Questa l'ho scritta tempo fa per un concorso che poi non è andato mai in porto; l'ho ritrovata oggi e ho deciso di postarla.
Spero vi piaccia.
Full
moon
Aveva
sempre pensato che la vita fosse come una bolla di sapone.
Leggera,
doveva svolazzare nel cielo, catturando l’ultima luce del tramonto, prima di
scoppiare.
Ecco
cos’era la vita: luce.
Un
riverbero sottile di raggi, prima dell’annullamento totale.
In
fondo, Dio non viene forse definito pura Luce?
Aveva
sempre pensato che la vita fosse come una foresta.
Scura,
misteriosa, doveva impedire ad ogni incauto visitatore di scoprire i suoi più
reconditi segreti, nascosti nel buio.
Ecco
cos’era la vita: notte.
Un’oscurità
ricca d’arcani, dove la natura umana perdeva di significato e l’istinto era
il solo sovrano.
In
fondo, la selva non viene utilizzata per indicare l’intricato labirinto della
vita?
I
diciotto anni di vita di Sibilla Cooman non consistevano in quella che, secondo
l’accezione comune, si poteva definire una «giovinezza interessante.».
Anzi, la
sua vita, fino a quel momento, era stata decisamente…
Banale?
Scontata?
Insulsa.
Come la
sua persona, d’altronde.
Ragazzina
piccola e minuta; gli occhiali spessi, calcati su acquose iridi color nocciola,
facevano apparire il volto allungato più scarno di quanto non fosse.
Una
foresta incolta di vaporosi ricci castani, al tatto secchi e sfibrati, ricopriva
la nuca e ricadeva ai lati del viso, accentuandone i lineamenti aguzzi e le
labbra affilate.
No,
decisamente Sibilla Cooman non era una bella ragazza.
Ossuta,
camminava sempre un po’ curva, quasi il fisico sottile non riuscisse a
sostenere il peso di quella massa di capelli tenuti lontano dalla fronte da una
delle tante fasce della sua immensa collezione.
Eppure,
Sibilla amava i suoi capelli.
Le
piacevano quei ricci ingarbugliati, annodati come le trame del Fato.
Forse,
l’unica cosa che apprezzava in se stessa.
Con
tragica consapevolezza,
Anzi,
era davvero brutta con quel suo fisico da insetto smagrito e gli occhiali
enormi.
Insulsa.
Sia per
aspetto.
Sia per
intelletto.
Sia per
dormitorio.
Tassorosso.
Il posto
di chi non brillava né per intelligenza, come Corvonero, né per coraggio, come
Grifondoro, né per orgoglio, come Serpeverde.
Eppure,
Sibilla era conscia di possedere un dono superiore a tutte quelle qualità.
Lei
Vedeva.
Il suo
Occhio Interiore era in grado di vedere oltre la crudele realtà, di percepire
ansie, dubbi.
Svelare
gli arcani segni del futuro.
Per
questo non si preoccupava di non essere né bella, né coraggiosa, né
intelligente.
Lei era
una Veggente.
Superiore
a quelle bazzecole umane.
Già,
lei possedeva il Dono.
Le tende
ondeggiavano lievemente nel silenzio della sala comune di Grifondoro, quella
notte.
Gli
occhi castano scuro, di un bel marrone ligneo, alberato, osservavano
distrattamente le ombre tracciate dalla luce lunare sulle pieghe della stoffa.
Sospirò,
distogliendo lo sguardo annoiato dal luccichio dei raggi di Selene sui ricami
dorati.
Doveva
finire quella pozione entro il giorno successivo, o nessuno lo avrebbe salvato
dall’insufficienza.
Si
stropicciò gli occhi.
Le
palpebre gli si chiudevano per il sonno e non riusciva a concentrarsi sul libro
aperto di fronte a sé.
Come
facevano James e Sirius ad essere così tranquilli, non riusciva a capirlo.
L’unico
che sembrava condividere la sua agitazione per l’interrogazione del giorno
successivo era Peter Minus, da tempo addormentato sul tavolo di fronte sul
proprio testo di pozioni.
Remus
non aveva avuto cuore di svegliarlo.
Si
stiracchiò, arcuando la schiena all’indietro e osservando la luna fuori dalla
finestra.
Era
quasi piena.
Chiuse
il libro, spostando la propria attenzione sul compagno addormentato.
Il capo
biondo reclino sulle pagine; un rivoletto di bava usciva dalla bocca aperta,
rotolando lungo la guancia.
Sorrise
appena, alzandosi.
Prese
una coperta a scacchi rosso e oro, posandola sul compagno addormentato,
decidendo che, anche per lui, era il momento di andare a dormire.
Sognava
di camminare nella Foresta Proibita.
Era
una cupa sera di Dicembre, la luna piena lasciava il suo riverbero argentato
sulla prima neve dell’anno.
I
piedi nudi calpestavano il suolo candido, senza avvertire il freddo che ne
derivava.
La
luna era oscurata dall’intricato disegno dei rami, eppure la sua luce era
tutt’ora visibile, quasi gli elementi del bosco fossero stati impregnati dei
raggi argentati e, adesso, li restituissero al visitatore in una bianca
fosforescenza.
Sibilla
era inquieta, eppure camminava.
Doveva
andare avanti.
Doveva,
spinta da una forza indefinita.
Il
Fato? Uno scherzo?
Non
le era dato saperlo.
Doveva
solo procedere.
Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque.
Sei.
Sette.
Infiniti
passi e finiva per addentrarsi sempre di più nella selva.
L’ovattato
silenzio indotto dalla neve, trasformava il paesaggio in un mondo irreale e
sconosciuto.
Nessun
suono, neanche quello dei suoi passi, accompagnava il cammino.
Solo
un lamento di sottofondo.
Un
guaito.
Un
ragazzo abbandonato nella neve, sotto a un tronco.
Nudo,
ferito.
Il
sangue che macchiava la neve.
Il
sangue…
Sangue.
Il
sangue macchiava le zanne.
Come
in uno strano effetto loto, però, vi scivolava sopra, lasciandole sempre più
candide.
Zanne.
Zanne.
Eternamente
pulite.
Il
sangue era solo sulle sue mani.
Zanne.
Zanne.
Bianche.
Pure.
Immacolate.
Come
i petali del loto che restano perennemente bianchi.
Zanne.
Zanne.
Bianche.
Petali
di loto, pronte a distruggere.
Lacerare.
Sfibrare.
Tanto
il sangue resta tutto sulle mani.
Remus
boccheggiò, svegliandosi di colpo.
Il
sudore lasciava aderire i capelli castani al volto atterrito.
Respirò
a fondo, cercando di cacciar via l’opprimente sensazione di soffocamento che
gli incubi lasciano.
Un
sogno.
Era solo
un sogno.
Però la
stanza appariva ancora bianca di neve e le sue mani sembravano intrise di
sangue.
«Sogno…è
stato solo un sogno.» si ripeté, cercando di rassicurarsi.
Un
sogno…eppure così reale.
Poteva
ancora sentire il sapore ferroso del liquido purpureo bruciargli in gola.
Guardò
fuori dalla finestra.
La luna
era quasi piena.
Anche
quel mese.
Anche
quel dannatissimo mese, la luna piena arrivava.
Lenta.
Inesorabile.
Sanguigna.
Come una
condanna a morte.
Sibilla
Patricia Cooman sembrava stranamente gioiosa man mano che si approssimava
Dicembre.
Attendeva
con ansia la prima neve perché, ne era certa, non era stato un semplice sogno.
Era
una Visione. La sua prima vera visione.
Così,
quando il cielo si riempì di nubi scure e soffici fiocchi bianchi cominciarono
a cadere su Hogwarts, tutti quanti videro il volto di Sibilla Cooman
illuminarsi.
Ed un
sorriso smagliante farsi strada sulle labbra sottili, in attesa della notte.
La
porpora era sempre stato il colore dei potenti.
Dei re,
delle regine…
Dei
guerrieri.
Il
sangue tingeva la stoffa, come sosteneva quell’esteta italiano nel suo brano
“Canta la gioia”.
A te la gioia,
Ospite! Io voglio
Vestirti de la più
rossa porpora
S’io debba pur
tingere il tuo
Bisso nel sangue
delle mie vene.
Sibilla
avrebbe voluto sentirsi amata come la donna osannata dal poeta.
Bella,
seducente, ammirata.
Portatrice
di gioia.
Infantilmente,
si poteva pensare che rivedesse in quel ragazzo apparsole nel sogno una sorta di
principe azzurro.
Falso.
Lei non
era così frivola da lasciarsi andare a fantasticherie romantiche.
Non si
era vestita di rosso per sedurre.
Non era
l’annunciatrice di gioia, né la principessa delle favole.
Lei era
di più.
Era una
Veggente.
Il suo
Occhio Interiore aveva visto quel ragazzo, questo significava che le loro vite
si sarebbero dovute incrociare.
Nel bene
o nel male, in positivo o in negativo.
Sibilla
non credeva nella casualità.
Soltanto
nell’inevitabile.
C’era
un gatto, nel bosco.
C’era.
C’era,
perché adesso non c’era più.
Il
miagolio disperato era morto nella vibrante gola del felino.
Morto.
Molto.
Il
sangue bagnava le zanne.
Petali
di loto che rimangono sempre puliti.
Il
sangue sporcava le mani.
Questo
non era un sogno.
Il cuore
del ragazzo singhiozzava.
Il
gatto.
Il
gatto.
Morto.
Sbranato.
Lacerato.
Distrutto.
Così
facile spezzare una vita.
La
bestia ululò, in segno di vittoria.
Il
ragazzo, là dentro, piangeva.
La vita
era davvero come una bolla di sapone.
Camminava
a passo leggero sulla neve.
I piedi
nudi.
Come
nel sogno.
L’abito
rosso.
Come
il sangue.
I
capelli intricati.
Come
la foresta.
La luna
splendeva piena e smagliante nel cielo.
Abbagliava
con la sua luce.
Sibilla
incedeva lenta.
Incurante
del freddo.
Incurante
del pericolo.
Seguiva
i guaiti.
Sottili
e flebili guaiti che si facevano strada nel silenzio ovattato.
La
neve era bianca, come le zanne.
Un
rumore la distrasse dal cammino, facendola sobbalzare.
Il
respiro accelerò.
Luce.
Luce.
Luce.
Fosforescenza.
Gli
alberi brillavano di quello strano luccichio argentato del sogno.
Avevano
bevuto la luna.
Il
ragazzo era vicino.
Doveva
esserlo.
Le zanne
bianche.
Come
la neve.
Brillavano.
Come
la luna.
Pronte
ad uccidere di nuovo.
Pronte a
dilaniare le carni.
Desiderose
del rosso.
Del
carminio.
La
bestia fiutava l’aria.
Il
ragazzo piangeva.
Il gatto
era morto.
Morto.
Morto.
«Sei
qui?»
Una
voce.
Umana.
Indiscutibilmente.
L’odore
del sangue del gatto aveva impregnato le narici, così che non aveva percepito
il forte profumo emanato dalla femmina che gli stava davanti.
Zanne.
Zanne.
Pronte a
sbranare.
Pronte a
lacerare.
Pronte a
dilaniare.
Pronte
ad affondare in quel collo lasciato scoperto dall’abito color porpora.
Si
sarebbe intonato bene, quel vestito, col suo sangue.
La
ragazza rimase impietrita per qualche secondo di fronte alla creatura cui si
trovò di fronte.
Nessun
ragazzo.
Solo
orecchie allungate e pelose, muso canino su un corpo grottescamente umanoide.
Lupo
mannaro.
Sibilla
deglutì, portando istintivamente le mani sui fianchi, alla ricerca della
bacchetta.
Solo
quando tastò la propria coscia, rammentò di non averla portata con sé.
Poi,
anche se l’avesse avuta, non era detto che l’avrebbe saputa usare.
Era in
trappola.
Prigioniera
della sua stessa visione.
E il
lupo le era sul collo.
Si voltò
e corse.
Corse,
incespicando nella neve candida.
Corse,
ma per poco, perché la creatura era lì, dietro di lei, col suo alito fetido
che le ottenebrava i sensi.
L’odore
della morte gli usciva dalla gola, filtrando dalle zanne.
E
l’ammorbava; penetrava nelle narici, nella gola…
Lento
veleno, s’insinuava in ogni fessura, corrompendo la sua natura alla radice,
alterandola.
Non
comprese quando il lampo di luce lo colpì, né il perché.
Fatto
sta che la bestia si ritrasse, in preda al dolore.
Sconfitta
non da un incantesimo, né da qualsivoglia forza magica.
Solo
dalla più banale delle infezioni: un’allergia.
La
ragazza… la ragazza indossava argento.
Un
semplice anello sottile che le cingeva l’anulare destro e che aveva posato su
di lui, nel tentativo di allontanarlo.
La
creatura aveva ululato caninamente di dolore; dapprima un guaito, poi sempre più
forte, fino allo staccarsi repentino dal pericolo.
Argento.
Argento.
Ma perché
faceva così male?
Era solo
un semplice anello, irradiato dalla luce della luna.
Ma
l’argento è il metallo di Selene, apportatore di protezione, d’amore, di
buona salute.
È il
metallo dei Veggenti, che lo usano per entrare in contatto col proprio Occhio
Interiore.
E
l’argento riflette le forze negative lontano da chi lo indossa.
Quale
miglior difesa, per un Veggente, di un anello in argento?
Esso ne
aumenta i poteri, li concentra in un circolo che richiama alla vita e rende il
talismano un’arma potente, quasi quanto i loro Occhi.
L’argento
cattura la luce della Luna.
L’anello
inserisce l’energia nella circolarità.
E il
potere si risveglia, illuminando a giorno tutta la foresta.
Quando
Sibilla si risvegliò, la bestia era sparita.
Nudo,
ferito.
Un
ragazzino di fronte a lei, quiescente nella neve e nel sangue.
Sorrise,
Sibilla, chinandosi su di lui.
Lo aveva
visto nel sogno.
Nel suo
sogno.
Posò la
mano sulla sua fronte, scoprendola dalle ciocche castane che l’attorniavano.
Era
caldo, o forse era solo il suo palmo ad essere bollente.
C’era
una forza nuova in lei a cui non sapeva dare definizione.
Era pura
e semplice consapevolezza che qualcosa,
quella notte, era cambiato.
Non
poteva comunque portare il ragazzo ad Hogwarts, era troppo pesante.
Optò,
invece, per la più pratica soluzione di chiamare Mrs. Lovelace, l’infermiera.
L’undicenne
aveva bisogno di riposo, e lei anche.
Si alzò,
lasciando sulla neve il solco delle proprie ginocchia, ma non andò lontano.
Con un
sorriso sulle labbra sottili e pallide, foglie e neve nei capelli come nelle
chiome degli alberi che la circondavano, tornò indietro, sfilandosi l’anello
dal dito e posandolo sul fanciullo.
Ora
poteva lasciarlo solo, sarebbe stato protetto.
Remus si
risvegliò solo la notte seguente in infermeria.
Mrs.
Lovelace protestava riguardo a “manie di dormire fuori” e “febbri da
cavallo” e Sirius, James e Peter erano lì, addormentati accanto al suo letto.
Con un
sorriso pacato, osservò gli amici, disposti nelle pose più assurde.
Sicuramente,
quando si sarebbero svegliati, lo avrebbero rimproverato della sua sventatezza,
ma ancor di più per aver osato compiere qualche marachella senza di loro.
Però,
quello era un segreto che non poteva condividere con loro, o perlomeno, non
ancora.
«Mh…ti
sei svegliato, finalmente.»
Sirius
sbadigliò, stropicciandosi gli occhi grigi con fare ancora assonnato.
«Dove
sei stato, stanotte, maledetto?» ringhiò.
Remus
sorrise: c’era qualcosa di canino nel modo di parlare del rampollo dei Black,
qualcosa che lo rendeva tranquillo, almeno quanto lo inquietava il suo sguardo.
Capace
di intuire tutto, anche il non conoscibile.
«Segreto.»
replicò.
Le dita
giocavano nervosamente con un pezzetto di metallo.
«Parla,
animale.»
Era
stato James, finalmente ritornato anche lui dal regno di Morfeo, a bofonchiare
le ultime parole.
«Sul
serio, non è successo niente d’eclatante.»
«Bugiardo.»
Remus
s’infilò l’anello al dito, sentendosi improvvisamente tranquillo e
protetto.
«Forse
un giorno ve lo dirò, ragazzi. Forse.»
Rispose,
sorridendo al riflesso della Luna fuori dalla finestra.
Quando
Fameliche,
feroci… squartano e lacerano, lasciando libertà al proprio istinto.
È
Questo
accade ogni mese e Remus Lupin sa che non potrà mai sfuggire a quella condanna,
ma solo sopportare.
Remus
Lupin dovrebbe maledire
Così
strana, così misteriosa…così magica.
Sorride
e lancia in aria un piccolo anello argentato, riacchiappandolo con la mano che
nasconde dietro la schiena.
Quando
Indagatore,
attento…scruta e svela, lasciando libertà al Futuro.
È
Questo
accade una sola volta nella vita di un Veggente, ma Sibilla Patricia Cooman sa
che basta e avanza, perché il Potere, una volta nato, è per sempre.
Sibilla
Cooman dovrebbe benedire
Così
strana, così misteriosa…così magica.
Sorride
e si guarda il dito dove un tempo c’era un piccolo anello argentato, poi si
aggiusta gli occhiali e scruta il futuro.