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Autore: rekichan    05/07/2008    1 recensioni
Aveva sempre pensato che la vita fosse come una bolla di sapone.
Leggera, doveva svolazzare nel cielo, catturando l’ultima luce del tramonto, prima di scoppiare.
Ecco cos’era la vita: luce. Un riverbero sottile di raggi, prima dell’annullamento totale.
In fondo, Dio non viene forse definito pura Luce?

Aveva sempre pensato che la vita fosse come una foresta.
Scura, misteriosa, doveva impedire ad ogni incauto visitatore di scoprire i suoi più reconditi segreti, nascosti nel buio.
Ecco cos’era la vita: notte.
Un’oscurità ricca d’arcani, dove la natura umana perdeva di significato e l’istinto era il solo sovrano.
In fondo, la selva non viene utilizzata per indicare l’intricato labirinto della vita?
Genere: Dark, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Remus Lupin, Sibilla Cooman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa l'ho scritta tempo fa per un concorso che poi non è andato mai in porto; l'ho ritrovata oggi e ho deciso di postarla.

Spero vi piaccia.

Full moon

Aveva sempre pensato che la vita fosse come una bolla di sapone.

Leggera, doveva svolazzare nel cielo, catturando l’ultima luce del tramonto, prima di scoppiare.

Ecco cos’era la vita: luce.

Un riverbero sottile di raggi, prima dell’annullamento totale.

In fondo, Dio non viene forse definito pura Luce?

Aveva sempre pensato che la vita fosse come una foresta.

Scura, misteriosa, doveva impedire ad ogni incauto visitatore di scoprire i suoi più reconditi segreti, nascosti nel buio.

Ecco cos’era la vita: notte.

Un’oscurità ricca d’arcani, dove la natura umana perdeva di significato e l’istinto era il solo sovrano.

In fondo, la selva non viene utilizzata per indicare l’intricato labirinto della vita?

I diciotto anni di vita di Sibilla Cooman non consistevano in quella che, secondo l’accezione comune, si poteva definire una «giovinezza interessante.».

Anzi, la sua vita, fino a quel momento, era stata decisamente…

Banale? Scontata?

Insulsa.

Come la sua persona, d’altronde.

Ragazzina piccola e minuta; gli occhiali spessi, calcati su acquose iridi color nocciola, facevano apparire il volto allungato più scarno di quanto non fosse.

Una foresta incolta di vaporosi ricci castani, al tatto secchi e sfibrati, ricopriva la nuca e ricadeva ai lati del viso, accentuandone i lineamenti aguzzi e le labbra affilate.

No, decisamente Sibilla Cooman non era una bella ragazza.

Ossuta, camminava sempre un po’ curva, quasi il fisico sottile non riuscisse a sostenere il peso di quella massa di capelli tenuti lontano dalla fronte da una delle tante fasce della sua immensa collezione.

Eppure, Sibilla amava i suoi capelli.

Le piacevano quei ricci ingarbugliati, annodati come le trame del Fato.

Forse, l’unica cosa che apprezzava in se stessa.

Con tragica consapevolezza, la Cooman non faticava ad ammettere che non era propriamente una bellezza.

Anzi, era davvero brutta con quel suo fisico da insetto smagrito e gli occhiali enormi.

Insulsa.

Sia per aspetto.

Sia per intelletto.

Sia per dormitorio.

Tassorosso.

Il posto di chi non brillava né per intelligenza, come Corvonero, né per coraggio, come Grifondoro, né per orgoglio, come Serpeverde.

Eppure, Sibilla era conscia di possedere un dono superiore a tutte quelle qualità.

Lei Vedeva.

Il suo Occhio Interiore era in grado di vedere oltre la crudele realtà, di percepire ansie, dubbi.

Svelare gli arcani segni del futuro.

Per questo non si preoccupava di non essere né bella, né coraggiosa, né intelligente.

Lei era una Veggente.

Superiore a quelle bazzecole umane.

Già, lei possedeva il Dono.

Le tende ondeggiavano lievemente nel silenzio della sala comune di Grifondoro, quella notte.

Gli occhi castano scuro, di un bel marrone ligneo, alberato, osservavano distrattamente le ombre tracciate dalla luce lunare sulle pieghe della stoffa.

Sospirò, distogliendo lo sguardo annoiato dal luccichio dei raggi di Selene sui ricami dorati.

Doveva finire quella pozione entro il giorno successivo, o nessuno lo avrebbe salvato dall’insufficienza.

Si stropicciò gli occhi.

Le palpebre gli si chiudevano per il sonno e non riusciva a concentrarsi sul libro aperto di fronte a sé.

Come facevano James e Sirius ad essere così tranquilli, non riusciva a capirlo.

L’unico che sembrava condividere la sua agitazione per l’interrogazione del giorno successivo era Peter Minus, da tempo addormentato sul tavolo di fronte sul proprio testo di pozioni.

Remus non aveva avuto cuore di svegliarlo.

Si stiracchiò, arcuando la schiena all’indietro e osservando la luna fuori dalla finestra.

Era quasi piena.

Chiuse il libro, spostando la propria attenzione sul compagno addormentato.

Il capo biondo reclino sulle pagine; un rivoletto di bava usciva dalla bocca aperta, rotolando lungo la guancia.

Sorrise appena, alzandosi.

Prese una coperta a scacchi rosso e oro, posandola sul compagno addormentato, decidendo che, anche per lui, era il momento di andare a dormire.

Sognava di camminare nella Foresta Proibita.

Era una cupa sera di Dicembre, la luna piena lasciava il suo riverbero argentato sulla prima neve dell’anno.

I piedi nudi calpestavano il suolo candido, senza avvertire il freddo che ne derivava.

La luna era oscurata dall’intricato disegno dei rami, eppure la sua luce era tutt’ora visibile, quasi gli elementi del bosco fossero stati impregnati dei raggi argentati e, adesso, li restituissero al visitatore in una bianca fosforescenza.

Sibilla era inquieta, eppure camminava.

Doveva andare avanti.

Doveva, spinta da una forza indefinita.

Il Fato? Uno scherzo?

Non le era dato saperlo.

Doveva solo procedere.

Uno.

Due.

Tre.

Quattro.

Cinque.

Sei.

Sette.

Infiniti passi e finiva per addentrarsi sempre di più nella selva.

L’ovattato silenzio indotto dalla neve, trasformava il paesaggio in un mondo irreale e sconosciuto.

Nessun suono, neanche quello dei suoi passi, accompagnava il cammino.

Solo un lamento di sottofondo.

Un guaito.

Un ragazzo abbandonato nella neve, sotto a un tronco.

Nudo, ferito.

Il sangue che macchiava la neve.

Il sangue…

Sangue.

Il sangue macchiava le zanne.

Come in uno strano effetto loto, però, vi scivolava sopra, lasciandole sempre più candide.

Zanne.

Zanne.

Eternamente pulite.

Il sangue era solo sulle sue mani.

Zanne.

Zanne.

Bianche.

Pure.

Immacolate.

Come i petali del loto che restano perennemente bianchi.

Zanne.

Zanne.

Bianche.

Petali di loto, pronte a distruggere.

Lacerare.

Sfibrare.

Tanto il sangue resta tutto sulle mani.

Remus boccheggiò, svegliandosi di colpo.

Il sudore lasciava aderire i capelli castani al volto atterrito.

Respirò a fondo, cercando di cacciar via l’opprimente sensazione di soffocamento che gli incubi lasciano.

Un sogno.

Era solo un sogno.

Però la stanza appariva ancora bianca di neve e le sue mani sembravano intrise di sangue.

«Sogno…è stato solo un sogno.» si ripeté, cercando di rassicurarsi.

Un sogno…eppure così reale.

Poteva ancora sentire il sapore ferroso del liquido purpureo bruciargli in gola.

Guardò fuori dalla finestra.

La luna era quasi piena.

Anche quel mese.

Anche quel dannatissimo mese, la luna piena arrivava.

Lenta.

Inesorabile.

Sanguigna.

Come una condanna a morte.

Sibilla Patricia Cooman sembrava stranamente gioiosa man mano che si approssimava Dicembre.

Attendeva con ansia la prima neve perché, ne era certa, non era stato un semplice sogno.

Era una Visione. La sua prima vera visione.

Così, quando il cielo si riempì di nubi scure e soffici fiocchi bianchi cominciarono a cadere su Hogwarts, tutti quanti videro il volto di Sibilla Cooman illuminarsi.

Ed un sorriso smagliante farsi strada sulle labbra sottili, in attesa della notte.

La porpora era sempre stato il colore dei potenti.

Dei re, delle regine…

Dei guerrieri.

Il sangue tingeva la stoffa, come sosteneva quell’esteta italiano nel suo brano “Canta la gioia”.

A te la gioia, Ospite! Io voglio

Vestirti de la più rossa porpora

S’io debba pur tingere il tuo

Bisso nel sangue delle mie vene.

Sibilla avrebbe voluto sentirsi amata come la donna osannata dal poeta.

Bella, seducente, ammirata.

Portatrice di gioia.

Infantilmente, si poteva pensare che rivedesse in quel ragazzo apparsole nel sogno una sorta di principe azzurro.

Falso.

Lei non era così frivola da lasciarsi andare a fantasticherie romantiche.

Non si era vestita di rosso per sedurre.

Non era l’annunciatrice di gioia, né la principessa delle favole.

Lei era di più.

Era una Veggente.

Il suo Occhio Interiore aveva visto quel ragazzo, questo significava che le loro vite si sarebbero dovute incrociare.

Nel bene o nel male, in positivo o in negativo.

Sibilla non credeva nella casualità.

Soltanto nell’inevitabile.

C’era un gatto, nel bosco.

C’era.

C’era, perché adesso non c’era più.

Il miagolio disperato era morto nella vibrante gola del felino.

Morto.

Molto.

Il sangue bagnava le zanne.

Petali di loto che rimangono sempre puliti.

Il sangue sporcava le mani.

Questo non era un sogno.

Il cuore del ragazzo singhiozzava.

Il gatto.

Il gatto.

Morto.

Sbranato.

Lacerato.

Distrutto.

Così facile spezzare una vita.

La bestia ululò, in segno di vittoria.

Il ragazzo, là dentro, piangeva.

La vita era davvero come una bolla di sapone.

Camminava a passo leggero sulla neve.

I piedi nudi.

Come nel sogno.

L’abito rosso.

Come il sangue.

I capelli intricati.

Come la foresta.

La luna splendeva piena e smagliante nel cielo.

Abbagliava con la sua luce.

Sibilla incedeva lenta.

Incurante del freddo.

Incurante del pericolo.

Seguiva i guaiti.

Sottili e flebili guaiti che si facevano strada nel silenzio ovattato.

La neve era bianca, come le zanne.

Un rumore la distrasse dal cammino, facendola sobbalzare.

Il respiro accelerò.

Luce.

Luce.

Luce.

Fosforescenza.

Gli alberi brillavano di quello strano luccichio argentato del sogno.

Avevano bevuto la luna.

Il ragazzo era vicino.

Doveva esserlo.

Le zanne bianche.

Come la neve.

Brillavano.

Come la luna.

Pronte ad uccidere di nuovo.

Pronte a dilaniare le carni.

Desiderose del rosso.

Del carminio.

La bestia fiutava l’aria.

Il ragazzo piangeva.

Il gatto era morto.

Morto.

Morto.

«Sei qui?»

Una voce.

Umana.

Indiscutibilmente.

L’odore del sangue del gatto aveva impregnato le narici, così che non aveva percepito il forte profumo emanato dalla femmina che gli stava davanti.

Zanne.

Zanne.

Pronte a sbranare.

Pronte a lacerare.

Pronte a dilaniare.

Pronte ad affondare in quel collo lasciato scoperto dall’abito color porpora.

Si sarebbe intonato bene, quel vestito, col suo sangue.

La ragazza rimase impietrita per qualche secondo di fronte alla creatura cui si trovò di fronte.

Nessun ragazzo.

Solo orecchie allungate e pelose, muso canino su un corpo grottescamente umanoide.

Lupo mannaro.

Sibilla deglutì, portando istintivamente le mani sui fianchi, alla ricerca della bacchetta.

Solo quando tastò la propria coscia, rammentò di non averla portata con sé.

Poi, anche se l’avesse avuta, non era detto che l’avrebbe saputa usare.

Era in trappola.

Prigioniera della sua stessa visione.

E il lupo le era sul collo.

Si voltò e corse.

Corse, incespicando nella neve candida.

Corse, ma per poco, perché la creatura era lì, dietro di lei, col suo alito fetido che le ottenebrava i sensi.

L’odore della morte gli usciva dalla gola, filtrando dalle zanne.

E l’ammorbava; penetrava nelle narici, nella gola…

Lento veleno, s’insinuava in ogni fessura, corrompendo la sua natura alla radice, alterandola.

Non comprese quando il lampo di luce lo colpì, né il perché.

Fatto sta che la bestia si ritrasse, in preda al dolore.

Sconfitta non da un incantesimo, né da qualsivoglia forza magica.

Solo dalla più banale delle infezioni: un’allergia.

La ragazza… la ragazza indossava argento.

Un semplice anello sottile che le cingeva l’anulare destro e che aveva posato su di lui, nel tentativo di allontanarlo.

La creatura aveva ululato caninamente di dolore; dapprima un guaito, poi sempre più forte, fino allo staccarsi repentino dal pericolo.

Argento.

Argento.

Ma perché faceva così male?

Era solo un semplice anello, irradiato dalla luce della luna.

Ma l’argento è il metallo di Selene, apportatore di protezione, d’amore, di buona salute.

È il metallo dei Veggenti, che lo usano per entrare in contatto col proprio Occhio Interiore.

E l’argento riflette le forze negative lontano da chi lo indossa.

Quale miglior difesa, per un Veggente, di un anello in argento?

Esso ne aumenta i poteri, li concentra in un circolo che richiama alla vita e rende il talismano un’arma potente, quasi quanto i loro Occhi.

L’argento cattura la luce della Luna.

L’anello inserisce l’energia nella circolarità.

E il potere si risveglia, illuminando a giorno tutta la foresta.

Quando Sibilla si risvegliò, la bestia era sparita.

Nudo, ferito.

Un ragazzino di fronte a lei, quiescente nella neve e nel sangue.

Sorrise, Sibilla, chinandosi su di lui.

Lo aveva visto nel sogno.

Nel suo sogno.

Posò la mano sulla sua fronte, scoprendola dalle ciocche castane che l’attorniavano.

Era caldo, o forse era solo il suo palmo ad essere bollente.

C’era una forza nuova in lei a cui non sapeva dare definizione.

Era pura e semplice consapevolezza che qualcosa, quella notte, era cambiato.

Non poteva comunque portare il ragazzo ad Hogwarts, era troppo pesante.

Optò, invece, per la più pratica soluzione di chiamare Mrs. Lovelace, l’infermiera.

L’undicenne aveva bisogno di riposo, e lei anche.

Si alzò, lasciando sulla neve il solco delle proprie ginocchia, ma non andò lontano.

Con un sorriso sulle labbra sottili e pallide, foglie e neve nei capelli come nelle chiome degli alberi che la circondavano, tornò indietro, sfilandosi l’anello dal dito e posandolo sul fanciullo.

Ora poteva lasciarlo solo, sarebbe stato protetto.

Remus si risvegliò solo la notte seguente in infermeria.

Mrs. Lovelace protestava riguardo a “manie di dormire fuori” e “febbri da cavallo” e Sirius, James e Peter erano lì, addormentati accanto al suo letto.

Con un sorriso pacato, osservò gli amici, disposti nelle pose più assurde.

Sicuramente, quando si sarebbero svegliati, lo avrebbero rimproverato della sua sventatezza, ma ancor di più per aver osato compiere qualche marachella senza di loro.

Però, quello era un segreto che non poteva condividere con loro, o perlomeno, non ancora.

«Mh…ti sei svegliato, finalmente.»

Sirius sbadigliò, stropicciandosi gli occhi grigi con fare ancora assonnato.

«Dove sei stato, stanotte, maledetto?» ringhiò.

Remus sorrise: c’era qualcosa di canino nel modo di parlare del rampollo dei Black, qualcosa che lo rendeva tranquillo, almeno quanto lo inquietava il suo sguardo.

Capace di intuire tutto, anche il non conoscibile.

«Segreto.» replicò.

Le dita giocavano nervosamente con un pezzetto di metallo.

«Parla, animale.»

Era stato James, finalmente ritornato anche lui dal regno di Morfeo, a bofonchiare le ultime parole.

«Sul serio, non è successo niente d’eclatante.»

«Bugiardo.»

Remus s’infilò l’anello al dito, sentendosi improvvisamente tranquillo e protetto.

«Forse un giorno ve lo dirò, ragazzi. Forse.»

Rispose, sorridendo al riflesso della Luna fuori dalla finestra.

Quando la Luna è piena, nell’uomo si risvegliano le bestie.

Fameliche, feroci… squartano e lacerano, lasciando libertà al proprio istinto.

È la Luna che le richiama.

Questo accade ogni mese e Remus Lupin sa che non potrà mai sfuggire a quella condanna, ma solo sopportare.

Remus Lupin dovrebbe maledire la Luna , ma non lo fa.

La Luna.

Così strana, così misteriosa…così magica.

Sorride e lancia in aria un piccolo anello argentato, riacchiappandolo con la mano che nasconde dietro la schiena.

Quando la Luna è piena, nei Veggenti si risveglia l’Occhio.

Indagatore, attento…scruta e svela, lasciando libertà al Futuro.

È la Luna che lo richiama.

Questo accade una sola volta nella vita di un Veggente, ma Sibilla Patricia Cooman sa che basta e avanza, perché il Potere, una volta nato, è per sempre.

Sibilla Cooman dovrebbe benedire la Luna e lo fa.

La Luna.

Così strana, così misteriosa…così magica.

Sorride e si guarda il dito dove un tempo c’era un piccolo anello argentato, poi si aggiusta gli occhiali e scruta il futuro.

   
 
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