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Autore: Pachiderma Anarchico    23/03/2014    3 recensioni
"Le persone che hanno sofferto sono le più pericolose, perché pur temendo il dolore conoscono la loro forza e sanno come sconfiggerlo. La loro paura è pari al loro coraggio. Non si fermeranno di fronte a niente e nessuno e sapranno ingoiare tutte le lacrime, sapranno alzarsi dopo aver toccato il fondo. Chi ha sofferto ha un cuore grande perché conosce il bene e conosce il male e ha rinchiuso in se tutto l'amore e il dolore. Sapranno sempre allungare una mano per fare una carezza e trovare una parola per confortarti, ma non sottovalutarle mai, perché sapranno ucciderti nel momento in cui tu cercherai di farlo con loro."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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Eccomi qui, anche io irrimediabilmente stregata da questo film e irrimediabilmente pronta ad fantasticare su un possibile continuo di "Suicide Room". 
Se cercate una storia semplice, questa non è la vostra storia. Perché questa storia è contorta, difficile e forse anche un po' folle. Non è perfetta, non è impeccabile, non è logica. Per questo non so se piacerà, come piacerà, se forse piacerà. 
Spero solo che, qualunque cosa leggiate nelle righe da qui a seguire, sia qualcosa che vi spinga a volerne sapere di più, che tocchi dentro in un punto imprecisato del vostro essere.
Lascio il palco alle mie (tanto) difettose parole, e la mia cara Megara X mi perdonerà se non sarò alla sua altezza nel caratterizzare dei personaggi che lei ha reso troppo bene per poter anche solo pensare di osare di più, e mi perdonerà se non riuscirò a rendere il suo Aleksander magistralmente bene come lo ha reso lei.

Grazie a chi è solo di passaggio e a chi si fermerà un po' di più.

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Prologo



 

Spesso si paga un caro prezzo per essere se stessi, e si paga ancor di più per restare se stessi, contro la corrente, a dispetto della gente.
Fingere è più facile, agli occhi altrui sembra che ogni cosa sia fatta al momento giusto nell'attimo impeccabile, ogni asso nella manica è sempre pronto per essere tirato fuori quando devi ricordare chi comanda, chi è ammirato e rispettato.
Quando non si è sicuri, quando non si è certi, bisogna fingere, e col fingere finisci per crederci.
Credere alle tue stesse maschere, credere che sei davvero tu quello che occulta le emozioni, frena i desideri, finge cortesia. 
Dentro combatti.
Combatti contro chi sei davvero per evitare che si mostri sotto gli abbaglianti e insidiosi raggi del sole, combatti contro te stesso, una battaglia che non puoi vincere. 
Come uno stallone dal manto troppo bianco, troppo particolarmente candido per poter essere mostrato al mondo troppo nero, sarebbe parlato, additato, discorro, pericoloso, perché quel bianco, in un'infinità di nero, acceca. E quello stallone deve rimanere confinato nel suo perenne recinto di spasmodiche accortezze. Però, sai che è selvaggio, che non si limiterà a starsene buono buono nell'ombra, che un giorno, quando meno te lo aspetti, quando meno lo avverti, farà un salto più alto dei precedenti e supererà quel recinto, troppo labile per tenere dentro una cosa tanto grande come te stesso. E quando quel bianco niveo, disarmato, autentico, inviolato, giovane, toccò il nero, quel nero ne fu così spaventato da aver tentato di distruggerlo. Perché non c'è niente di più oscuro di una grande luce corrotta, perché sotto ogni nero si nasconde un bianco che non si può correre il rischio di mostrare.
E allora, tra stralci di menzogne e inconfessabili verità, arrivi ad un punto in cui devi fare una scelta, una scelta drastica, forse crudele, ma necessaria, tra il limbo della tua anima e la realtà che artificiosa ti circonda.
Io ho pagato per aver finto, ho pagato per aver "scelto", ho pagato per aver mostrato a quegli ingannevoli abbaglianti raggi del sole il vero colore dei miei occhi, o il vero sapore delle mie labbra.
Ho pagato un prezzo così caro che non so se mai mi sarà restituito, se mai riuscirò ad appropriarmene nuovamente; e ciò che solitamente viene chiamato destino, io lo chiamo autodistruzione.
Mi assumo la responsabilità delle mie azioni, della vita che ho lasciato scivolare lentamente tra le dita, inafferrabile come acqua, intoccabile come fumo.
Non sono uno sciocco, so riconoscere la disfatta quando la vedo. Accaduta in modo surreale, come un pallido spettro di un'esistenza apparentemente perfetta.
Fingevo. Fingevo di respirare, fingevo di abbondare di intoccabilità, fingevo di star bene, mentre il mio mondo crollava su di me. 
Ma adesso non so se sarà più tempo di finzioni.
Adesso sento il fuoco sotto la cenere, quello stesso fuoco che mi ha distrutto, bruciato vivo tra birre, giacche eleganti e baci rubati. 
So di avere cicatrici addosso marchiate a fuoco nella mia anima in caduta libera; so di avere le mie colpe e i miei peccati in tutta questa spirale di buio; so che, nel momento dell'estrema rottura, ho tentato su persone più rotte di me. 
Forse è stato tutto un grosso equivoco, forse la mia vita era davvero proprietà di qualcun altro e io non potevo deciderne, non potevo lasciarvi la mia impronta. Ma i forse sono finiti.
Non mi pongo più domande, non mi aspetto risposte. 
Non ho fede, non ho fiducia, ne in me, ne nel sole che ti illude che la notte sia finita quando, in realtà, deve ancora cominciare.
Immagini vaghe fluttuano intorno a me, balugini di momenti passati nell'oscurità recondita della mia desolazione.
So cosa ho fatto nel buio, non ne vado fiero, ma non riesco del tutto a pentirmene.
Potrebbero accusarmi. Accusarmi di aver incendiato tutto ciò che amavo e di averne poi bruciato le rovine, e sarebbe vero.
Accusarmi di essermi arreso proprio quando era il momento di combattere, e sarebbe vero.
Accusarmi di non averci neanche provato, di aver semplicemente perso interesse nei colori, nei sapori, nei vizi, nelle virtù e no, non sarebbe vero.
Quasi sento mio padre che mi parla come se non fossi suo figlio con la sua voce ferma e distaccata, priva di alcun tipo di emozione, schiavo di convenevoli e finte compostezze. Vivere una vita come la sua dove tutto ha un prezzo e niente un valore mi disgusta, preferirei la morte, preferisco la morte.
E' come se riuscissi a sentire il rancore dei miei, si sentono traditi, ma io non potevo aiutarli a capire qualcosa che va oltre la loro comprensione, o del loro tempo.
Come una luce sfuggente mi saltano in testa, o dovunque che siano, le parole di una qualche canzone metal: "Li farò sanguinare ai miei piedi".
Non sono così sadico, provo, o provavo comunque una sorta di riconoscenza per i miei genitori, per avermi dato tutto ciò che non mi serviva davvero.
I tempi si confondono in una competizione nella mia coscienza. Quale tempo dovrei usare per dar voce alle mie congetture? Il passato, probabilmente, anzi, quasi certamente. Ma il presente è sempre li, in agguato, pronto a sgomitare indelicatamente per la smania di venir usato. 
Sento qualcosa, la mia mente sta ancora giocando con me come il resto dei momenti  da qualche tempo a questa parte. Non riesco più a dare un valore al tempo, se esiste il tempo in questa sorta di dimensione confusa da morire.
Spesso i ricordi mi vengono a trovare, caotici e inconcludenti, ma io li riconosco.
Riconosco il momento, riconosco le persone.
Riconosco lei, che in qualche modo trova sempre la via per raggiungermi.
C'è fin troppa chiarezza nella mia non-lucidità.
Un ricordo, in particolare, fluttua spesso nel cielo plumbeo in cui vagheggio.
Una particolare situazione che mi ha torturato prima, quando avevo un cuore che batteva, e mi tortura ora che vorrei solo starmene oziosamente fermo protetto dall'ala dolce della pace perenne.
Questo ricordo lo detesto, detesto la scintilla che l'ha aizzato, detesto il momento che me l'ha lasciato imbrigliato nelle pieghe dell'anima, detesto una parte di me che, in particolare, se l'è goduto. Lo ricordo bene, più di quanto ci tenga ad ammettere.
In questa dimensione, con ciò che rimane di me, non credo mi senta in dovere di condannare nessuno, ne di gettare inutili anatemi a sprazzi di tempo lontani; sono come uno spettatore passivo di uno spettacolo del quale ne teme il significato.
Eppure, ricordo tutto di quel frangente, ogni vivido dettaglio, come se fosse accaduto non più di qualche istante fa, come se le parole della mia accompagnatrice aleggiassero ancora nell'aria dando il via ad un incontro di contatti che parvero fuoco. 
E con il fuoco vorrei bruciare il protagonista di quello spettacolo, quello che andava sullo skateboard con l'unico scopo di far vedere quanto ne era capace, quello che era così bravo a fare ciò che non gli piaceva che pensavi potesse piacergli davvero, quello che sentiva le sfide come una questione personale, quello che mi ha infilato la lingua in bocca con la discrezione di un esibizionista. Si, potrei davvero farlo.
Una sensazione piuttosto umana per qualcuno che sta aspettando di essere accettato in Paradiso o venire scagliato nelle più profonde viscere dell'Inferno.
La via calma dei miei pensieri si piega d'improvviso in un'incurvatura inaspettata, perché una parola saetta nel loro territorio.
Pillole.
Come è arrivata fino a me? Come mi ha raggiunto sin qui?
E adesso ricordo con precisione scansionistica il momento in cui l'ultimo sorso di birra ha tolto al mio corpo anche l'ultimo, difficile respiro di vita con l'aiuto di due piccoli dischi bianchi che mi hanno avvelenato persino l'anima.
Un lampo di luce mi danza dinnanzi, la grazia di una ballerina, la tracotanza di un fulmine.
Cosa succede? 
Che si stiano davvero spalancando i cancelli del Paradiso? No… E' qualcos altro. 
Dolore.
Lo sento, forte e acuto, lo sento penetrare con la sadica delicatezza della punta acuminata di uno spillo, ma mi è impossibile capirne l'origine, analizzare dove si poggia.
Non c'è più la quiete di prima, il silenzio non è più il padrone, è stato appena spodestato da qualcosa di più grande.
Dal dolore? No, il dolore è solo un volere dettato dalle leggi di questo nuovo sovrano.
Cos'è che ha irrotto nella superficie? 
Al dolore si aggiunge lo stordimento di una testa imbarocchita e pesante che non sembra neanche la mia; forse sto solo immaginando torrenti di inesistenti
sensazioni per ingannare qualcosa, forse il tempo.
Qualcosa di più sottile e mirato, una fitta incline a salire velocemente la scala dell'intensità, porta a chiedermi se questo non sia il mio supplizio eterno, provare per sempre sensazioni che non mi appartengono più. 
Un peso improvviso comprime dove un tempo c'era un cuore. Il mio. Quasi non mi permette di esalare respiri. Perché sto respirando?
La pressione continua vertiginosamente a salire e io non trovo le armi per fermarla.
Non si può salvare ciò che è già annegato, eppure non voglio perdermi in questo strano limbo dove sento tutto e conosco il niente, dove il buio cede troppo spesso il posto alla luce, dove la stabilità di pochi istanti prima sembra impossibile da recuperare, perché sono al limite.
Al limite di che poi, è un mistero. Eppure mi sento sull'orlo di un baratro enigmatico del quale non si riesce a vederne la fine e neanche l'inizio. Saltare e rischiare di cadere verso il fondo o rimanere con i piedi ben saldi sulla piattaforma fissa su cui mi sento ancorato?
Il confine dell'ombra e vicino mentre il dolore torna ad affondare i denti nella carne.
Carne..pelle..corpo.
Ed è in questo momento che ho l'improvvisa certezza che qualcosa non quadra, che ho sparato un proiettile che forse non mi ha colpito, che sto impazzendo nel tentativo di resistere a qualcosa che mi ostino caparbiamente a negare di conoscere.
Un piede avanti, un passo davanti all'altro, un altro, un altro, solo un altro ancora.. e mi getterò nel vuoto,
Non voglio farlo, non ho le ali per volare, non ho la forza per saltare, ma c'è qualche dettaglio, di quell'abisso oscuro, che mi spinge imprescindibilmente ad avvicinarmi alla sottile linea che separa uno strano spazio di forme confuse e colori vitrei da qualcosa di molto più grande.
I pensieri mi danno la caccia, riempiono lo spazio tranquillo che mi è stato concesso, parlano di qualcosa, piangono ridono urlano il mio nome.
Sento che è tempo di abbandonare questo angolo di pace per andare chi sa dove.
Dentro di me, la risposta. 
So così bene qual'è che non voglio neanche cercarla negli angoli reconditi del mio essere per constatare che è davvero ciò che so già, per forza o per grazia, essere.
Non sono sicuro di volerlo fare, ma la pressione sul mio petto adesso fa male, incessanti colpi torturato la mia testa e mi sono stancato di sopportare il dolore inerte mentre mi divora pian piano pregustando il sapore della mia anima.
Adesso il tempo esiste, adesso fa capolino, timido è ingombrante, nel sapere che il tempo di fare una scelta ponderata non c'è. Mi costringo a lasciarmi andare al mio impaziente istinto, e forse sbaglio, perché quello si è intestardito, quel fottuto stronzo vuole lottare.
Lo sento come scalpita al passo dei battiti del cuore. 
E se c'è ancora un cuore, se questa assurda quanto insensata sensazione non è solo un'effimera illusione, sento questo cuore lottare contro i limiti della cassa toracica, contro ciò che lo tiene prigioniero, contro di me, che cerco di tenerlo schiavo tentando di realizzare perché adesso tutti i cieli stanno crollando.
Le voci si accavallano, si intrecciano, si sciolgono e tornano a darsi la caccia, parole confuse perforano veloci come proiettili la bolla che mi circonda, lo scudo dietro il quale mi ero rifugiato forse per sempre.
Ogni cosa va al di là della mie capacità di giustificarla, non riesco a capire, non riesco a comprendere, qualcosa mi sfiora e sussulto in un improvviso slancio di energia, il dolore non cessa, la testa mi scoppia, visi e voci si perdono in un labirinto infinito, e ad un tratto mi rendo conto che due strade, occulte e misteriosamente vere, si dipanano dinnanzi a me, e la lucidità di un momento mi dice che posso percorrerne solo una: tornare nel piccolo bozzolo di quiete donatomi o sorgere dalle ceneri, dalle mie ceneri, sparse nel vento e rapite dal cielo.
Per un attimo, un solo, breve, insignificante attimo, penso a cosa succederebbe se ritornassi, se i caldi raggi del sole collimassero nuovamente ad accarezzarmi la pelle, e il vento a sfiorarmi amorevolmente il viso.
E qui il mio infido istinto di sopravvivenza decide per me sbaragliandomi bruscamente senza tener minimamente conto delle mie inutili riflessioni, e fiondandosi per quella strada che avevo deciso di abbandonare ma che adesso guardo con una punta di malinconico desiderio.
Malinconia di cosa? Del dolore, della sofferenza, della solitudine, dell'anima che si lacera come un pezzo di stoffa sgualcito?
Ma a qualche profondo, scriteriato meandro del mio essere, tutto ciò doveva mancare, perché nel mentre di un secondo l'oscurità si sta nascondendo e forse ho fatto quell'ultimo passo, forse sono caduto nel vuoto, forse mi ci sono lanciato, forse ho paura, la paura che nasce dalla consapevolezza di essere 
troppo fragile per vivere e troppo vivo per morire.
La luce mi investe, diventata accecante, si ricorda di me e io spregiudicatamente la accolgo nell'iride dei miei occhi che si spalancano alla vita che non sapevo scegliere.
Sono incoerentemente, irrimediabilmente, illogicamente, vivo.

  
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