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Autore: KeyLimner    26/03/2014    0 recensioni
"«Padre», esordì una voce femminile dal timbro acuto, «ho peccato. Ho peccato gravemente».
Ci fu una pausa, lunga e grave.
«Ma non sono pentita».
Il frate rimase così colpito da quelle parole, che mai aveva udito in vita sua, che dapprima restò ammutolito. L’altra attese con pazienza la sua risposta"
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Era un caldo pomeriggio d’agosto.
Ma che dico.
Era un torrido pomeriggio d’agosto.
L’aria era così rovente che il vecchio fra Cristoforo poteva vederla tremolare nella penombra del confessionale. La sua fronte era imperlata di sudore. Di tanto in tanto provava a detergerla con un fazzoletto di stoffa, ma la pelle ne era così impregnata che anche dopo averla asciugata continuava ad apparire umida.
Esausto, il prete si abbandonò contro la parete della cabina di legno scuro, rovesciando la testa all’indietro. Lo sgabello scricchiolò sotto il suo peso non indifferente. Era sempre stato grassoccio, anche da giovane, e in vecchiaia si era lasciato ancora più andare. Non mancava di rammaricarsi per quel peccatuccio di gola che era ormai l’unico che si concedesse, ma sempre più spesso gli capitava di sacrificare la devozione ai piaceri di una buona tavola. Del resto, si sa che la carne è debole. Certamente il suo Signore avrebbe avuto la bontà di chiudere un occhio, vedendolo scivolare di tanto in tanto.
Era dall’ora di pranzo che stava seduto lì. Ascoltava pazientemente la sfilza di peccati sempre uguali della gente, distribuendo consigli, ammonimenti, rimproveri e penitenze secondo il bisogno. Fra Galdino, che avrebbe dovuto sostituirlo, era a letto con l’influenza. Come avesse fatto ad ammalarsi con quel caldo bestiale, non riusciva a spiegarselo. Fatto sta che, essendo tutti gli altri colleghi impegnati in altre importanti funzioni, a lui era toccato di ricoprire anche il turno del fratello.
Non ne poteva più.
Era un po’ che non arrivava più nessuno. L’ultimo giovanotto era uscito di lì almeno un’ora prima. Ormai il pomeriggio doveva essere sul punto di volgere al termine.
Si domandò se non fosse il caso di tornarsene a casa. Il suo turno non era ancora finito… ma dopotutto non era neanche davvero il suo, no? Il Signore l’avrebbe sicuramente perdonato per una piccola infrazione. E poi, chi avrebbe mai avuto il coraggio di mettere il naso fuori di casa, con quell’afa? Era una giornata troppo calda persino per commettere peccati.
Aveva ormai preso la sua risoluzione. Aveva già una mano sulla porta… quando dall’altra parte della cabina la porta si aprì e una figura sgattaiolò furtiva all’interno e prese posto sullo sgabello.
Il prete abbandonò deluso i suoi propositi e si dispose all’ascolto.
«Padre», esordì una voce femminile, dal timbro acuto, «ho peccato. Ho peccato gravemente».
Ci fu una pausa, lunga e grave.
«Ma non sono pentita».
Il frate rimase così colpito da quelle parole - che mai aveva udito in vita sua - che dapprima restò ammutolito. L’altra attese con pazienza la sua risposta.
Quando ebbe un po’ riacquistato il suo contegno, fra Cristoforo si schiarì la gola e disse a bassa voce: «Ma… figliuola… immagino che tu sappia che senza pentimento non è possibile l’assoluzione».
«Ne sono consapevole», rispose ella con fermezza.
«E tuttavia seguiti a non pentirti?».
«Sì, padre».
Non sapendo che ribattere, il frate si guardò intorno sperduto. «Perché dunque», fece infine allargando le braccia in un gesto di impotenza, «sei venuta qui, se non desideri il perdono?».
Dall’altra parte ci fu un istante di silenzio.
«Padre», disse infine la donna, lentamente. «Ho detto di non essere pentita. Né posso obbligare il mio cuore a partorire dal nulla una contrizione che ho tanto inutilmente cercato nel mio animo. Ciò non vuol dire, tuttavia, che io non desideri essere una buona cristiana, come sono sempre stata sin da bambina. Perciò, pur vedendo bene che non mi è più possibile nella condizione in cui mi trovo, voglio provare ad adoperarmi ancora una volta per ottenere - se non il perdono - almeno un po’ di misericordia».
Ancora istupidito, il frate attese un attimo prima di rispondere. Infine sospirò: «E sia». Prese un bel respiro, rovistando nella propria mente alla ricerca delle formule che occorreva pronunciare in quella circostanza. «Dunque… da quanto tempo non ti confessi?».
«Quattro settimane, padre. Ma ci tengo a precisare che, contrariamente a quanto potrete pensare, sono solita confessarmi tutte le domeniche. In quest’ultimo periodo sono successi molti inconvenienti, che mi hanno impedito di portare avanti questa mia consuetudine».
«Questi… inconvenienti… hanno forse a che fare col peccato gravissimo di cui mi avete accennato poc’anzi?».
«Signorsì». Il frate poté vedere la donna chinare il capo attraverso la grata. «Ma per quanto io sia sempre stata massimamente scrupolosa nell’enumerare sempre tutte le mie mancanze… questo peccato me lo porto da lungo tempo nel cuore inconfessato».
«Parla dunque, figliuola, e liberati una volta per tutte di questo fardello».
«Padre… temo di non poterlo fare senza prima aver introdotto adeguatamente la questione. Spero di non incomodarvi troppo se vi racconto la storia dal principio».
Il frate alzò le spalle. «Giacché siamo qui, e nessun altro è in attesa, parla pure liberamente».
«D’accordo». La ragazza inspiro profondamente. «Allora… nel momento in cui la mia storia ha inizio, avevo all’incirca l’età di quindici anni. Avevo da poco iniziato il liceo, ed ero ancora una ragazzina piuttosto sprovveduta. Fu forse per questo che, quando un giovanotto… figlio del proprietario di un’officina che stava proprio sotto casa nostra… mi avvicinò (sebbene egli non mi andasse più di tanto a genio)… non fui pudica quanto avrei dovuto. Le sue attenzioni mi lusingavano, ed io, giovane e ingenua, mi lasciai abbindolare facilmente». Fece una pausa. «Sapete come vanno a finire queste cose. Ne sentirete talmente tante che non c’è bisogno che ve le venga a raccontare io. Ad ogni modo, rimasi incinta. Si può figurare lo sconcerto dei miei. Quando glielo confessai in lacrime, innanzitutto mi rimproverarono aspramente, dopodiché si adoperarono per riparare alla mia incoscienza. Incontrarono i genitori di lui, e con argomenti più che ragionevoli li convinsero della necessità che il loro figliuolo venisse a chiedere la mia mano. In tutto ciò, la mia opinione in merito non fu quasi richiesta. Non che avessi intenzione alcuna di ribellarmi alla decisione dei miei, beninteso. Ero talmente mortificata che avrei fatto qualunque cosa pur di riparare al mio errore. E troppo piccola per rendermi veramente conto di quanto fosse vincolante la promessa con cui stavo per impegnarmi sull’altare.
«E così ci sposammo. Fu fatto tutto in fretta, per evitare lo scandalo. Dovetti lasciare la scuola: non s’è mai vista una donna sposata e incinta che va al liceo. Sul momento mi dispiacque… anche se non sapevo ancora quanto avrei rimpianto quella scelta in futuro.
«Andammo ad abitare in una casetta che i miei e i suoi ci avevano comprato unendo i loro risparmi. Smise anche lui di studiare per cominciare a lavorare a tempo pieno nell’officina del padre. Del resto, non credo sia stata una grave perdita. Non era quel che si dice un giovane brillante…
«All’inizio fu stranissimo. Per entrambi. Voglio dire… eravamo solo due ragazzini. Ci sentivamo catapultati in una realtà completamente estranea. Ma ci si abitua a tutto. L’uomo è un essere piuttosto duttile… più di quel che si creda.
«Nacque Simone. Quando la levatrice me lo mise fra le braccia, me ne innamorai al primo sguardo. Fino a quel momento lo avevo percepito come un estraneo, una presenza aliena che si era annidata nel mio ventre… ed ero anche indispettita per aver dovuto stravolgere la mia vita a causa sua. Ma in quel momento… divenne di colpo qualcosa di concreto. Separato da me, eppure fatto della mia stessa carne, del mio stesso sangue. Mio figlio.
«Per un po’ fui così presa da lui da non pensare a nient’altro. Tutta la mia vita era vederlo crescere, vedere i sorrisi che germogliavano pian piano sul suo visino infantile, i suoi primi passi… udire le sue prime parole. Ma poi mi abituai anche a quello.
«Quella vita cominciava già a starmi stretta. Le giornate erano sempre uguali… scandite dal ritmo immutato delle faccende domestiche. Mio marito - che non era mai stato un tipo particolarmente interessante - sembrava essere ancor più sbiadito nella sua noiosa routine… e… chiedo perdono se pronuncio una simile blasfemia nella casa di Dio… ma anche a letto non era mai stato un granché».
Fra Cristoforo, che sino ad allora era stato talmente assorbito dalla storia da non muovere un muscolo, sussultò. Ma, rassegnato, non fece alcun commento.
«Neanche Simone», proseguì. «riusciva ormai a dare un senso alla mia vita. Certo, era sempre una gioia per me vederlo diventare grande a poco a poco… ma anche accudirlo era diventata un’occupazione grigia e abitudinaria.
«Ricominciai a leggere. Era da quando avevo lasciato il liceo che non prendevo più fra le mani un libro che non fosse un manuale di cucina. Il primo che lessi fu “Narciso e Boccadoro”, di Herman Hesse. Me lo regalò una mia ex compagna di scuola (che a differenza mia aveva proseguito gli studi), venuta a trovarmi prima di partire per la città. “Parla di un ragazzo che cerca sé stesso”, mi disse. “Vedrai, ti piacerà”. E difatti mi piacque. Mi piacque talmente tanto che lo terminai il giorno stesso, trascurando addirittura di fare il bucato per potermi immergere nella lettura, e quella sera chiesi subito a mio marito di andare in biblioteca a procurarmi qualcosa dello stesso autore. Poi passai anche ad altri autori, e ad altri generi. Divoravo romanzi di ogni epoca e di ogni argomento con una rapidità incredibile, sfogliando le pagine tra una faccenda e l’altra, spesso addirittura mentre giravo la minestra nella pentola o mentre pulivo le verdure. Presto Simone crebbe e non ebbe più lo stesso bisogno d’attenzioni, così ebbi ancora più tempo libero da dedicare alla lettura. Ogni nuovo libro era una scoperta: quando lo aprivo per la prima volta, trattenevo sempre un attimo il respiro prima che i miei occhi s’adagiassero timorosi sulla prima riga, e si lasciassero trasportare verso un mondo sconosciuto.
«Ciò che più mi affascinava erano i romanzi che trattavano di grandi avventure. Più le trame erano fantasiose e ardite, maggiore era il potere che avevano di catturarmi nella loro rete. Spesso mi capitava di leggere di coraggiose eroine, di donne intraprendenti e focose, che vivevano la vita che io avrei sempre voluto avere. Le ammiravo e invidiavo al tempo stesso. Avrei voluto avere anche solo un decimo del loro coraggio. O della loro forza. Ma vedevo bene, con mia somma frustrazione, che se anche li avessi posseduti, non avrei trovato attorno a me alcuna buona causa in cui applicarli. Forse - mi dicevo - ero io ad essere troppo poco audace… o troppo amareggiata. Ma i miei occhi, cercando avidi nella realtà, non vi trovavano un briciolo dell’emozione che sprizzava dalle pagine dei miei romanzi preferiti.
«Poi, un giorno, venne a trovarmi mia sorella.
«Dovete sapere, Padre… che tra noi due, lei era sempre stata la migliore… la più bella, la più intelligente, la più corteggiata… quella che in ogni occasione si prendeva tutti i complimenti. Io, in confronto, mi sono sempre sentita una tipa un po’ scialba. Non brutta… ma neanche bella. Certo non intelligente. L’ho sempre guardata con un po’ di soggezione… e di invidia. Non fraintendetemi, Padre, non lo dico con astio. Voglio un bene dell’anima a mia sorella… e l’ammiro moltissimo. Resta il fatto che in ogni cosa lei era sempre quella che riscuoteva maggior successo… e la cosa un po’ mi pesava. Sapete… forse è anche per questo che all’epoca fui tanto lusingata dalle attenzioni di mio marito. Voglio dire… lui aveva scelto me. Non mia sorella. Era la prima volta che qualcuno mi preferiva a lei.
«Ad ogni modo, quando venne a trovarmi era al settimo cielo. “Mi sposo”, disse raggiante.
«Per me fu un colpo. E così… mi aveva raggiunta. Nell’unica cosa in cui potessi vantare di essere superiore a lei. Ma diedi mostra di condividere il suo entusiasmo.
«I miei naturalmente erano felicissimi. Organizzarono un pranzo con tutta la famiglia per conoscere il famoso giovanotto, e mia madre sfoderò tutto il meglio della sua cucina per accoglierlo in casa.
«Arrivammo parecchio in anticipo. Io ero nervosa. Avevo una brutta sensazione. Mio marito continuava a ronzarmi intorno e la sua presenza mi infastidiva. Credo di avergli pure risposto in malo modo un paio di volte, per levarmelo dai piedi. Passai tutto il tempo in cucina con mia madre, con la scusa di darle una mano… in realtà per fuggire dagli altri, da mio marito, da mio padre, persino da Francesco. Per tutto il tempo mia madre seguitò a parlare di cose inutili ed io potei fingere di ascoltarla, mentre tenevo le mani occupate affettando le carote e pelando le patate.
«Poi arrivarono.
«Entrò prima mia sorella, il viso dalle guance imporporate che sbocciava come un fiore di pesco dalla scollatura del suo semplice vestitino a fiori. La felicità l’aveva resa ancora più bella.
«Poi… lui.
«Quando lo vidi, mi sentii mancare il fiato.
«La prima cosa che notai, fu che era alto. Molto alto. Molto più di mio marito, che a stento mi arrivava al naso. Al di sopra degli alti zigomi, due occhi neri come ossidiana e profondi come gli abissi marini fissavano tutto con spavalda indolenza. E poi… quei riccioli neri… che gli tagliavano in volute ribelli i lineamenti del viso, circondando come una cornice dal taglio insolito il suo volto olivastro…
«Ebbi subito la certezza di averlo già visto.
«Per tutta la cena cercai di riportare alla mente il luogo e il tempo del nostro primo incontro, osservandolo di nascosto mentre - senza badare minimamente a me - intratteneva un’affabile conversazione con i miei genitori (assolutamente rapiti dal suo fascino). Poi, d’un tratto, ricordai: era nel cortile di scuola, mollemente appoggiato al bordo di pietra dell’aiuola, in mezzo ad un branco di ragazzi molto più grandi di me… e anche allora svettava tra gli altri come una statua greca, con quello stesso sguardo compreso e quello stesso portamento sicuro di sé. All’epoca ero ancora al primo anno, e lui all’ultimo, quindi non osai avvicinarmi. Mi limitai ad osservarlo da lontano, ammirata, mentre discuteva con i suoi compagni sulla facoltà che avrebbe voluto scegliere all’università. I suoi cercavano di convincerlo a fare economia, dicendo che gli avrebbe aperto più strade, ma lui voleva fare filosofia. Era convinto che un modo per tirare avanti l’avrebbe trovato comunque. E se anche non avesse trovato niente… sarebbe andato a vivere sotto un ponte. Tutto pur di fare ciò che gli piaceva. Lo ammirai molto per la sua audacia.
«Anche allora quasi non mi notò affatto. Ma io non ho proprio niente di notevole, dunque non mi meravigliai. Né allora, né in quel momento. Non potevo fare a meno di constatare, però… con una certa sofferenza… che ancora una volta mia sorella aveva ottenuto ciò che io desideravo. Non solo mi aveva raggiunta, ma mi aveva anche abbondantemente superata. Ecco che di nuovo ero parecchie spanne indietro.
«Quella sera feci continuamente avanti e indietro tra la cucina e il salone per fuggire dai loro sorrisi complici, dai loro sguardi affettuosi. Mi sentivo già vecchia. Come se gli anni fossero passati in un baleno e senza raggrinzirmi la pelle mi avessero gettato dentro lo spirito di mia madre, ingrigito da decenni di matrimonio passati a sopportare le lamentele di papà, a rassettare la casa e a cucinare pranzi e cene tutto il dì. Dopo un po’ mi rintanai in bagno con la scusa di un’indigestione, per riversare tutta la mia frustrazione in lacrime nello scarico del lavandino. Quando mi sentii completamente svuotata, feci un bel respiro e, dopo essermi asciugata il viso, mi ritoccai il trucco ormai sciolto e tornai con coraggio ad affrontare gli altri ospiti.
«Quando finalmente quel pranzo interminabile giunse al termine, mi parve che fosse passato un secolo.
«Tornata a casa, misi a letto Francesco e come un automa andai a metter su una pentola d’acqua per mettere i fagioli a bagnomaria, poi congelai gli avanzi che la mamma mi aveva lasciato, disponendoli con cura in tanti barattolo di vetro. Mio marito si trascinò subito a letto. Quando lo raggiunsi, già russava. Mi sdraiai silenziosamente al suo fianco e provai a dormire anch’io, ma non riuscivo a prendere sonno, forse per via del suo russare fragoroso… o forse perché ero ancora troppo nervosa. Provai a leggere, ma i miei occhi seguivano le righe di testo senza che la testa riuscisse a tener loro dietro, quindi dopo un po’ rinunciai. Mi limitai a fissare il soffitto fino al mattino seguente.
«Mia sorella si sposò. Dopo la messa, il lancio del riso e le foto, andammo tutti a festeggiare a casa di mia zia, che per l’occasione aveva allestito un banchetto degno dell’antica Roma nella sua villa di campagna, invitando tutti i pronipoti e i cugini di terzo, quarto e quinto grado (molti dei quali non avevo mai neanche sentito nominare prima d’allora) fin dall’altro capo dello Stato, oltre che più di metà del paese. Fu una festa in grande stile insomma.
«Dopodiché, mia sorella ed Eric (si chiamava Eric perché suo padre era di origine inglese) andarono ad abitare in una casetta nel centro del paese. Io andavo a trovarli spesso per portar loro qualche barattolo di sugo o delle polpette avanzate, o semplicemente per fare due chiacchiere con mia sorella. Quando mi vedeva, lui a stento mi rivolgeva la parola. Alzava la testa dal suo giornale per salutarmi con un sorriso, poi tornava ad affondare il volto nel quotidiano. Ed io sentivo il cuore fermarsi anche per il solo istante in cui mi sorrideva…
«Andò avanti così per un bel po’.
«Poi un giorno, non trovai mia sorella in casa. Eric mi disse che era andata al mercato, e che non sarebbe tornata prima di pranzo. Feci allora per andarmene… quando sul tavolino del soggiorno vidi un libro di traverso con una copertina familiare.
«“Stai leggendo ‘Narciso e Boccadoro’?”, dissi timidamente.
«Lui mi guardò, stupito. “Sì. Perché, l’hai letto?”.
«“Svariate volte. È uno dei miei preferiti”.
«Ricordo che lo vidi stringere gli occhi e inclinare il capo, come se mi stesse esaminando. Nel suo volto c’era di colpo interesse. “Quindi ti piace leggere?”.
«“Moltissimo”.
«“E cosa leggi? Saggi, romanzi…”. “
«“Romanzi, soprattutto. I saggi dopo un po’ mi annoiano. Senza una storia dietro… non so. Mi sembra che qualunque argomentazione perda di colore e d’efficacia. Credo… credo che affinché quello che si vuole dire faccia davvero effetto, sia indispensabile una storia… qualcosa che tocchi nel profondo l’animo del lettore. Senza una storia… senza immagini… un libro è solo un arido insieme di parole. Herman Hesse mi piace perché i suoi personaggi portano a compimento una ricerca… la stessa ricerca che in fondo coinvolge tutti noi per una vita intera. Boccadoro cerca il significato profondo dell’arte, e allo stesso tempo un modo per conciliarla con la vita. Alla fine riesce a vedere la Madre che per tutta la vita aveva inseguito, amandola in tutte le donne incontrate lungo il cammino… ma scopre contemporaneamente che è impossibile per lui trasmetterne un’immagine ai posteri. Tuttavia, riesce ad accettarlo di buon grado. E muore tutto sommato felice. E saggio. Be’… mi ha fatto molto riflettere. Ha un significato bellissimo, a mio parere”.
«Eric mi stava ascoltando in silenzio, rapito… e nel vedere quei suoi occhi meravigliosi che mi fissavano così intensamente… forse vedendomi per davvero per la prima volta… sentii il cuore battere come un tamburo.
«“Non ti facevo un’accanita lettrice”, disse, colpito.
«Io risi. “In qualche modo dovrà pur passare il tempo, una casalinga con un unico figlio a carico e una casa di non più di ottanta metri quadri da rassettare, non trovi?”.
«“Immagino di sì”.
«Ci fu una pausa di silenzio, in cui entrambi ci studiammo.
«“So che alla fine hai scelto filosofia. All’università, voglio dire”.
«Inclinò la testa da un lato, sorpreso.
«“Ne parlasti una volta, al liceo… quando ancora andavo al liceo”, spiegai.
«Sorrise. “E te ne ricordi dopo tutto questo tempo?”.
«Io abbassai il capo, imbarazzata, rendendomi conto di aver fatto una gaffe. L’atmosfera si era fatta di colpo troppo spessa perché potessi sopportarla, quindi ripresi il mio cestino e me ne andai in fretta, dicendo che sarei tornata più tardi, quando avrei trovato mia sorella.
«Ma quella non fu la nostra ultima conversazione. Si era ormai messo in moto un meccanismo che ora non poteva fare più essere fermato.
«Quando venivo a trovare mia sorella, spesso ci ritrovavamo a discutere di qualche libro che uno dei due - o tutti e due - aveva letto… e presto cominciammo a vederci anche in assenza di mia sorella. Lui mi iniziò alla filosofia… ed il pensiero speculativo ebbe subito il potere di affascinarmi, sebbene non mi coinvolgesse con la forza dei miei romanzi. Io invece cercai di introdurlo alla magia della poesia… verso la quale era stato sempre un po’ scettico per via della sua rigida mente logica. Tentai di convincerlo che la sua bellezza sta proprio nell’incompiutezza che la caratterizza, nell’apparente imprecisione del suo messaggio, che tuttavia ha il potere di commuovere - e a volte anche convincere - grazie alla forza delle proprie immagini. Ottenni anche qualche successo, nella mia crociata in difesa di Pascoli, Montale e Leopardi. “È un peccato che tu non abbia finito il liceo”, mi diceva spesso, ed io non potevo far altro che chinare il capo con aria mesta.
«Poi… accadde.
«Stavamo leggendo insieme una poesia di Neruda. “Il tuo sorriso”. La conoscete, Padre? Forse no. È una poesia per gli amanti… e voi, Padre, siete al di sopra di queste sciocchezze dalla quali noi comuni cristiani non siamo in grado di staccarci. Ad ogni modo… quello che sto per raccontarvi ricorda molto la scena del canto di Paolo e Francesca… uno dei pochi brani della Divina Commedia che lessi quando andavo ancora a scuola. Non che voglia paragonare la mia meschina vita ad una delle più grandiose opere della letteratura italiana… ma in fondo ogni storia, anche la più celebre, fa riferimento allo stesso indelebile sostrato. È incredibile come la storia si ripeta, vero? Paolo e Francesca leggevano di Lancillotto e Ginevra. Noi leggevamo Neruda. Ma ad un tratto, come Paolo fece con Francesca, Eric tacque nel bel mezzo della lettura… la voce gli si affievolì… e si voltò verso di me. Trascorse un’eternità tra il momento in cui levò lo sguardo sul mio volto e quello in cui mi venne incontro per baciarmi. E anche noi, quel giorno, non leggemmo oltre».
Il frate stava ormai con gli occhi e la bocca spalancati, incapace di proferire parola.
La donna proseguì.
«Quello non fu che l’inizio. Cominciammo da allora a vederci sempre più di frequente… e non sempre passavamo il tempo a leggere poesie. Ricordo quel periodo come il più bello e il più felice della mia vita… ed è per questo, Padre, che non riesco a pentirmi di averlo vissuto. Ogni creatura dovrebbe avere un sacrosanto diritto alla felicità, no? Sì… sì… so cosa mi risponderete. Che la vera felicità si prova solo tra le braccia di Dio, quando si è nella sua grazia… ma, Padre, voglia il cielo che manchi ancora parecchio tempo al momento in cui la mia anima volerà in Paradiso (se mai dovesse volarci, cosa in cui ormai non spero più molto)… e come si può chiedere a una creatura fatta di carne e sangue di essere infelice per tutto il tempo che occorre passare su questa terra?
«Non dico di non aver mai provato rimorso per la terribile ingiuria che arrecavo alla mia povera sorella. Anzi, più di una volta ho sentito il rimorso rodermi per via di quel torto. Ma la mia felicità era capricciosa ed egoista. Non si lasciava spodestare facilmente. Senza contare che… quando io ed Eric entrammo… per così dire… in intimità, venni a sapere che io non ero la sola donna con la quale tradisse la moglie. La cosa, devo dire, stranamente non mi provocava più di tanto fastidio, perché non ledeva direttamente alla mia felicità… e poi, a pensarci bene, ero anch’io una traditrice tutto sommato, no? Però… si scopriva così che il matrimonio di mia sorella non era perfetto come appariva. Dio mi perdoni se in quel momento il mio spirito provò un po’ di soddisfazione nel constatare che mia sorella non era migliore di me in tutto… che anche nella sua vita esistevano delle macchie.
«Ma non poteva durare, giusto?».
La voce della donna si era fatta di colpo amara.
«I miei timori si concretizzarono quando ormai era passato più di un anno dal momento in cui tutto era iniziato. Mia sorella rincasava. Era tornata prima dalla spesa, ed era tutta carica di buste di latte, uova, lattughe, pomodori e frutta di stagione. Quando ci vide, intrecciati in una postura inequivocabile sul divanetto di casa sua (sul quale avevamo dovuto consumare la nostra foga nell’impossibilità di raggiungere per tempo la camera da letto), la sua bocca si spalancò in un grido. Non ne uscì un fiato, però. L’unico rumore udibile fu quello delle uova che si frantumavano sul pavimento mentre lasciava andare le buste per portarsi le mani davanti alla bocca. Ricordo in modo estremamente vivido il filo di albume che uscì da sotto la lattuga, scivolando giù lungo il pavimento lievemente inclinato senza che nessuno facesse niente per fermarlo. “Toccherà buttarlo”, pensai, istupidita quando insozzò tutto il tappeto. E così, mentre mia sorella stava lì a contemplare con orrore il fallimento del proprio matrimonio e il tradimento della persona che doveva ritenere più cara e fidata della terra… mentre guardava tutta la sua intera vita, che con tanto amore s’era costruita, andare in frantumi… io pensavo che sarebbe stato proprio un peccato dover buttare quel bellissimo tappeto.
«E neanche allora, Padre, nonostante il senso di colpa, mi pentii di quanto avevo fato.
«Sentivo… che era stato inevitabile. Era stato inevitabile che succedesse, così come era stato inevitabile che lei ci scoprisse. Come se fosse tutto un disegno prestabilito, capite? Come se io… Eric… mia sorella… fossimo tutti parte di un gigantesco arazzo che era già stato disegnato molto prima che noi venissimo al mondo. E chi può dire di chi fu la mano che tracciò quel disegno? Di Dio? Di Satana? Ma non sono qui per fare polemica, o per cercare di discolparmi.
«Dopo un attimo di muto stupore, la rabbia si sostituì al dolore. Furiosa, mia sorella agguantò le prime cose che le capitarono sotto tiro e prese a tirare addosso ad Eric, che nel frattempo si era alzato e cercava di andarle incontro per spiegare. Allora sì che urlava. Oh, come urlava. Penso che la sentissero anche dall’altra parte del paese… e infatti quasi tutti si affacciarono alle finestre nella via. Per sfuggire dai dardi spietati della moglie (che aveva messo mano a tutto, anche alle preziose ceramiche regalatele da nonna Elsa e alle maschere africane che avevano acquistato dopo una scelta tanto ponderata in un negozio in città) fu costretto a scappare in strada completamente nudo, coprendosi gli attributi con un foglio di giornale spiegazzato.
«Nei giorni seguenti, ovviamente, si scatenò il finimondo.
«Fu una reazione a catena. Come era venuta a sapere di me, mia sorella per vari tramiti venne a sapere delle altre storielle del marito e finì per cacciarlo di casa. Andò a stare da mia madre, ferita e umiliata. Era così a pezzi che non aveva il coraggio di guardare in faccia nessuno… sapendo di essere lo zimbello del paese oramai. In poche settimane, parve invecchiare di dieci anni. La sua bellezza, che era stata un tempo così florida, sfiorì di botto. Ovviamente, da allora non mi rivolge più la parola.
«Per quanto riguarda mio marito… giacché so che ve lo state chiedendo… be’, lui fu troppo scialbo persino per lasciarmi, schiavo com’era della sua meschina routine. Ma non dovrei essere così crudele con lui, lo so. È una brava persona in fondo. Anche se non lo amo e non l’ho mai amato. Non mi ha più toccato, però. E non riesce a parlarmi senza abbassare lo sguardo. In realtà, vi confesso, Padre, la cosa non mi fa ne caldo né freddo.
«Adesso sono guardata come la sgualdrina del paese. Posso sentire gli sguardi di riprovazione della gente sulla schiena quando passo per andare al mercato. Non dico niente perché so di essermeli meritati.
«I miei mi odiano. Mia sorella mi odia. Tutto il paese mi odierebbe - se non avessi dato alla gente abbastanza materiale di pettegolezzi per riempire decenni di conversazioni. Persino mio marito… se mai fosse capace di un sentimento tanto audace… mi odierebbe».
«E tuttavia», disse il prete, recuperando a fatica l’uso della parola, «non provi rimorso per quanto hai fatto».
«No, Padre». La donna sollevò la testa. «Per quanto dolore possa aver causato, e per quanto io stessa soffra al pensiero di essere stata la radice di tanta sofferenza… se mai mi si offrisse la possibilità di tornare indietro e di scegliere se commettere o no questo terribile peccato di nuovo… io rifarei tutto daccapo cento volte». Tacque un attimo, con fierezza, lasciando che il senso di quelle parole si propagasse nello spazio e si dilatasse fino a riempire tutta la cabina della sua gravità inesorabile. «La mia vita è sempre stata un lungo e tedioso film in bianco e nero… finché qualcuno non ha deciso di inserire nella pellicola alcune diapositive a colori. Quelle diapositive sono state la mia unica vera avventura. Quella che avevo sempre atteso e sperato. Grazie ad esse la mia vita adesso somigliava un po’ di più a quello che avrei avuto piacere di leggere in un libro. Avrei mai potuto decidere di tagliarle?».
Ci fu una lunga pausa.
«Sa, Padre», proseguì poi la donna a bassa voce, «qual è la cosa che è rimasta più impressa nella mia memoria, di tutta questa storia?».
«No, non riesco a immaginarlo», mormorò il prete, ancora sotto shock.
«Il momento in cui lui venne a salutarmi, prima di sparire per sempre. Era notte fonda. Entrò in casa mia dalla finestra. Mio marito dormiva nella stanza degli ospiti (dove dorme tutt’ora, perché come ho già detto non ha più il coraggio di toccarmi). Io seppi subito chi era e corsi ad abbracciarlo. Lui mi mormorò qualcosa all’orecchio… adesso non rammento neanche cosa, ad essere sincera… non era importante… e mi accarezzò il capo lentamente. Poi mi diede un bacio. Solo un bacio. Niente di più. “Addio”, sussurrò. E se ne andò. Di quel bacio, conserverò per sempre il sapore. Sempre».
Dopodiché, tacque.
A lungo il frate restò a corto di parole. Non poteva udire nulla se non il battito del proprio cuore e i loro respiri asincroni.
Era rimasto estremamente colpito.
E ciò che più lo stupiva, era che di fronte a un peccato di una tale gravità, che certo sarebbe bastato a sprofondare quella donna negli abissi infernali fino al giorno del Giudizio, e poi per tutta l’eternità, non riusciva ad essere severo nei suoi confronti. Tutto ciò che riusciva a provare, in effetti, era una grandissima compassione per quella creatura, per la quale il peccato era stato l’unica possibilità di gioire.
Aveva lui il diritto di giudicare?
Ma per queste cose esistevano fortunatamente (o sfortunatamente) giudici più alti di lui… e sicuramente più integri.
«Mia cara ragazza», disse infine, con esasperata lentezza, «confesso di essere molto commosso dalla tua storia… pur essendo un ministro di Cristo. Tuttavia… capirai bene che, date le circostanze, non posso certo garantirti il Suo perdono».
La donna chinò il capo. «Capisco perfettamente, Padre».
Il prete non sapeva cos’altro aggiungere, pertanto rimase in silenzio. Si sentì terribilmente inutile.
Dopo un po’ lei si alzò.
«Io adesso devo tornare a casa», disse. «Si è fatti tardi. Siete stato gentilissimo ad ascoltarmi».
E detto questo, sparì.
Il frate uscì quasi di corsa dalla cabina per cercare di vedere in volto la donna prima che si dileguasse, ma l’unica cosa che fu in grado di scorgere, quando uscì, fu il lembo di una veste azzurra che svaniva furtivo come un alito di vento oltre il portone della chiesa.
Rimase lì impalato come un allocco nel bel mezzo della navata, riflettendo.
Era ormai il tramonto. Le luci rosse del vespro penetravano dallo spiraglio lasciato aperto dalla donna, immergendo il profilo di marmo dell’acquasantiera in un bagno vermiglio. Quel rosso simboleggiava al contempo, agli occhi del frate, il peccato e la vita. Vita e peccato convivevano armonicamente nella santità della casa del Signore, come se per un momento Egli avesse spalancato la porta della sua dimora ad entrambi. I colori delle vetrate riflettevano tutt’attorno la stessa luce rossastra, sebbene filtrata e trasfigurata.
Se quella luce trovava spazio nella reggia di Cristo, perché non avrebbe dovuto trovarvene anche una povera fanciulla, il cui unico errore era stato quello d’amare la vita più di quanto amasse il suo autore?
Si inginocchiò dunque davanti alla statua di Cristo, congiungendo le mani in preghiera, e pregò. Pregò per quella ragazza affinché ricevesse un perdono che forse non meritava, ma al quale pure sentiva che aveva un sacrosanto diritto. Pregò perché ciascuno ha il suo posto nel mondo, ma non ci è stato dato sapere quale, e cadere nell’errore è facile. Pregò perché la vita è un fiume che scorre sotto la furia degli elementi, costantemente minacciato da una facile piena, e ciascun fiume alla fine - a meno di non esaurirsi prima - confluisce nel mare e trova in esso la sua pace.
In definitiva, pregò e basta. Come aveva fatto sempre, in tutta la sua vita. Se poi esisteva effettivamente qualcuno o qualcosa da pregare, questo aveva poca importanza.
Solo quella veste azzurra ne aveva. E quel volto… l’ombra di quel volto… visto di sfuggita attraverso la grata del confessionale. E quella luce.
La luce rossa del vespro.
  
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