche a saperlo, perchè pensarci proietterebbe nella mente immagini che vorrei eliminare, estirpare da ciò che è successo.
-Bene.- rispondo, a metà tra un bisbiglio e un sussurro, ed è la prima menzogna che dico.
Ma non ho nessuna intenzione di replicare fatti già accaduti, fingendo di star bene, alleviando il dolore degli altri ed elevando all'ennesima potenza il mio.
La mia cara mamma si è appena resa conto che il suo interrogativo non ha corde a cui aggrapparsi constatando che sono appena riemerso da un sonno durato chi sa quanto, con una flebo attaccata alla mia pelle come una sanguisuga assetata del mio sangue, con la testa che pulsa al ritmo di musica house.
E' evidente la sua titubanza, vacilla nel non sapere cosa aggiungere, gli avvenimenti che l'hanno resa partecipe sono stati troppo persino per la sua abile prontezza.
Ha le sembianze di qualcuno che è stato imbevuto del più bel sogno che si possa desiderare, fino a quando non gli è stato detto che il proprio figlio era in bilico tra la vita e la morte, risvegliato così nel modo più brusco. Mia madre che non riesce ad arrivare né con parole né con il cuore a me.
Almeno l' inclemente normalità non è cambiata.

La mia permanenza in ospedale è qualcosa che non ci tengo a descrivere nei dettagli, di me che devo essere aiutato anche per arrivare al bagno e delle sedute con psicologi e psichiatri che parlano di concetti scientifici e razionali con la sensibilità di un libro imparato a memoria.
Dopotutto cosa può interessare a dei perfetti estranei della tua esistenza che oscilla tra le fiamme della luce più brillante e quelle dell'oscurità più remota?
Proprio nulla.
E le loro parole scivolano addosso senza lasciare traccia, senza soffermarmisi, neanche per sbaglio, addosso, ma fluttuando nell'aria come granelli di polvere indesiderati che si ha scosso senza tante cerimonie dai vestiti.
Durante i giorni in ospedale, che non distinguo minimamente l'uno dall'altro, mio padre ha l'intelligente idea di non mostrare la sua faccia in giro e ogni volta che mia madre si avvicina a sfiorare l'argomento la zittisco con uno sguardo d'avvertimento, l'avvertimento che non ho alcuna intenzione di vedere lui e la sua faccia cesellata di superbia e le sue prediche del tipo “Sei un ingrato, ti abbiamo dato tutto.”
Non tutto papà, non tutto.
Ti sei mai chiesto cosa mi rendesse davvero felice?
Ti sei mai preso la briga di guardarmi per dieci secondi senza dovermi presentare a qualche illustre personaggio che grazie alle buone impressioni di una moglie ideale e un figlio modello ti avrebbe fruttato un mare di soldi?
No, tutto ciò era escluso dalle tue priorità, quindi abbi almeno la decenza di non farti vedere fintanto che sono confinato qui per aver combinato due pastiglie che in un attimo troppo lungo di selvaggio coraggio mi hanno portato alla morte. O quasi.

-Ne abbiamo parlato tanto Dominik.-
“Ne abbiamo parlato troppo” penso mentre il primario del reparto di psichiatria mi osserva attraverso le lenti perfettamente limpide degli occhiali.
E' il mio ultimo giorno tra queste mura, dove ho scoperto di essere stato trasportato d'urgenza, dove sono stato completamente privo di sensi per cinque giorni, dove il mio corpo si è ripreso quasi del tutto tornando alla sua consueta attività, dove il mio petto è tornato ad alzarsi e abbassarsi al comando dei miei respiri, dove il mio cervello è stato ampiamente psicanalizzato e dove i miei occhi hanno capito che, dal momento che si sono riaperti, devono rifarlo ogni mattina e accogliere con ospitalità il sole.
Dimenticate l'oscurità, penso, che è perfettamente in linea con ciò che sta dicendo nel frattanto lo psichiatra.
-Dimentica l'oscurità Dominik.-
Lo guardo e annuisco, ormai è un'azione automatica, dopo tutte le sedute e gli incontri che ho fatto sul perchè certe cose accadano e su come non farle accadere, sono scocciato che degli sconosciuti mi guardino come se loro avessero il mondo in pugno e non fossero mai caduti, da mille metri, turbinosamente, su un rovo di spine.
-Ti sei ripreso abbastanza velocemente, questo dimostra che forse..-
Come si chiama il tipo?
-..più forte di quel che pensi..-
Rubinowicz.. Rubisewicz..
-Dottor Rubinowicz- una donna entra nello studio portando un fascicolo color pesca in mano.
Sorrido da solo mentre mi congratulo per aver vinto la scommessa giocata con me stesso.
Quanto riesco ad essere idiota?
Nel frattempo il “Rubino” ha ricominciato a buttar giù fiumi di parole che suonano una più giusta dell'altra, protette da una botte di ferro nel loro significato aureo di eccellenza inattaccabile.
E io non ci penso proprio a contraddire il suo foglio di laurea appeso in bella vista sulla parete.
-Domani tornerai nel mondo reale..-
Perchè quello cos'era?
Un posto con persone che si sentivano inadatte, incomprese, troppo orgogliose per chiede aiuto ma troppo bisognose per rifiutarlo.
E' forse il posto più vero in cui mi è capitato di spendere i miei giorni, molto di più delle cene d'affari dei miei genitori o delle apparenze in una sala da Judo.
Questa volta sono davvero grato al dottore che mi salva dalla sinistra direzione in cui aveva improvvisamente svoltato la mia mente.
Aspetta almeno che metta piede fuori di qui e poi avrai tutto il tempo di lambiccarti il cervello Dom..
-Fai soprattutto ciò che ti piace, concentrati principalmente su questo, su ciò che ti fa venir voglia di alzarti la mattina, su ciò che ti fa sentire vivo, Dominik.-
Se ripete un'altra volta il mio nome mi incazzo.
Vivo.. la fa sembrare facile lui, seduto sulla sua comoda sedia in pelle, dietro a una lucida scrivania, a sorseggiare caffè che gli viene portato, parlando con voce pacatamente controllata sull'illusione che io possa schioccare le dita e ricominciare tutto d'accapo, premere semplicemente un tasto su una candida tastiera e lasciare che il passato svanisca come una manciata di sabbia sul palmo di una mano sottoposta ad un appena accennato anelito di vento, dimenticare chi mi ha rifiutato e chi mi ha accolto. Perchè, ciliegina sulla torta, devo dimenticare entrambe le categorie.
Rubino caro... Io domani varcherò le soglie dell'Inferno tornando tra le fiamme che conosco bene perchè già provate sulla pelle, ne sono stato già ammaliato e distrutto, e non credo di riuscire a dimenticare proprio nessuno.
-..e ricorda di non dare nell'occhio, sii te stesso ma senza reagire, non cogliere le provocazioni, trascorri questi ultimi mesi di scuola nella massima tranquillità, non stressarti, non agitarti e, assolutamente, non cercare le cose che ti hanno portato a dove sappiamo entrambi. Testa bassa, spalle al muro e niente di male, d'accordo?-
I miei occhi si dirigono su di lui e questa volta annuisco per davvero.
Preferisco perdere l'uso della parole durante le ore di lezione piuttosto che avere altri crucci che mi facciano perdere qualcosa di più significativo. E se il tollerare passivamente tutto il veleno che il mondo mi sputerà addosso è la soluzione, ho tutta l'intenzione di seguire questa politica.
Dopo avermi annunciato che ci saremmo visti una volta alla settimana fino all'età della pensione (questo l'ho supposto io), mi congeda lasciandomi andare nella mia stanza.
Da li a qualche secondo avrebbe parlato anche con i miei, e io, che non ho la più pallida voglia di sorbirmi le occhiate allarmate di mia madre, gli sguardi di disapprovazione di mio padre e gli occhi della fredda efficienza dello specialista, mi ritiro con la scusa di dover raccattare le mie cose.
Mentre getto nel borsone tutto ciò che è stato a impedire ai miei stufi neuroni il delirio in quelle lunghe lunghe giornate, ovvero cuffiette, libri, vestiti, focalizzo l'attenzione sulle parole di Rubinowicz e mi convinco che questo è davvero il modo giusto di muoversi, la cosa veramente giusta da fare.
Peccato che con la serena prevedibilità del fare ciò che gli altri si aspettano non sono mai andato molto d'accordo.

 

***
 

La prima mattina a casa dopo un tempo lungo quanto un'era, la persona che mi guarda attraverso lo specchio quasi nego di conoscerla.
E' un ragazzo dalla pelle troppo chiara, dagli occhi, simili allo zaffiro scuro ma privi di espressione, segnati da cerchi scuri ancora troppo profondi, dal corpo magro, più esile dall'ultima volta che ho posato lo sguardo su di lui.
La felpa leggera blu notte nasconde i segni della sua commiserazione sulla pelle, segni che né lui né io abbiamo intenzione di guardare.
Una mano passa tra i capelli come le tenebre che mi hanno sedotto e mi costringo a formulare un pensiero puramente normale, comune e lontano da ciò che non doveva succedere ma che alla fine è successo lo stesso: “E se li tagliassi?”
Dopotutto anche lo psichiatra ha detto di non concentrarmi su niente di neanche vagamente rischioso, né sul passato, né sul futuro, ma solo ad andare avanti nel presente, possibilmente senza ferite per aver sottratto la forbice al parrucchiere ed essermela infilata in gola.
Così sono tutto propenso al riflettere su un possibile taglio di capelli mentre l'auto percorre il tragitto che separa la mia casa da uno dei licei più esclusivi di tutta la Polonia.
Mia madre mi domanda forse dieci volte se per caso non volessi cambiare scuola, e non importa se a ridosso degli esami finali, lei è disponibilissima a richiedere il cambio oggi stesso.
So che molto probabilmente avrei dovuto accettare, dir di si senza neanche darle il tempo di finire di parlare, che in questo modo avrei seguito al cento per cento, al mille per mille il percorso dello psichiatra che mi sono ostinatamente inculcato nelle mie urgenti priorità, ma per qualche sporca ragione rispondo con un secco, netto, altisonante, “no.”
E continuo a ripassare nella mente varie pettinature guardando senza vederla il paesaggio che scorre veloce oltre il vetro del finestrino. Appena la macchina si ferma mi carico la borsa a tracolla in spalla e scendo velocemente. Non voglio che mia madre scorga neanche la più piccola traccia di preoccupazione sul mio volto. Le faccio segno di andare e lei, dopo avermi riservato un'occhiata angosciata, parte accelerando e allontanandosi sulla strada.
Ha un importante incontro di lavoro e scompare oltre l'angolo nel giro di una manciata di secondi.
Mi volto.
L'edificio dove, per quanto caparbiamente tenti di respingerlo, tutto è iniziato è li, a qualche metro da me, si erige maestoso nella sua ampiezza e pare quasi sorridere perversamente stagliato contro il cielo plumbeo, mentre avanzo verso il suo ingresso. Imbriglio la mente, circoscrivo la memoria in qualche argine lontano dal mio presente, metto un piede davanti all'altro e spingo la porta che si apre nel lungo corridoio dalle sfumature d'avorio.
Ogni ala è deserta, escludendo il personale di servizio, a causa della prima ora di lezioni già iniziata.
I miei avevano avvisato il preside che avrei fatto un po' tardi in questo primo giorno di ritorno dalla irrealtà, e ora cammino attraverso quegli stessi luoghi in cui avevo creduto di trovare la pace e invece mi sono trovato a rispondere agli attacchi di un duello.
Abbasso la testa e tiro dritto il più rapidamente possibile per sconfiggere l'ondata di ricordi e sensazioni che minaccia di travolgermi, sicura di sopraffarmi.
Indifferente, sono indifferente.
Continuo a ripeterlo nella mente come un disco rotto privo di alternativa mentre mi rifiuto di sollevare lo sguardo scollandolo dal pavimento. Affretto il passo, e non di certo per arrivare in classe ad un orario quantomeno accettabile. Le gambe si superano veloci, si muovono repentinamente perchè vogliono fuggire da qualcosa da cui non si può scappare.
Mi blocco solo per trovarmi difronte la porta dell'aula in cui ho trascorso le mattine per quasi quattro anni.
So con esattezza fatale cosa si trova dietro questa porta, al di la di questa soglia. Conosco a memoria persino ogni scritta sui muri della stanza che custodisce, cancellate dopo l'ultimo ripasso di pittura (e cripticamente ricomparse).
Indifferente.
Poggio la mano sulla maniglia tenendo ben cucito in mente a fil di ferro la condizione che devo immediatamente adottare e tentando di ricordare come si apra una porta, bandendo con tutte le forze possibili ogni emozione fuori dalla campana di vetro rinforzato in cui mi sono rinchiuso.
Le mie dita esercitano una lieve pressione, così inconsistente che per un attimo credo fermamente di non aver fatto niente, ma la porta si apre e qualcosa mi dice che l'indifferenza è destinata a crollare come un castello di carta costruito nell'aria più fragile.

  
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