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Autore: Alepotterhead    28/03/2014    1 recensioni
Mags è l'adorabile ottantenne che tutti abbiamo conosciuto, ma anche lei è una vincitrice. O meglio una sopravvissuta.
Ecco a voi i Noni Hunger Games. Gli Hunger Games di Mags.
Dal capitolo 9
“Tributi prendete posizione”
La voce mi fa sobbalzare e la pedana si solleva leggermente, le ante del tubo che la circondano si aprono. Guardo il pacificatore alle mie spalle, non si muove di mezzo millimetro. Prendo un respiro profondo e faccio i due passi che mi separano dalla piattaforma, sento le gambe di gelatina. Prendo posizione come mi è stato detto.
“Cinque secondi rimanenti alla partenza”
Conto mentalmente… Cinque… Quattro… Tre… Due… Uno…Ci siamo.
Le porte si chiudono e la piattaforma inizia lentamente a sollevarsi.
Si apre una botola sopra la mi testa e una cascata di luce piove su di me.
Ci siamo davvero.
All’inizio non riesco a distinguere ciò che mi circonda, appena mi abituo alla luce, rimango senza fiato.
È un paesaggio incredibile."
Genere: Avventura, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mags, Nuovi Tributi, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Piove.
Dopo giorni e giorni di tuoni e nuvole, piove.

Ma non è acqua quella che scende dalle pesanti nubi che coprono il cielo dell’Arena.
Sono spine.

Spine grosse come una falange del mio pollice, nere e affilate che si conficcano in qualsiasi superficie disponibile, la cosa terrorizzante sta nel fatto che non cadono come la pioggia, semplicemente dall’alto al basso, troppo facile così. Questa sottospecie di tempesta sembra muoversi anche in masse laterali, ad ondate, in modo da colpire benissimo qualsiasi punto del corpo.

“Mags muoviti! Non startene li impalata!”

Solo quando recepisco le parole sgarbate di Aiden mi rendo conto di essere ferma a fissare quella pioggia tanto strana quanto pericolosa e al tempo stesso spettacolare. Mi riscuoto davvero solo quando inizio a sentire le spine che mi penetrano nelle braccia, nelle gambe, e in quel momento scatto, raccatto dallo zaino la giacca termica e me la infilo, per avere un po’ più di riparo, alzo le braccia per proteggermi viso e testa e mi infilo nel folto della foresta dietro i ragazzi del Due per trovare una qualsiasi forma di protezione, ma a quanto pare la vegetazione non offre alcun aiuto contro la pioggia, anzi più ci addentriamo nel fitto e più sembra aumentare d’intensità.

I tuoni e gli scrosci sono sempre più volenti, sembra una tempesta in piena regola se non fosse che non c’è nemmeno una goccia d’acqua.

“Non riesco ad accelerare e le piante non sembrano creare nessuna copertura” Keri è evidentemente distrutta oltre che abbondantemente ferita.

“Me ne sono accorto anche io” Aiden strappa delle foglie e le usa per coprirsi almeno la testa, lo stesso facciamo io e Keri.

Solo allora ci accorgiamo che anche le piante vengono colpite dalle spine e dai solchi che rimangono nella corteccia, nelle foglie, nelle radici, inizia a stillare sangue. Così che addosso a noi piovono spine e anche gocce di sangue scuro e denso. Aiden è evidentemente sconvolto, gli occhi sgranati e il respiro appena accelerato, probabilmente non si era accorto della natura sanguigna delle piante come me e Keri.

“E adesso?” Keri sembra andare in panico.

Fortunatamente lo sconcerto di Aiden non dura a lungo “Proviamo a costruircelo noi un riparo, perché se dovessimo essere colpiti in testa o sul volto sarebbero guai seri, Keri siediti e cerca di non esporti troppo, Mags taglia le liane e le foglie più grosse, io con l’ascia mi occupo di rami e dei tronchi”

Non c’è bisogno di dire altro, non importa chi ha dato l’ordine, i battibecchi già dimenticati di fronte a una calamità maggiore, purtroppo l’operazione risulta più difficoltosa del previsto, soprattutto perché devo fare tutto con una mano sola, l’altra mi serve per coprirmi la testa e gli occhi. Tutto si complica ulteriormente quando inizia a colarmi sulla faccia il sangue dal mio braccio e dalle foglie che uso per ripararmi gli occhi.

Così mi intralcio da sola e basta, mollo le foglie da sopra la mia testa e uso entrambe le mani per raccogliere liane e foglie, cercando di essere più veloce possibile.  Fatto ciò torno dove c’è Keri lanciando un gemito quando una spina mi entra nella guancia.

“Mags, tutto bene?”

“Si, tu?”

“Si, dov’è Aiden?”

“Non è ancora tornato?”

“No, però mi è venuto in mente che nel mio zaino c’è un telo impermeabile, possiamo usarlo come tetto”

“Ottima idea!” afferro il suo zaino e glielo lancio “Inizia a tirarlo fuori, vado a vedere dov’è Aiden e se gli serve una mano”

Mi fiondo nella direzione in cui mi pareva di averlo visto.

“Aiden!” il mio grido viene coperto da un tuono fragoroso.

“Aiden!” altro tuono.

Ci riprovo almeno una mezza dozzina di volte.
Ora la domanda è: perché gli strateghi non vogliono farmi trovare Aiden?

Avanzo a caso, in quella pioggia nera, dura e implacabile che sta trasformando il verde della foresta in un rosso cupo, mi vengono i brividi e quando decido di tornare in dietro almeno per aiutare Keri, mi accorgo con orrore che non so più da che parte dirigermi.

Non riesco a distinguere in che punto mi trovo, né da dove sono arrivata.
Perfetto.

Sono sola, senza zaino, senza armi, sotto una pioggia di spine e senza avere idea di dove mi trovo.
Davvero perfetto.

Ormai la giacca cade letteralmente a brandelli lungo le mie braccia e quello che mi ritrovo a fissare è la mia pelle costellata da puntini neri accompagnati da sottili rivoletti di sangue, stranamente non sento male, qualcosa non va. Mi guardo le gambe. La pelle esposta tra la fine dei pantaloncini e l’inizio degli stivali si presenta allo stesso modo, le spine sono penetrate nella pelle, ma nemmeno si sentono, per assurdo provo più dolore nei punti scorticati ormai giorni fa appena entrata nell’Arena.

Non so cosa significhi, ma di sicuro non l’hanno fatto per farci un favore. Devo trovare un riparo. Un riparo qualsiasi va bene pur di sfuggire a questa specie di tormenta.

Tento di guardarmi attorno alla ricerca di qualsiasi sporgenza in grado di offrirmi riparo, ma con scarsi risultati, quindi faccio l’unica cosa possibile per ottenere una protezione: mi calo tra la fessura di due radici di un albero, le più grandi che riesco a vedere, e anche se mi ripugna abbastanza, mi accuccio e tento di incastrarmi li sotto. L’operazione è più complicata del previsto, le radici si sollevano da terra meno di quello che credevo quindi lo spazio è decisamente piccolo e il terreno su cui mi sto poggiando è viscido e dalla poca luce che filtra è di un colore inquietante, tanto che devo sopprimere un conato di vomito. Alla fine sono scomodissima, sporca da testa a piedi, ma più o meno sono al riparo. Mi consolo dicendomi che di sicuro è meglio che rimanere fuori sotto le spine, allo scoperto e disarmata.

In questo buco nero e angusto perdo la percezione del tempo, probabilmente anche a causa del fatto che almeno due o tre di volte mi addormento per poi risvegliarmi di soprassalto con gli arti che formicolano a causa della posizione scomoda. La stanchezza inizia a farsi opprimente, nemmeno ricordo l’ultima volta che ho dormito per più di un paio d’ore, ma ciò che inizia davvero a preoccuparmi è il cupo gorgoglio del mio stomaco ormai onnipresente, avvertimento che non posso resistere a lungo alla fame.

Senza sonno e senza cibo da troppo tempo, corro il rischio di accasciarmi a terra svenuta senza nemmeno accorgermene e da lì a essere uccisa senza la minima fatica il passo è breve.

Rimango a rimuginare al buio un altro po’, giusto per essere certa di lasciar passare quella pioggia anomala…


Mi alzo di colpo e sguscio fuori dalle radici in cui ho tentato di ripararmi, la prima cosa che noto è il sole caldo e abbagliante che mi scalda la pelle con un leggero formicolio. Chiudo gli occhi e prendo un respiro profondo, l’aria sembra essere particolarmente fresca e profumata, ristoratrice per la mia mente annebbiata, ma non tanto per i miei polmoni, infatti sento come un groppo alla gola. Sgrano gli occhi e assorbo ogni più piccolo dettaglio del paesaggio che mi circonda: centinaia e centinaia di fiori, foglie svolazzanti sorrette e sospinte da caldi refoli di vento che mi accarezzano la pelle, colorati uccellini che svolazzano allegri in cerchi inconsistenti contro il cielo terso.

Ho come la sensazione che ci sia qualcosa che non va, ma tutto è troppo bello per preoccuparsi di qualsiasi altra cosa. Inizio a camminare sul prato pianeggiante guardandomi intorno estasiata dalla luminosità del posto. Solo che non avrebbe dovuto essere un prato pianeggiante o mi sbaglio?

Decisamente mi sbaglio, a casa il giardino è sempre pianeggiante. E io sono a casa giusto? Anche se manca il profumo di sale.
Continuo a camminare anche se non ricordo dove di preciso sto andando. E in effetti nemmeno da dove sono venuta.

Mi fermo. Cosa sto facendo?

Ma quei pensieri vengono stroncati sul nascere dalla vista di una casetta che fa capolino nel prato reso multicolore dai fiori. Mi avvio e busso delicatamente alla porta, mi apre una vecchina ingobbita con vaporosi capelli grigi e un dolce sorriso sulle labbra, mi ricorda vagamente qualcuno anche se non riesco a mettere a fuoco chi, mi apre la porta e mi invita a entrare senza dire una parola, mi prende la mano e mi porta in cucina dove la tavola è apparecchiata e ricca di ottimo cibo. La sua mano è grande esattamente come la mia, calda e rugosa, rassicurante e fragile allo stesso tempo, però questo contatto mi fa stare bene, mi sento in pace e mi lascio guidare fino alla sedia.

“Mangia con me” la sua voce è strana, non è calda come il suo sorriso, ma mi offre un cestino con del pane. E solo allora sento di star praticamente morendo di fame, la testa pulsa, mi fanno male le braccia e le gambe e ho il respiro affaticato, la pace di poco prima è completamente svanita. Mentre tendo una mano verso il pane, mi rendo conto che la vecchina è vestita di stracci, puliti, ma pur sempre stracci, non posso portarle via il pane.

Si accorge della mia titubanza.

“Non ti preoccupare, mangia… e poi…resta… resta con me” non riesco a capire cosa mi voglia dire, ma sento di nuovo una sensazione di calore e calma.

“Resta…” e mi offre di nuovo il cibo. Potrei fermarmi davvero, magari ad aiutarla con qualche lavoretto, in fondo me la so cavare, potrei esserle utile. Lei è così gentile con me, io potrei esserlo con lei. Sarebbe corretto.

“Resta…per sempre…” si, voglio restare, voglio aiutare e, forse, mi stavo dirigendo proprio qui.
Anzi di sicuro stavo venendo per portare aiuto.
Sorrido e sento la testa leggera.

“Resta, qui c’è cibo, protezione e indumenti caldi”

Sorrido e allungo nuovamente la mano verso il cestino dal profumo inebriante che mi viene offerto.

Si, è tutto quello che desidero, tutto quello di cui ho bisogno. Per un momento sento qualcosa pungermi la mente, come un ricordo che tenta di venire a galla, che tenta di farsi largo nella nebbia. Ma è un istante ed è già svanito, sono sola, la vecchina è sola. Io aiuto lei e lei me. Nient’altro.

Cibo. Un tetto. Vestiti caldi.  

Prendo un panino e sento il calore che emana arrivarmi fino al cuore, ma mentre sto per addentarlo, lo sguardo mi cade oltre il tavolo imbandito, sul riflesso visibile su un vetro di una finestra semi aperta.

Il vetro riflette la figura di una ragazza semi nuda.

Deve esserle successo qualcosa di orribile perché è solo un ammasso di ossa sporgenti, lividi, tagli, contusioni e una massa aggrovigliata di capelli di cui nemmeno si capisce il colore originale tanto è coperta di sporcizia da capo a piedi. Ma la cosa inquietante, che mi fa venire la pelle d’oca, sono gli occhi, grandi, sgranati, scuri, incavati su quel viso già scarno e cereo, due pozzi scuri che contrastano col pallore inquietante della pelle e risucchiano qualsiasi cosa, che non lasciano scampo e le conferiscono un’aria selvatica da folle omicida.

Torno a concentrarmi sul tavolo apparecchiato, in fondo quella poverina non è un mio problema, io starò per sempre con la vecchina e ci aiuteremo a vicenda. Credo che potrei intrecciare un cesto e mettere su una bancarella con le cose che quest’anziana signora cucina, perché tutto ha un aspetto davvero delizioso.

Se non fosse che mi rendo conto che ho guardato l’immagine in un vetro.
‘Il vetro riflette la figura di una ragazza semi nuda’ è stato il mio primo pensiero.

Riflette.

Abbasso lo sguardo, fissando inorridita quello che è il mio corpo. O quello che ne rimane.

I tagli, i lividi, le ossa sporgenti. Prima non ci avevo fatto caso, ma la mano che regge ancora il panino è ricoperta di terra e sangue. Con uno strillo lo lascio cadere a terra e lo fisso che rotola per la stanza.

Sono io la pazza alla finestra.

L’Arena. Io sono nell’Arena.

Questa è l’Arena.
Ne hanno costruita una anche nella mia mente.

Io non sono qui
fisicamente, perché ricordo la foresta.

In realtà non mi sono proprio ricordata, perché in fondo non me ne sono mai dimenticata davvero, solo che sembravano dettagli insignificanti, mentre adesso ho messo tutto di nuovo a fuoco.

Quello che vedo è tutto finto, finto, finto. Il prato, i fiori, la vecchietta, il cibo… Quello che è vero è la mia immagine, io mezza morta di fame, vedo e sento sotto le mie dita ogni osso, ogni ferita...
Rialzo lo sguardo e quel mondo luccicante, felice e privo di dolore sta cadendo a pezzi, più io acquisto lucidità più tutto si autodistrugge, il prato fuori dalla finestra è diventato nero e bruciato, il fumo che pervade l’aria inizia a penetrare nella stanza, si intravede solo il cielo plumbeo e la dolce signora che avevo davanti è sparita, al suo posto vedo un’altra figura.

Me stessa.

Ma una me stessa bellissima e al tempo stesso terribile: è esattamente il contrario di come sono, lei è vestita con una corazza lucida bronzea e un elmo da combattimento, impugno un tridente in una mano e un arpione a presa lunga nell’altra, io sono praticamente nuda. A lei i capelli scendono da sotto l’elmo lucidi e brillanti, le incorniciano un viso pieno e roseo, su cui campeggia un ghigno micidiale e uno sguardo sanguinario, io assomiglio più a un cadavere che a me stessa.

Se questo è tutto finto adesso mi devo svegliare no? Devo riprendermi dall’illusione.
Quindi quando la me stessa armata carica un colpo non mi muovo.

Enorme errore.

Il tridente saetta e mi squarcia il quadricipite destro, non riesco a trattenere un urlo di dolore e un conato di vomito. La gamba non regge il mio peso e mi affloscio a terra, iniziano a scendermi le lacrime dal dolore.

“Tu mi disgusti” la voce che riverbera nelle mie orecchie è fredda, calcolata, senza scrupoli “sei un essere pietoso, degna solo di strisciare come un verme”. Sputa e si avvicina finché vedo due sandali borchiati di bronzo esattamente di fronte a me “Credo che per essere un verme come si deve, non ti servano gli arti”

A queste parole sollevo la testa, cerco alzarmi e scappare, ma vengo spinta bruscamente a terra. Urlo. Lei mi si appoggia sopra di peso e mi blocca mani e gambe.

Il sottofondo alle mie urla è una risata glaciale, che ti regala una sensazione di freddo al cuore che fa male.

“Oh la piccola Mags crede che urlare o piangere servirà a qualcosa? Sei ancora più pietosa di quello che credevo” all’improvviso ha in mano un’ascia “dimmi, cosa preferisci perdere per prima? Una gamba? Una mano? Qualche dito del piede? Oh suvvia, non fare quella faccia e non ti preoccupare, non sono un mostro, non ho intenzione di amputarti i quattro arti in un colpo solo, sono favorevole a staccarti un pezzo per volta”

Le forze sembrano avermi abbandonato, anzi sembrano concentrate tutte per farmi sentire il dolore dell’armatura di metallo contro il mio quadricipite squarciato. Ero convinta che fosse tutto finto e invece tutto è orribilmente vero, perché sento il fumo della stanza che mi penetra nei polmoni e brucia, il peso di una me stessa sadica su di me e il dolore, un terribile dolore che non può essere altro che vero.

“Tu mi disgusti, sei patetica” un lampo bianco sull’acciaio e un dolore tanto intenso che mi si offusca la vista e smetto di respirare solo per urlare quanto mai in vita mia e singhiozzare inconsultamente, mi sembra di perdere il controllo del mio corpo, ho degli spasmi che mi fanno scattare le gambe e arcuare la schiena, mi mordo l’incavo della guancia e la lingua perché sento il sangue caldo colarmi lungo la gola. Tutto mi fa così terribilmente male che quasi mi sembra di esplodere, ma sfortunatamente non esplodo né perdo i sensi, sono cosciente e straziata dal dolore, vedo la me stessa che ho di fronte con la faccia schizzata di sangue, ma la cosa peggiore è vedere la bramosia con cui lecca via le gocce che le sono arrivate alle labbra. Urlo ancora di più e chiudo gli occhi.

“Quante storie per una mano, la sinistra per giunta, nemmeno fossi mancina…tsk. Sei debole e patetica. Sei un verme che merita solo di strisciare. Patetica”

Patetica, patetica, patetica, sento questa espressione come un eco nella mia testa, mentre le altre parole arrivano alle mie orecchie come da lontano, come se fossi rinchiusa in una bolla di dolore che filtra qualsiasi altra sensazione, udito compreso.

“Vedi di non morire, che dobbiamo divertirci un altro po’, sai i vermi sono anche ciechi, quindi presumo non ti servano nemmeno gli occhi…”

Tanto già tengo gli occhi chiusi, non sarà difficile abituarsi al buio.

Ma il dolore prolunga l’agonia, l’agonia è dolore, è un circolo vizioso, non c’è altra via d’uscita.

Ma io non sono qui. Non sono davvero qui.

Però il dolore c’è. Ed è una tortura.

È l’unica cosa che so, che sento.

Per uscire da quest’incubo devo morire.

Per risvegliarmi nell’Arena devo morire.*

Se non funzionasse almeno il dolore cesserebbe e io voglio che smetta.

Basta, basta, basta.

Apro gli occhi anche se mi costa fatica, ma ormai credo di essere assuefatta dal dolore, tanto che cerco di trarne forza invece che lasciarmi schiacciare, devo concentrarmi, devo vedere la lama che cala per spostarmici sotto al momento giusto.

“Oh guarda chi è tornato tra noi. Ottimo, voglio leggere nei tuoi occhi che hai imparato due lezioni fondamentali prima di diventare un inutile verme. Primo:
io sono il tuo peggior nemico” si avvicina al mio volto e mi ritrovo a fissare ansimante i suoi occhi che sebbene siano dello stesso colore dei miei, siano i miei, sono illuminati da una luce completamente diversa, folle e spietata, e quando apre la bocca l’alito sa quasi di morte e putrefazione e le parole lasciano sulla mia pelle una traccia di paura quasi fisica, “Secondo:  niente è più forte della morte”.

Ma lei e io, io e lei lo sappiamo, sappiamo cosa sta succedendo, io sono lei, lei è me, devo solo tenere le due parti in equilibrio.

È questo che ho capito. E non me lo dimenticherò.

Poi tutto succede alla svelta, lei scatta, si alza, solleva l’ascia e la fa saettare verso il mio avambraccio destro e in quel momento mi sposto esattamente sotto la lama.






Mi sollevo a sedere di scatto e respiro pesantemente come se fossi rimasta sott’acqua per un’eternità. Sono scossa da brividi e mi bruciano gli occhi, le mani mi tremano, soprattutto la sinistra, e mi sento esausta, stremata.

Mi rendo conto che non sono dove dovrei essere, non sono più nascosta sotto le radici, sono in superficie, seduta. Mi sorge il dubbio che ci sia qualche altro trucco, che potrebbe essere ancora tutto finto, probabilmente sono i postumi della violenza psicologica che ho subito, però mi domando come sia potuto succedere, cosa sia stato. Un incubo? Un avvelenamento? Di sicuro non è stato nulla di naturale.

Tento di alzarmi e dopo un paio di tentativi ci riesco, le gambe mi tremano e la coscia destra pulsa tremendamente, ma per il resto riesco a stare in piedi anche con la testa che gira.

Quando porto una mano al capo mi accorgo che sulle tempie, ai due lati, ho due ventose appiccicate, le stacco e guardo quei due dischetti di plastica gialla nel palmo della mano che emettono un lieve bip.

Adesso capisco perché non sono più nascosta nel mio buco, perché non mi sono svegliata quando ho capito che era un'illusione, capisco anche che tutti hanno visto quello che è successo, gli strateghi conoscono le mie paure più profonde, mi hanno manipolato, mi hanno stressato, mi hanno indotto al suicidio, mi hanno distrutto, ma involontariamente mi hanno anche ricostruito, mi hanno dato un’arma per vincere: conosco meglio me stessa, ho affrontato me stessa, mi ha ucciso e adesso l’ho accettato. L’ho accettata: la morte.

Getto a terra quelle ventose, porte che hanno permesso a tutti di vedere la mia anima nuda, le schiaccio con violenza sotto i miei stivali e inizio a mettere ordine in quel caos che rigira nella mia testa.

Prima di cadere nel limbo doloroso ero nascosta, nascosta per sfuggire alla pioggia di spine. Mi guardo le braccia, ho ancora numerose spine infilate sotto pelle, lo stesso vale per le gambe, che mi provocano un leggero prurito. La cosa strana è che partendo dai forellini delle spine sembra essersi formata una specie di rete viola sulla mia pelle, o meglio, sotto pelle, come se il mio sangue avesse cambiato colore o peggio come se qualcosa stesse circolando ancora dentro di me visibile sotto la cute.  Forse le spine erano davvero avvelenate, inizio a toglierle, aiutandomi anche con i denti.

Aiden. Keri.
Mi sento come folgorata. Devo tornare da loro.
Mentre cammino togliendomi le spine dalle braccia mi rendo conto di non provare dolore, non so se è perché effettivamente non fa male o se ho provato un dolore così acuto e logorante nella mia mente che adesso anche il mio corpo si sta adeguando. Perché è fuor di dubbio che io abbia provato davvero dolore, il tremito che non lascia nemmeno un istante la mia mano sinistra ne è la controprova.


Penso incessantemente alla casina della vecchia, se non mi fossi accorta che era un’illusione sarei rimasta lì per sempre? A vivere una vita-non-vita? A ingannare la mia mente un giorno dopo l’altro? Sarei stata in grado di vivere in un’Arena perenne? Se un tributo avesse ucciso il mio cormo mentre ero incosciente, quella semi realtà sarebbe diventata la vera realtà?

Quello che so è che la me stessa che ho incontrato era una proiezione della mia mente, mi ha detto cose che già pensavo, ha fatto leva sulla mia scarsa fiducia e autostima, gli strateghi non potevano saperlo, mi hanno usato come arma contro me stessa, niente di più letale e distruttivo, “Primo: io sono il tuo peggior nemico”, mi ha fatto capire che alla fine dovrò combattere con me stessa, che forse lo sto già facendo, anzi forse è proprio questo lo scopo dell’Arena, metterti di fronte alle parti peggiori di te stessa e obbligarti ad accettarle. Se non le accetti ti autodistruggi. Capisco quanto sono stata vicina all’autodistruzione.
“Secondo:  niente è più forte della morte”. Sbagliato: la speranza è più forte della morte**, sono riuscita ad accettare la morte perché speravo di uscirne, non mi importava di morire davvero o di risvegliarmi nell’Arena, speravo nella morte stessa, la speranza è l’ultima a morire.


Sono così immersa in questi ragionamenti che quasi non mi accorgo della figura stesa a terra.

Mi si blocca il respiro in gola e ne esce un rantolo, il mio cuore perde un colpo, la mano sinistra trena più violentemente.
È bianco come un cadavere, rigido e inerte a terra, con due ventose di plastica gialla contro le tempie e una rete violetta che sembra un ricamo sulla sua pelle. Stanno torturando anche lui.



Dave.







 
 
 
 
 
 

*Come molti di voi avranno capito c’è un riferimento a Inception, io amo quel film.
** ‘La speranza è più forte della morte’ cit. del presidente Snow nel film Hunger Games.


 
  
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