Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Ilsignorottopiumato    28/03/2014    0 recensioni
Questo testo deriva da una traccia di un tema. "Immagina due autori degli anni del primo conflitto ai nostri giorni. Dato che non volevo trasformare due personalità poetiche in macchiette del 2000, mi sono limitato a reinterpretare le loro storie con elementi che ricordano la loro vita. A voi il giudizio.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quella notte erano i suoni a dominare la campagna. Coloro a cui il docile abbraccio della sera aveva negato il dolce nettare del riposo, avrebbero avuto tutto il tempo e i sensi per poterlo affermare, senza dover nemmeno scrutare il monocromatico paesaggio di oscure distese di terra. Il bagliore dei lampi era talmente intenso da superare le strette fessure delle imposte e illuminare le buie camere. Seguitava poi il frastuono, un tremendo canto celeste che pareva scuotere le pareti e la nuda terra, mentre la pioggia precipitando sembrava applaudire al titanico concerto di luci, ombre e boati, senza accorgersi di starne prendendo parte.

Tra coloro che erano ormai caduti vittime dell’insonnia, c’era qualcuno che desiderava perlomeno godersene, beffandosi e infischiandosene del delirio che lo circondava. Esisteva un punto nella stanza di questo piccolo individuo, in cui la luce dei fulmini non poteva arrivare dato che un altro lume soleva rischiararlo al contempo, celato al disotto di un telo. Ed era proprio il piccolo individuo ( anch'esso coperto dal telo) a mantenere viva quell’ oasi in mezzo all'oscurità. Nel tentativo di sfuggire dalla grottesca e intermittente danza di ombre intorno a lui, il bambino aveva trovato rifugio grazie a quel piccolo lenzuolo, salvaguardandosi così da tutti quei tremendi fenomeni che tanto risvegliano orride fantasie nelle menti dei fanciulli.

L’unica cosa contro cui non poteva ergere alcuna difesa erano i suoni; terribili, fortissimi e invadenti suoni. Ogni boato era un sussulto e ogni sussulto un piccolo colpo inferto. Lieve, ma comunque spiacevole. Cercava con difficoltà di ignorarli, tentando con ogni mezzo di focalizzare la sua attenzione a ciò che la sua piccola fonte di luce gli permetteva di vedere. Davanti a lui pagine e pagine di parole gli presentavano un intero mondo. Narravano di un luogo dove non c’erano tuoni, ma solo tamburi suonati dagli indiani; dove chi diventava grande era il cattivo e chi non cresceva mai poteva volare. Un altro boato superò la barriera, riportandolo bruscamente alla realtà, escludendolo da ciò che quelle parole stampate gli offrivano. D’un tratto, un pensiero gli balenò nella mente, come il fulmine che precedeva il suo chiassoso assalitore. Il libro descriveva cose anche orribili. Pirati, coccodrilli che divoravano mani e quant’altro. Ma lui di questo non aveva  paura, perché sapeva chiaramente che cosa aveva davanti. Col suono non era così. I rumori annunciavano la presenza di qualcosa, ma senza che questa si mostrasse in alcun modo, spaventandolo a morte. La soluzione era dover riuscire a vedere il suono.

L’ennesimo tuono echeggiò nella stanza, ma questa volta il piccolo individuo dopo un lungo respiro gridò, come se avesse intenzione di sbeffeggiarlo, scandendo bene le parole: “Ba-da-booooom”. Il suono cessò, quasi fosse stato preso alla sprovvista. “Due vocali e tre consonanti” pensò. “Nient’altro”. Un'altra esplosione si fece largo tra le mura, e di nuovo gridò: “Sbada-baaaaam”. Ormai il titano stava lottando contro il fanciullo, e a nulla valsero i suoi prepotenti scoppi. Il piccolo prontamente li soverchiava tutti con la sua irrisoria logica. D’un tratto i boati cessarono, la pioggia affievoliva il suo applauso. Il piccolo individuo aveva vinto. Poi improvvisamente, un altro suono raggiunse l’interno del suo sottile involucro. Una voce sì. Una voce a lui familiare e conosciuta lo stava chiamando. “Giovanni”.

Ora il piccolo individuo si era trasformato in un uomo. Si trovava ancora su un letto, ma senza alcun riparo nel quale nascondersi, né parole alle quali abbandonarsi. Era come nudo. Visibile e vulnerabile in balia dei suoi ricordi. La voce continuava a chiamarlo. “Giovanni…Signor Pascoli mi sente?”. Al che lui rispose, ”La sento Dottore”. L’uomo che l’aveva chiamato lo fissò perplesso aspettandosi forse un altro tipo di risposta, poi riprese, “Cosa mi stava dicendo, di suo padre?”. Come se si fosse appena risvegliato, Giovanni si premette la fronte con il pollice e l’indice, dopodiché riprese la parola. “Le stavo raccontando della sera in cui lo vidi l’ultima volta”.

Temendo potesse risprofondare nei suoi pensieri in solitudine, il dottore gli intimò di proseguire. “La mattina seguente ricordo che mi alzai molto tardi. Non feci in tempo a vederlo partire per il lavoro. Mi aspettavo di ritrovarlo per l’ora di cena ma…non fu così”. Si interruppe un’istante come cercando di focalizzare quel mosaico di ricordi sconnessi, poi riprese, ”Scoprimmo verso tarda sera ciò che era successo. Due carabinieri si presentarono da noi annunciando la notizia a mia madre. Non ricordo di aver pianto, anche se probabilmente lo feci, ma ricordo la rabbia. Ero colmo di rabbia. Qualche giorno dopo ci riportarono la bicicletta che usava per andare al lavoro. Mi sembra di ricordare che avesse una ruota a terra, ma non so perché.”

Un altro sguardo perso assalì il volto di Giovanni che tradendo una vena di rancore riprese a parlare. “Era un piccolo paese. Tutti sapevano chi era stato. Tutti; ma nessuno disse niente. Ricordo di aver fatto un sogno sa? Ricordo che mi trovavo in mezzo a una strada, e a terra in mezzo all’asfalto c’era la bicicletta di mio padre. Quando mi avvicinai per raccoglierla, la sentì sussurrarmi un nome, un nome che mi avrebbe tormentato per molti anni. Disse: Pietro Cacciaguerra. Dopodiché udii due spari, e poi nulla più”.

Ci fu qualche secondo di silenzio, poi improvvisamente la voce di Giovanni lo infranse esclamando: “Bang, Bang”. Il dottore lo guardò stranito per poi domandare “Come dice?” “Niente Dottore, pensavo al suono.”, si sentì rispondere. “ Bang, Bang”.  Quando Giovanni finì di raccontare, il Dottore cercò di rincuorarlo esprimendosi al meglio delle sue possibilità  al giovane di fronte a lui. Ma fioca era la speranza che aveva di fargli lasciare quello studio, con il peso del suo fardello meno gravoso. Giovanni ringraziò e salutò il suo interlocutore. “Grazie Dottor. Carducci. Adesso devo andare.” “Mi raccomando, torni la settimana prossima”. Giovanni gli sorrise e chiuse la porta dietro di sé. A quel punto, si diresse verso casa.
 
                                                                                                             ***
 
L’oggetto brillava tra le sue mani, irradiato dal bagliore soffuso della luce delle lampade. Mostrava sprezzante lo scintillare del suo prezioso metallo, facendolo talvolta penzolare con un moto che possedeva una qualche natura ipnotica. Si accorse troppo tardi di essersi ormai fatta incantare dall’innegabile fascino che quell’oggetto tanto comune (ma in quel caso così unico) aveva suscitato su di lei. Quando si decise ad alzare lo sguardo e ad incrociare quello del ragazzo che teneva stretto in pugno l’orologio d’oro, si rese conto di non aver mutato le sue sensazioni.

Il giovane la fissava con aria astuta e tentatrice, ma comunque, se ne restava immobile e in silenzio. “Quanti anni hai?”. Non era affatto sicura di volere una risposta, né tantomeno certa di riceverne una. Ma contro tutte le sue previsioni, sentì la voce del giovane che disse: “Diciotto…”. Ci fu tra loro un momento di silenzio, poi riprese. “Diciotto carati”. L’orologio aveva ricominciato a penzolare dalla mano del ragazzo che non accennava a cedere all’imbarazzo, cosa che invece stranamente lei provava. Passò di nuovo qualche secondo, dopodiché lo prese per mano e lo guidò all’interno di una delle stanze dell’edificio.

Passò dieci minuti ad ammirare il Rolex che ormai adornava il suo polso; era stata una notte impegnativa per entrambi. Lei se l’era meritato e lui sembrava abbastanza soddisfatto da poterlo cedere volentieri. Ora il ragazzo se ne stava accoccolato dietro di lei, accarezzandole la schiena come un ebreo accarezza il muro del pianto, mormorando: “Solo io, tu e il silenzio”. Cercò di voltarsi, così da poterlo guardare negli occhi di nuovo, tentando di intravederne il ragazzo che era e non l’uomo che quella notte era stato. Lui non glielo permise. La trattenne dolcemente, chiedendole di restare in quella posizione. Rassegnata, tornò a fissare l’orologio, ma con minore intenzione.

Ora sentiva il suo respiro sulla pelle. Si accorse che le stava annusando la schiena con lunghe inspirazioni. Dopo che la fronte di lui fece capolino entrando in collisione con quella distesa rosata, gli sentì chiedere: “Qual’ è il tuo nome?”. La donna attese nel rispondere, ma fu più per la sorpresa che per il buon senso. Quindi rispose: “Mi chiamo Ermione… E tu?”.

Non le rispose subito. Aveva un buon profumo Ermione. Riusciva a percepirlo distintamente, anche se l’aria della stanza era invasa da essenze di incenso e olii. Si sarebbe ricordato di quel profumo per sempre e lo avrebbe riconosciuto in mezzo a mille altri. Avrebbe inondato le sue future passioni con questa sostanza e allora avrebbe saputo di trovarsi di nuovo accanto ad Ermione. Di potersi di nuovo fondere con lei, bagnandosi in quell'essenza che ormai gli era entrata fin dentro l’anima. Pino silvestre, dolce pino silvestre. “Gabriele” disse infine. “Mi chiamo Gabriele. E ti prometto, che non dimenticherò mai né te, né me, né questo silenzio; mia Ermione”. Detto questo, cinse la vita della sua ninfa, poggiò il capo sopra il guanciale e dopo un ultimo inebriante assaggio del suo profumo, si addormentò.            
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Ilsignorottopiumato