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Autore: Prontaanarrare    29/03/2014    1 recensioni
Finalmente è passata la brutta stagione, finite le epidemie d'influenza, finiti i temporali, finite le gelate. Il sole si alza forte all'orizzonte, il cielo è sereno e la temperatura, non c'è dubbio, è ormai primaverile. Nel Corso principale della città c'è una stazione della metropolitana e ogni mattina tante persone pronte a prendere il loro treno godendosi la primavera. In mezzo alla folla ci sono una donna, ferma sul marciapiede, con la mente chissà dove, Silvia, e un uomo sempre di corsa, con lo sguardo altrove, Marco; gli unici nel Grande Viale, sempre così trafficato, a sembrare addirittura appartenenti ad un altro mondo, dove è ancora inverno, dove la paura sembra avere ancora la meglio e dove il sole sembra non splendere. Ma cosa succede se un giorno ci si scontra faccia a faccia col proprio destino? Ci si scotta o ci si abbronza toccando il sole all'improvviso?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La primavera tranne me e te

Capitolo 1


INVERNO 

 
Silvia si confondeva tra la folla del Grande Viale. Gli orologi segnavano le otto e cinque del mattino, il viale pullulava di impiegati, diretti alla stazione della metropolitana, quasi tutti in giacca e cravatta e non più con i pesanti cappotti, che camminavano freneticamente nella strana aurora di fine aprile. Silvia avanzava, un passo dopo l’altro, con qualche sensazione alla rinfusa in una danza malinconica nella sua testa. Osservava la folla, gli uomini, le donne, non c’era differenza in quel fiume in partenza, le giacche firmate coprivano sia petti stretti e minuti, sia curve morbide, messe in risalto dal vestiario. Nonostante i raggi tiepidi del sole, nonostante quel soffio di luce, i colori erano tutti spenti, le gonne e i doppiopetto variavano dal nero sbiadito all’ocra, al marrone, al viola marcato, scuro. Non si illuminavano quei colori, stavano lì, in ombra, trasportati da chi li indossava, muovendosi intorno a quelle chiazze così diverse e terribilmente uguali: i capi grigi, grigio perla, grigio antracite, grigio chiaro, grigio scuro, grigio. Silvia non percepiva sulla propria pelle il sole e il caldo di cui parlavano le previsioni del tempo, sospirava, guardava le persone camminare intorno a lei.

“Loro sentono la primavera?” 

Mentre avanzava per il suo tragitto fino alla macchina, nel garage in affitto, lanciava rapide occhiate a quei volti che si muovevano lì, nello stesso viale. Erano facce spente, espressioni assenti, chiuse, ferme; alcuni sbadigliavano, altri tuffavano gli occhi in uno smartphone, tutti grigi, più o meno. Però ogni tanto alzavano lo sguardo al sole, solo ogni tanto, e incurvavano le labbra in qualcosa che sembrava un sorriso.
 
 “Certo che sentono la primavera”. 

Silvia inchiodò lo sguardo all’asfalto grigio del marciapiedi, provò a immaginare il sole, i raggi caldi, il viso immerso nella luce, il vento fresco, gli alberi, i fiori. Nella sua mente prendevano forma solo un attimo, per poi sfiorire e diventare solo sfocati disegni senza nome, una volta che risollevava lo sguardo e riportava gli occhi alla realtà: alle sue mani con lo smalto nero rovinato, ai suoi stivali marroni, alle maniche ampie del giubbotto, al colore cupo della strada, interrotto da poche strisce bianche, alla facciata del palazzo color crema vicino al quale camminava, alle sagome chiare degli edifici  che si ergevano alti e immobili davanti a lei, ai lati di quella strada larga, dove la luce danzava insieme alla polvere, dove la gente danzava nella vita, alla ricerca di una continuazione per quella giornata appena iniziata. Un uomo sui cinquant’anni, il tipico signore in carriera di razza Burberry le diede una gomitata sorpassandola. La gente aveva fretta, solo lei vagava tra noia, malinconia e dispiacere, come se fosse ancora l’aurora, quella strana aurora di fine aprile. Rallentò costeggiando il ciglio del marciapiede, si arrese e lasciò che i suoi interrogativi senza risposta la tartassassero. Perché? Era dall’inizio del viale che se lo chiedeva, perché? Aveva ormai oltrepassato la stazione della metro e continuava a chiederselo, perché? Perché lei non  sentiva la primavera?  Le si riempirono gli occhi di lacrime e rimase ferma, sul bordo del marciapiedi, piangeva.

 


Marco camminava in fretta col cellulare in mano, selezionando le innumerevoli opzioni dallo schermo sensibile. Si era ripromesso di non correre, nonostante lo desiderasse, perché con la folla del viale, tutta diretta alla stazione, correre era impossibile. Eppure le gambe non sembravano riuscire a contenere la sua andatura affrettata e le dita scorrevano altrettanto frenetiche sullo schermo dell’iPhone. Era riuscito a rispondere a tutte le e-mail che erano arrivate per il suo ufficio che comunque, apriva ancora fra troppo tempo per pensare ad un ipotetico ritardo e mettersi a correre. Mise in tasca il telefono e si soffermò a guardare l’orizzonte senza rallentare il passo mentre i suoi occhi azzurri si incupivano: Marco non si fidava di quel sole e di quella primavera. Intanto aveva oltrepassato la stazione della metropolitana e la sua camminata si avvicinava sempre di più alla corsa mentre continuava ad inseguire con lo sguardo quel sole, nonostante l’incertezza lo coglieva nel solo pensare la luce. E se quei raggi fossero solo illusori, fragili, effimeri? Chi poteva rassicurarlo? Chi poteva portargli un sole forte e duraturo? Chi? Era come se cercasse la risposta a quella domanda mentre avanzava freneticamente per il viale con sguardo distratto, rivolto verso la luce della stella del giorno.
 

 

I due corpi si urtarono. Nello stesso istante due cuori sobbalzarono, due busti ruotarono, due volti istintivamente si cercarono. Due mani si allungarono toccandosi e due paia di occhi si trovarono. Due sussurri farfugliarono scuse, due voci minimizzarono dicendo che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Due sguardi si ritrovarono a stare così, in linea retta, due assi nell’aria tiepida e azzurra di quella piccola primavera. Due sconosciuti si presentarono.

- Marco. -

- Silvia. -

 

 

L’indomani, senza saperlo, Marco e Silvia si svegliarono nello stesso istante.  Anche quel giorno l’aria era azzurra e il sole era tiepido, anche quel giorno una bella primavera li aspettava fuori dalle loro case. Silvia la vedeva passare dai vetri della finestra e illuminarle il viso, Marco la sentiva  entrare dalla porta del balcone. Silvia si strusciava tra le lenzuola,  Marco si stiracchiava alzando la testa dal cuscino. La luce era uguale in entrambe le abitazioni e in ugual modo li chiamava ad accostarsi a lei, così come in ugual modo i due giovani si alzarono in fretta dai loro letti e attraversarono in pochi passi le loro camere sbucando in due corridoi, simili per i colori delle pareti, ma lontani parecchie centinaia di metri. Anche quel giorno Silvia e Marco non erano nelle braccia di quella bella primavera. 
 

 

Silvia insaponava i capelli con lo sguardo fisso sulle mattonelle del bagno. Guardava affascinata il loro colore e aggrottava le sopracciglia, come se ciò avesse a che fare con quella domanda che le balenava nella mente. Per la prima volta le era balzata in testa il mattino precedente, non appena aveva imboccato il viale, poi si era allontanata dai suoi pensieri per tornare a riaffacciarsi solo ogni tanto, pochi secondi per poi svanire. 
“Perché io non riesco a sentire la primavera?”
Durante la notte altri sogni avevano spinto via dai pensieri quella domanda ed in quel momento, mentre l’acqua lavava via lo shampoo dalla sua chioma, l’interrogativo sembrava non avere alcuna importanza. Ma perché, comunque quell’azzurro delle mattonelle davanti a lei l’aveva riportato vivo alla sua mente? Cominciò a massaggiare le ciocche spumose cosparse di balsamo e ricordò: di quell’azzurro erano gli occhi di Marco. Si stupì nel pensarlo con un nome, in fondo Marco era poco più che uno sconosciuto, aveva urtato con lei correndo mentre lei era ferma sul marciapiedi, si era scusato di aver sbagliato strada ed era andato via subito dopo averle rivelato l’unica cosa che di lui sapeva: il nome. Marco: il suo nome, Marco: l’ignoto, Marco: l’azzurro. La luce tiepida sfiorava le pareti della stanza illuminandole di una luce quasi rosata. Perché lei non riusciva a sentire la primavera?

 

Marco afferrò la maniglia, aprì la porta del bagno e si ritrovò davanti al legno scuro del lavandino ad incasso. Gli passò davanti seguendo i riflessi della luce sugli sportelli. Notò per la prima volta che il decoro astratto sui pomelli ricordava la forma di una lettera S.  Si trovò a rimirare il colore del legno del mobile e si stupì di come fosse catturato da quel mogano intenso. Non era forse lo stesso di sempre, lo stesso che vedeva ogni mattina? Si immerse nell’inseguimento di quell’incognita, pur consapevole che come la maggior parte delle incognite che gli venivano in mente, anche quella non avrebbe avuto una risposta.  Era un’abitudine di Marco inseguire le incognite non senza una certa paura per quel che potevano portare, anzi molto spesso era la paura che lo frenava nel lasciarsi andare ad esse, la paura che tutte le cose belle che potevano portare si rompessero, prima o poi. Generalmente era una volta arrivato al Grande Viale che cominciava ad inseguirle, mentre inseguiva le lancette dell’orologio e il treno della metro, quello delle 8 meno un quarto o delle 8 e un quarto a seconda che i giorni fossero pari o dispari e che si richiedesse la sua presenza in ufficio più o meno presto. Quello era lo stesso viale in cui, contrariamente alle aspettative di Marco, c’era la soluzione per quell’incognita: perché era così catturato dal colore di quel mobile. Il giorno prima in quel viale era ferma sul marciapiede la donna che aveva urtato, per poi scusarsi e tornare indietro per prendere la metro ed era la donna che risolveva l’incognita, Silvia, i cui occhi erano identici a quel mogano lì di fronte, ecco perché gli era sembrato così particolare. In un certo senso era come se gli occhi di Silvia fossero davanti a lui, li cercava in quel mogano ricco di riflessi, pur non sapendo cosa lo spingesse a fare quella ricerca. Chiuse gli occhi scacciando quel punto interrogativo e cercò di rimandarlo al viale delle incognite. Intanto la luce di un tiepido aprile continuava ad illuminare il mogano, il colore era bellissimo ma Marco non si fidava della primavera. 
 

 

Due figure si distinguevano nette tra la folla consistente e composita in  viaggio verso la stazione della metro, lungo il Grande Viale. Erano un uomo sui 30 anni dall’andatura spiccatamente più spedita degli altri e una donna di appena 28 ferma sul marciapiede, volta verso la strada. Osservavano le persone che camminavano intorno a loro godere delle belle giornate, della luce calda e dell’ottima temperatura,  entrambi rincorrevano la loro meta, cercavano anche loro conforto in quella primavera che fioriva davanti ai loro occhi. Entrambi tenevano le mani in due tasche, la donna in quelle del solito giubbotto azzurro, l’uomo in quelle dell’elegante giacca blu. Nei loro occhi si riflettevano i colori della strada e quelli del cielo, nei loro cuori il tormento del loro inverno e quella domanda a quel punto per niente stupida: perché non partecipavano alla primavera, perché non ci riuscivano?
 

 

Marco guardò l’orario sull’orologio da polso: le otto e cinque, quasi. Era in perfetto orario per la corsa della metro. 

“Perché sto correndo?”

 Quella mattina aveva deciso di lasciare il cellulare nella cartella, eppure si era ritrovato di nuovo col suo solito passo accelerato. Sull’asfalto grigio del marciapiede stava una lattina di coca cola accartocciata, lì vicino i piedi in corsa di Marco. E non molto lontano di lì ci stava Silvia. Successe tutto in 10 secondi. Marco aveva sollevato il volto per guardare il cielo terso quando sentì qualcosa sotto la suola e tutto il corpo vacillare. In una breve frazione di secondo Silvia scorse Marco, sentì un sussulto, lo vide inciampare nella lattina e il sussulto diventò tremore sotto la sua pelle. Il preciso istante in cui si era lanciata per sorreggerlo tutte le sensazioni dentro di lei erano sfociate nella palpitazione. Lui sentì quella nuova presenza tenerlo in piedi e l’unico azzurro che alla fine vide non era quello dell’atmosfera ma quello perfetto del giubbotto di Silvia. 

- Io, scusami, scusami, dovrei camminare meglio, scusami davvero, è la seconda volta in due giorni, scusami. -

Silvia si era voltata verso di lui, che era nuovamente in piedi e in equilibrio, le guance della donna erano diventate rosse e nei suoi occhi brillava la luce dell’incertezza. 

- Io non mi sarei aspettato di trovarti qui di nuovo, tra l’altro proprio qui in questo momento, grazie, sei stata gentilissima. -

- Scusa se fino ad ora non ho detto una parola, anche per me è stato strano ritrovarti quasi sul punto di inciampare proprio dietro di me. Forse non è tanto un male che io mi fermi in mezzo al viale a guardare in giro. -

- Perché guardi in giro? -

- Non lo so, ne ho voglia. Tu perché corri ogni mattina? Sei in ritardo? - 

- Non so, aspetta. –

Guardò di nuovo l’orologio al polso, non erano ancora le otto e dieci, anzi si poteva dire benissimo che fossero le otto e cinque appena passate.

– No, no, non sono in ritardo, non lo sono mai, e sinceramente perché corro non lo so. -

Marco sentiva i suoi pensieri scivolare alla rinfusa davanti agli occhi mogano di Silvia, avevano ripreso a camminare ma lui aveva rallentato il passo, in fondo non era forse vero che era in perfetto orario? Lei stava camminando, aveva cominciato a seguirlo senza rendersene conto, e non cercava di fuggire da quegli occhi azzurri che la fissavano, nonostante il sangue non fosse ancora defluito del tutto dalle guance. Non sentiva la primavera, esattamente come prima, ma sentiva la voce di Marco che le raccontava perché prendeva la metro. 

- Devo prendere il treno delle otto e un quarto per arrivare in orario al mio ufficio. -

Lui non si fidava della primavera, esattamente come prima, ma si fidava di Silvia che gli spiegava che lei non prendeva la metro, per quanto strano sembrasse, dato che sembrava stesse camminando verso la stazione. 

- Venti metri più avanti della fermata ho un garage in affitto, vado con la mia macchina. -

Con un piccolo sorriso si soffermò ad osservare Marco, il suo vestito semplice, la giacca blu che aderiva ad una corporatura non troppo esile e non troppo robusta, la cravatta di stoffa turchese a piccoli esagoni in azzurro chiaro e la camicia bianca che dava al tutto un tocco di eleganza. Il suo cuore precipitò in un buio che conosceva bene, ormai.

- Complimenti per come sei vestito bene, davvero insolito per un maschio. E io sono in ritardo, di nuovo, e stavolta non c’è rimedio. -

Era tentata di abbassare lo sguardo ma continuava a rivolgerlo verso il viso di quell’uomo che le camminava affianco, spuntato dal nulla dal Grande Viale.

- Silvia a che ora apre il ristorante? -

La risposta le vibrò nelle corde vocali e le rimbombò nel cervello come un brutto tuono.

- Mi aspettano tra venti minuti. –

Sbuffò senza riuscire a contenere il nervosismo. 

– E' impossibile arrivarci con la macchina, neanche con tutta la buona volontà del mondo. - 

Marco rallentò il passo e in un soffio le parlò.

- Con la metro ci vogliono solo 10 minuti e la fermata è anche vicina al locale. -

Si era già fermato quando Silvia scosse la testa per rispondere a una domanda implicita.

- No, Marco, la metro no. -

Anche lei si era fermata, quella risposta era stata un mugugno. Marco riprese a camminare e lei a seguirlo.

- Cosa c’è che non va, Silvia? -

Nei suoi begli occhi mogano si era acceso un bagliore d’angoscia. Marco non sapeva se lei gli avrebbe spiegato, non poteva sperare che Silvia si fidasse di lui, in quanto era poco più che uno sconosciuto. 

- Mi sono successe cose brutte proprio in metro. -

Marco seguì lo sguardo di Silvia diretto alle scale della fermata circondate dalla ringhiera, poi di nuovo puntò gli occhi su di lei.

- Non è nulla di grave,  anzi è una sciocchezza, eppure non riesco a far finta di nulla, nonostante ormai sia passato tanto tempo, più di 10 anni. Le mie compagne di classe non mi avevano presa in simpatia, prendevo la metro per andare a scuola, come loro, ma a loro non piacevo, e mi prendevano in giro, che dico, mi facevano sentire l’ultimo straccio gettato sulla Terra, un giorno mi hanno fatta cadere in mezzo al vagone, hanno riso tutti. Ed è stato l’ultimo della mia vita che sono salita su quella metropolitana. Ogni mattina devo passare di qua, per andare a prendere la macchina, ho ancora scolpita dentro quella sensazione di sentirmi nessuno, solo uno schifo come tanti altri,  e non riesco a dimenticare e so che a 28 anni è da gente immatura. -

Marco ascoltava tutto seguendo la voce di Silvia fatta roca dall’amarezza dei ricordi, lei concluse e lui vide l’angoscia defluire via dagli occhi mogano, come una grande gabbia di nubi di cui il vento non lascia che una piccola nuvoletta. 

- Silvia, non puoi dire che sei immatura per questo, i brutti ricordi ci sono per tutti. E quindi ora che farai? Andrai con la macchina, e arriverai fra tre quarti d’ora? -

Silvia sentì la voce di Marco incrinarsi, tuffò la sua paura negli occhi azzurri che la fissavano preoccupati. 

- Marco, sì, mi distruggeranno, mi diranno che non sono neanche capace di arrivare in orario in un posto, e scusami se ti sto facendo perdere tempo, tu hai il tuo lavoro e sei anche puntuale, non meriti di rovinarti per questa povera cuoca pazza. -

Accelerò il passo, ormai sempre più vicina alle scale della metro. 

- Silvia! -

Un passo dopo l’altro, Silvia cercava di non sentire neanche i rumori intorno a sé.

- Silvia, torna indietro! -

Camminava in corrispondenza dell’entrata della stazione, concentrandosi solo sul rumore degli stivaletti sul marciapiede.

- Silvia, ti prego! -

Ogni passo era più ansimante dell’altro e aveva già oltrepassato il cartello che indicava la fermata. 

- Silvia! -

Ormai Silvia correva a perdifiato, mancavano 17 minuti all’inizio del turno di lavoro, e solo 20 secondi per arrivare all’auto. Tirò fuori dalla borsa le chiavi, aprì la saracinesca, entrò in macchina e avviò il motore. Uscì dal garage, scese dalla macchina, lo richiuse, risalì a bordo. Mancavano 13 minuti. Si morse il labbro perché altre volte era stata capace di fare quelle operazioni anche in due minuti e mezzo. Si impose di non piangere, non poteva piangere, ci sono cose che si possono fare e cose che non si possono fare, e Silvia non poteva piangere. Il ritardo era già un elemento abbastanza degradante per cui non c’era bisogno di aggiungere il trucco sbavato. I 40 minuti del tragitto le sembrarono infiniti. Infine si trovò in piedi davanti al portone dove l’aspettavano, nel vero senso della parola, e per quanto avesse potuto avvisare telefonando al datore di lavoro la situazione era cambiata soltanto da molto molto male a molto male. Il sole splendeva in un cielo con poche nuvole, e non c’era vento. 

“Ma quale primavera, bello schifo!”

Così recitavano i pensieri di Silvia mentre abbassava quella maniglia dalle infinite tonnellate di peso. 

“Perché tutti cantano e gioiscono di questa primavera? Ma dov’è? Ma perché io non la sento?”

In compenso Silvia sentì molto bene le frecciatine infastidite dei colleghi per il ritardo che aveva portato, e un’indignazione per se stessa sempre maggiore, man mano che le lancette ruotavano verso destra nell’orologio verde della cucina. Arrivarono a toccare il 4 e il 12 e Silvia  riuscì a stento a salutare i colleghi, dalla tale voglia che aveva di andare via, di tornare a casa. Uscì dal locale e salì in macchina, allacciò la cintura e mise in moto. Passò davanti all’entrata della stazione della metropolitana che le aveva nominato Marco. 

“Chissà se è in questa che lui scende.”

 Tornarono le lacrime dietro gli occhi di Silvia. Ci sono cose che  non si possono fare e cose che si possono fare, non ci si può presentare col trucco sbavato al lavoro, ma lo si può fare a casa propria. Finalmente Silvia pianse. Era consapevole che era inutile anche solo sperare che il pianto desse sollievo al suo cuore, al contrario più si avvicinava a casa più i singhiozzi le facevano male. Marco si era interessato a lei, si era preoccupato, aveva cercato di portarle un po’di luce, un po’ di quella primavera di cui gioivano tutti, e di cui lei non sentiva niente. Non aveva sentito proprio nulla, era fuggita. E tutto era andato male com’era logico che andasse. Ogni tanto tra un incrocio e un bivio pensava che forse sarebbe andato tutto bene se lei avesse preso la metropolitana, come le aveva consigliato Marco. Probabilmente lui sarebbe sceso alla sua stessa fermata e avrebbe potuto avere una compagnia. E se invece sarebbe sceso prima? Lei si sarebbe trovata sola in mezzo a troppi ricordi orribili.

 “No, no, fuori discussione”

 Scosse la testa fermandosi allo stop mentre il traffico scorreva come scorrevano le sue lacrime sulla felpa e come scorrevano le ombre sulla strada. Arrivata a casa, era certa di aver fatto una grande stupidaggine a non aver preso quel treno. 

 

 

Marco guardava l’interno dello scompartimento comodamente seduto sul piccolo sedile blu.  Accanto a lui c’era un posto vuoto, lo stesso posto che era vuoto anche negli altri due viaggi che aveva fatto quel giorno, uno per andare a lavoro e uno per tornare a casa per la pausa pranzo. Era pronto a scommettere che anche al suo quarto viaggio, quello per ritornare a casa dopo il turno di lavoro del pomeriggio, avrebbe trovato liberi soltanto quei due posti: quello in cui sedeva e quello lì vicino. Il treno si fermò e Marco guardò il Casio argentato al polso. Erano le 4 meno dieci, nessuno che volesse uscire di casa dopo il pranzo e avesse bisogno della metro? Fissò speranzoso le porte scorrevoli dell’ingresso, nessuno entrò, nessuno occupò il posto vuoto accanto a lui, le porte si richiusero, il treno ripartì. Più trascorreva il tempo e si susseguivano le fermate, più quel posto libero diventava nella mente di Marco il posto di Silvia. Era un vuoto assurdo quello che il nome della donna appena conosciuta scatenava in lui, assurdo perché apparentemente privo di spiegazioni, tranne che per il fatto che molto semplicemente avrebbe potuto aiutarla, farle superare le sue paure, farla arrivare in orario, farla stare meglio. E invece Silvia era di nuovo con la testa sott’acqua, nel mare profondo dei suoi pensieri che lui non conosceva bene, ma che da quel che intuiva non dovevano essere belli come il colore mogano intenso dei suoi occhi. Non appena il treno ripartì dopo un’altra fermata decise di impegnarsi a non pensarla più. Non appena sarebbe arrivato alla sua stazione sarebbe entrato regolarmente in ufficio. Ebbe un brivido al pensare alla parola “ufficio” perché dalle soffiate che gli erano arrivate era uno dei favoriti per diventare vicedirettore amministrativo di tutto quel plesso, in tal caso sarebbero diventati “GLI ufficI”. Sentì un formicolio alle gambe. Non aveva paura, aveva sempre avuto una certa passione per le cose da far funzionare e da mettere a posto, però, poteva fidarsi? Poteva lasciarsi andare tranquillo, buttarsi nel suo lavoro, senza dover aver a che fare con le occhiate strane dei colleghi che per competizione erano disposti pure a far notare che i loro Casio erano tutti dorati mentre il suo era l’unico argentato? Poteva stare tranquillo che non ci fosse una trappola di diffidenza e distruzione ad ogni angolo o ad ogni sua parola? Poteva fidarsi? Tra l’altro questi eventi coincidevano con quelle migliori condizioni climatiche che tutti in città chiamavano primavera, ma si poteva fidare di quella primavera, lavorativa, se così la si poteva chiamare? Scendendo dal vagone con la valigetta a mano Marco scuoteva la testa. Era bella, era tanto bella, era quasi perfetta, ma si poteva fidare della primavera?
Alle 20.10 quando rientrò nel vagone della metropolitana il posto di Silvia era di nuovo vuoto, e si convinse che avrebbe dovuto fermarla, prenderla per il braccio e portarla con sé.


 

 

Silvia bevendo l’ultimo sorso d’acqua si alzò dal tavolo. Le bollicine le frizzavano in bocca e un brivido le correva su per la schiena. Si diresse alla finestra mentre i genitori guardavano assorti lo schermo vivido del televisore. Infilò le mani nelle tasche e irrigidì le braccia. Oltre i vetri, giù nella strada, c’erano le auto, le poche auto della sera tardi, che si rincorrevano nell’incrocio, uno tra i molti incroci della città. Il freddo rendeva le sue braccia più rigide e il suo sguardo più incerto, ma nonostante il senso di fastidio di non avere nulla che la coprisse non riusciva a muoversi  per cercare un plaid o un maglione, significava spostare gli occhi da quell’accattivante filastrocca di vita sotto di lei. Solo quando nella sua mente ricominciò a girare la giostra della sua perenne rassegnazione decise di voltarsi, allontanarsi da quella scena e ritirarsi in camera. Finito il corridoio aprì la porta della stanza, entrò, la richiuse, le si appoggiò con le spalle e chiuse gli occhi. Le tornò l’eco di una voce maschile, sentì un fremito, come se, no, nulla, come, sospirò, come niente di nuovo, se non il solito gusto amaro e indefinito che sentiva quando si fermava a soppesare la sua vita. Riaprì gli occhi e si gettò sul letto, senza togliersi i vestiti, senza togliersi il trucco, senza togliersi le scarpe, senza togliersi la voce di Marco dalla testa. Con le dita scarabocchiava sul cuscino ascoltando tutte le sfumature dei suoi pensieri, che poi non erano altro che varie connotazioni di un nulla. Zero, vuoto, nullo, erano le parole che più sentiva adattarsi a lei. Troppe cose sembravano piene quando poi tirando le somme davano comunque zero. Le prime cose che le venivano in mente erano il lavoro e Clarissa, due zeri che messi vicini non formavano un infinito, piuttosto si presentavano come due facce dello stesso zero, perché in fondo due o più zeri sommati, sottratti, divisi, moltiplicati sempre zero danno. Rise, perché ancora ricordava bene la matematica, ah la matematica! Quante volte l’avevano presa in giro perché aveva i voti più alti in matematica? E in scienze? E perché sapeva cucinare bene, molto bene? Essere tra i migliori ai fornelli era stata una gioia di breve durata, perché erano riusciti a portargliela via. Avevano fatto in modo che ogni suo successo fosse un’angoscia e non un motivo di gioia, ed era meglio mantenersi sulla media: meno occhiatacce, meno frecciatine, quasi l’illusione di non essere Silvia Tomelli. Poi era finita la scuola, era stata contenta di essersi liberata di tutti i compagni invidiosi e antipatici, contava nel lavoro per prendere la sua rivincita ed era riuscita a trovare un posto in un agriturismo fuori città, dove per tanto tempo aveva lavorato e sperato, fatto la gavetta e sognato un futuro migliore, per poi scoprire che la maggior parte di quelli che andavano avanti in quel posto aveva una buona raccomandazione. Aveva ricominciato a piangere ogni sera, non riusciva più a guardare il gestore del locale negli occhi e tutto in quel posto le ripugnava. Da un inutile stipendio senza promesse di futuro si era ritrovata a casa con i suoi, tanto era diventato il distacco e tanta la delusione con cui lavorava che l’avevano licenziata. Nei mesi successivi c’era stato un bagliore di luce nella sua volontà, perché una nuova opportunità non doveva essere necessariamente negativa, anzi, ebbe la certezza che nel nuovo locale in cui trovò lavoro il gestore era una persona onestissima e i colleghi semplici e schietti così per quel che erano. Lì si cucinava. Era bastato poco tempo però per rendersi conto che gli anni passati l’avevano schiaffeggiata e consumata, che aveva dimenticato l’essenza che contava veramente in quel momento,  che tutte quelle esperienze l’avevano lasciata indebolita. Era insicura e non riusciva a raggiungere gli obiettivi che si poneva, guardava gli altri realizzarsi nei loro propositi e lei che debole non riusciva a brillare. Iniziò a piangere, affondando la testa nel cuscino. Nel locale in cui lavorava in quel momento non c’era bisogno di raccomandazioni, bastava impegnarsi e  dare il meglio di sé per ottenere quello che lei voleva, bisognava sudare, com’era giusto che fosse, ma lei non sentiva la forza necessaria, anzi, era passato quasi un anno e lei rimaneva statica nella sua condizione di cuoca appena arrivata, fanalino di coda. Più passava il tempo più era forte dentro di lei il timore che non avesse nessuna dote, nessuna attitudine, nessun talento. Eppure Clarissa le diceva sempre il contrario, e Silvia poteva giurare di averla vista sincera. Ah, Clarissa! Silvia tentò di asciugarsi gli occhi e alzò la testa dal cuscino. La questione di Clarissa non faceva che aggiungere legna al falò, quante volte le avevano detto che un’amica non fa soffrire, al contrario tira su? Eppure poteva dire che Clarissa non era un’amica? Clarissa era la pecora nera nel ristorante in cui lavorava prima, una tra le poche persone ad essere onesta, trasparente, umana, e lì dentro la sua unica amica. L’unica con cui si confidava del tutto, l’unica che aveva passato momenti splendidi con lei, l’unica che riusciva a comprenderla quando le veniva l’ispirazione per una ricetta, perché pure lei aveva lo stesso sorriso ebete negli occhi. Erano i più buoni i piatti che avevano cucinato insieme, erano i più sinceri i discorsi che avevano condiviso. Era bella la loro amicizia,  era bella quando lei era l’unica ad essere arrabbiata quanto Silvia per la questione del gestore e delle raccomandazioni, perché anche Clarissa non aveva nessuno a cui appoggiarsi, era una bella amicizia anche quando  avevano saputo che per un aumento di mansioni e di stipendio, esaurita la lista dei raccomandati, c’era un solo posto libero e con tutte le probabilità avrebbero scelto una di loro due. Poi era stata scelta Clarissa. La sua amica bionda l’aveva abbracciata, le aveva promesso che non si sarebbero perse, le aveva detto che lei aveva davvero un talento e su questo non c’era ombra di dubbio. Aveva cercato di farla stare un po’ meglio prima che la licenziassero, era stata contenta quando  Silvia le aveva detto del nuovo locale, e tra alti e bassi poi veramente non si erano perse e continuavano a sentirsi, ogni tanto. Silvia ricominciò a piangere, non era la stessa cosa, non c’entrava nulla il loro passato affiatato con quel presente spoglio. Se lei non prendeva in mano il telefono non poteva stare sicura che Clarissa l’avrebbe fatto al posto suo, se lei fosse sparita, Clarissa sarebbe venuta a cercarla? Con le rare rimpatriate e i lunghi silenzi tra di loro era impossibile rispondere a quella domanda. Aprì la conversazione con lei dal cellulare, aveva l’istinto di scriverle qualcosa, ma il dito rimaneva in aria bloccato, non ci riusciva, Clarissa le sembrava lontanissima. Richiuse l’applicazione e posò il telefono sul comodino. Il suo sguardo si posò sulla foto incorniciata e appesa alla testiera del letto: c’erano lei e l’amica davanti a due bellissime torte, al ricevimento dei 50 anni di sua zia Matilde. Le torte erano piaciute tantissimo a tutti e il cognato della zia, chef di un ristorante in un’altra regione, venuto per l’occasione, aveva proposto di scattare una foto alle due cuoche “sensazionali” con le loro meraviglie, così le aveva chiamate, prima di tagliare le torte. Nella foto che adesso stava lì sul suo letto, e che aveva dato pure a Clarissa, (chissà lei dove la teneva?) stavano in primo piano le due torte, dietro l’amica che l’abbracciava e poi lei con un sorriso aperto e limpido come mai le riusciva. Si fermò ad ammirare l’azzurro dolce e terso dei ciuffetti di panna, poi ricacciò la testa sul cuscino. Quella torta, quel sorriso, quel bellissimo celeste appartenevano a una vita lontana, che aveva sfiorato con qualche dito pochissime volte e che scompariva lasciandola sola negli infiniti giorni della vita, con infiniti problemi, infinite disillusioni che annullavano qualsiasi magia poteva esserci in quella o in mille altre torte buonissime. Era ormai vicina al sonno quando le venne in  mente che quel colore era vicinissimo agli occhi di Marco. Tra sbadigli e occhi chiusi non distingueva più i pensieri l’uno dall’altro, anche perché a cosa poteva servire ricordare gli occhi di un uomo che probabilmente apparteneva a un altro mondo, a un’altra condizione di vita? Solo dei saluti, delle chiacchiere in mezzo a troppa gente, ne facevano una persona della propria vita? Ne facevano una bella persona, ma non più di questo. Alla fine per quanto belli possano essere gli altri ognuno si porta con sé quello che si costruisce, e Silvia era profondamente convinta di saper solo distruggere. Come darsi torto? Non c’era nessuna soddisfazione veramente influente nel quotidiano che la distogliesse da una così pesante autocritica, e soprattutto nella sua vita non c’era un nessun Marco, che incontrarlo al Grande Viale potesse essere bello o meno. Si addormentò mentre spostava la mente verso altri angoli del buio, non aveva  il diritto di pensare Marco, non aveva il diritto di pensare persone, idee, aspettative di vita che in fondo non erano per lei.
 

 

Marco era sdraiato a pancia in giù sul letto, ticchettava velocemente sui tasti neri del computer. Stava con i calzini, i pantaloni neri di una tuta e una maglietta scolorita a maniche corte. Il suo respiro leggero tagliava l’aria immobile di una serata in solitudine, ben diversa dal derby in salotto che seguivano i genitori e Alessandro. La porta si aprì di scatto.

-Che stai facendo? -

Marco non degnò il fratello neanche di un’occhiata laconica e continuò a battere sulla tastiera.

-Sordo lunatico che stai facendo? -

Marco chiuse il documento Excel per cercare una cartella sul desktop del computer.
 
- Sto digerendo il risotto che hai cucinato. -

Alessandro si avvicinò al letto e lo guardò torvo.

- Marco, rispondimi anziché sparare cavolate! -

- Ma ti ho risposto e ti ho pure detto la verità. -

- Grazie, non lo avrei mai immaginato se non me l’avessi detto tu. Voglio sapere cosa fai con le mie cose. -

- Ti ho già detto cosa sto facendo con la tua cena. - 

- Non mi interessa cosa ci fai con i miei piatti. -

- Va bene, se non ti interessa cosa ci faccio coi tuoi piatti, la prossima volta che cucini tu io vado a mangiare fuori. -

- Marco Carini che stai combinando col mio computer? -

Lui lo guardò riluttante. 

- Cose di lavoro. -

Più che una risposta suonava come un mugugno. Alessandro si sporse per guardare lo schermo. 

- Fratellone, perché non ci racconti mai niente? -

Marco si voltò verso quel tono di voce improvvisamente dispiaciuto. 

- Che ti devo raccontare? -

Alessandro si sedette vicino a lui. 

-Marco, non so se lo hai notato ma da due giorni stai intasando il mio computer di file riguardanti l’organizzazione di tutti quegli uffici del vostro palazzo delle fate. Perché mai? -

Marco sbuffò.

- Non mi va di dirtelo, non è neanche una cosa ufficiale. -

- Che cosa precisamente non è ufficiale, caro mio? -

- Te lo dico se mi dici dove hai infilato tutti i miei file. -

Alessandro non apriva la bocca, guardava il fratello con sguardo serio e imperturbabile come un ritratto di quelli appesi al muro, che non potrebbero mai parlare per quanto realistici siano. L’unica scintilla nel suo viso stava negli occhi ed era la curiosità di sapere cosa stavano rimestando nella pentola lì a lavoro dal fratello. Marco capì che non gliel’avrebbe mai detto, si voltò indietro verso il computer e digitò qualcosa nella ricerca dei file per titolo. Il primo dei documenti che cercava stava in una cartella rinominata “babbuini rampicanti”. 

- Bel nome fratello, ti viene una fantasia incredibile quando rinomini le cartelle degli altri. -

- Anche quando mi occupo delle mie serre, fidati. -

Intanto Marco scriveva altre parole nella tabella che stava nel documento. 

- Non sarà ufficiale, ma tu sei già prontissimo. E ora hai anche trovato i tuoi file, dimmelo. -

Marco chiuse il documento e cambiò posizione sdraiandosi accanto ad Alessandro.

- Niente, ho fatto solo una prova, potrei diventare vicedirettore del plesso. -

- Ah, però! -

Negli occhi scuri di Alessandro balenava un’ammirazione sincera, Marco lo guardò con uno sguardo torbido, increspato dalla paura.

-Sarei vicedirettore come te, io di una serie di uffici amministrativi  e tu di un’azienda di coltivazioni. Ma non posso paragonarmi a te. -

La voce calò in un grave sospiro, mentre quella giovane del fratello si proiettava verso uno stato di positività ben più in alto dei pensieri calanti di Marco. 

-E perché no? Hai esattamente le mie stesse doti, se non di più. Io so mettere in riga le piante, tu metti in riga le persone. Tu non hai idea di come riesci a dirigere le persone, a farle stare bene sotto il tuo controllo. E credo che le persone siano appena un tantino più complesse delle piante. -

Marco lo guardò diffidente e Alessandro riprese a parlare.

- Cosa c’è? Cosa c’è che non va? E’ quasi ovvio che diventerai vicedirettore. Ti stai divertendo stasera con questi grafici, vero? -

Il fratello non rispose, si limitò solo a guardarlo con un sorriso accennato, la risposta era assolutamente affermativa, non c’erano dubbi. E non c’erano ombre negli occhi limpidi di Alessandro.

- E allora? -

- Ale, sarebbero già pronti a farmene di tutti i colori per invidia di quel posto. Non sai quanti complimenti sono falsi. -

- E quindi? -

A Marco si arrossarono le guance.

- Come quindi? Critiche dalla mattina alla sera, occhiatacce, e più metterò impegno in quello che farò più qualcun altro metterà invidia in quello che farà. Non posso neanche fare ciò che mi piace, non l’ho mai potuto fare, è come se dovessi chiedere il permesso. E mi direbbero tutti di no. -

- Alessandro! Alessandro! Vieni qui! -

La voce della madre dal salotto interruppe i loro discorsi, il giovane si alzò dal letto e con un cenno di scusa si allontanò in corridoio. Marco si lasciò andare ad un sospiro, spense il computer, lo mise sulla scrivania, andò a lavarsi i denti e ritornò in camera. Il sonno, l’amarezza provata in quel giorno e la stanchezza dovuta a tutte quelle cose che gli stavano capitando in quella primavera di cui non si fidava lo accompagnarono fin sotto le coperte e fin dentro lo stato di incoscienza.

- Marco, eccomi. -

Alessandro si arrestò sulla porta, lo vide addormentato e non disse più niente.

 

 

Quando Silvia si svegliò e vide quel raggio di sole tiepido alla finestra sbadigliò voltando le spalle a quella primavera senza nulla di rigoglioso, come già succedeva da un paio di giorni. Nonostante lei  non lo sentisse il sole splendeva davvero, e se ne stava ancora basso, alle sette appena scoccate del mattino. Nonostante Silvia fosse rimasta nel suo inverno c’era davvero una primavera che invitava a dimenticare le nevicate e a ricominciare in un nuovo sole. Era presto e mancava ancora abbastanza tempo all’orario di inizio del suo turno al locale, tutto il tempo che serviva a Silvia almeno per arrivare in orario. Ma il sonno la riportò di nuovo nell’incoscienza prima ancora che lei stessa potesse rendersi conto della calma e della bellezza di quegli attimi e della possibilità che aveva, alzandosi veramente presto, di migliorare la sua situazione in termini di serenità, puntualità e successo al lavoro.
 
- Silvia! Silvia! Silvia, ti prego. - 

Silvia balzò dal letto, ancora con le esortazioni di Marco nelle orecchie. Si alzò turbata e stordita. Ricordava di averlo pensato la sera prima mentre scivolava nel sonno e si sentì grondante di sudore e di un senso di colpa opprimente, come se quel sogno avesse qualcosa di sbagliato. E in effetti quel sogno preoccupava considerevolmente la donna. Per lei era sbagliato semplicemente pensare a quell’uomo sconosciuto, lasciare che lo inseguissero pure i sogni era il più esagerato dei castelli di carta che Silvia pensava di aver costruito nella sua vita, non poteva sognare una vita da sogno che non aveva e tantomeno una persona da sogno che era lontanissima dalla sua vita. Silvia era convinta ormai che lei non sentiva la primavera semplicemente perché l’avevano inventata ma non per lei, non era per lei, come non erano per lei tante cose belle, eppure a che serviva che fossero così belle se non erano per lei? Pensarle, sognarle era come camminare volontariamente con delle scarpe di gran lunga più grandi del piede. Non valeva la pena neanche di contemplare la possibilità di arrivare in anticipo al locale, il che forse poteva rendere più vicini alla realtà i suoi sogni professionali. L’orologio arancione della cucina schiaffeggiava ogni spirito ottimista ancora sopravvissuto. Non ce la poteva fare. Nei suoi sogni per colazione si cucinava qualcosa di buono, frutto di qualche esperimento culinario, in quella mattina di finta primavera beveva quel succo d’arancia cacciandoselo in gola tutto d’un fiato, come fosse veleno. 

 

 

- Marco, sei sveglio? Marco? È già mattina! Dai che il vicedirettore non può arrivare in ritardo al lavoro! -

- Piantala, Alessandro – fu la risposta assonnata che giunse dalle coperte.

- Eh beh è il mio mestiere piantare le cose. E tu piuttosto vai a fare il tuo. -

Al silenzio seguì un’altra provocazione di Alessandro, che disse con una voce artefatta, acuta e melliflua come quella di una cameriera svampita.

- Vuoi portata la colazione? -

- No. Voglio che sparisci. -

Si alzò di botto dal letto e già in tre secondi non era più nella stanza.

 

- Neanche un pettine, come gli esseri umani -

Così commentava, acida e scorbutica, la madre di Silvia mentre lei  sistemava i capelli davanti allo specchio dell’ingresso ravvivandoli con le mani e districando qualche nodo qua e là. 

Silvia muoveva freneticamente le dita, sfidava il tempo, che non le era assolutamente sufficiente per quel che doveva fare, cercava di non pensarci, andava avanti incosciente perché se solo avesse provato a pensare le sarebbe crollato il mondo addosso. Mantenendo questa sorta di equilibrio forzato –come gli esseri umani - si allontanò dal mobile intarsiato e andò a cercare la borsa a tracolla tra i cuscini del divano. La madre la guardò infilarla al collo, prendere il cellulare dal tavolo della cucina e indossare il giubbotto mentre apriva la porta di casa e chiamava l’ascensore. Silvia si lasciò sfuggire solo un mugolio, pensando che era troppo tardi per tornare in camera a prendere gli orecchini che sembravano fatti apposta per la maglietta blu. 

- Sei una fallita! –

Le ultime parole della madre prima che lei uscisse di casa le sentirono anche i vicini del pianerottolo probabilmente. “Non importa” cercò di ripetersi Silvia, mentre l’ascensore si riapriva e lei andava verso il portone. Silvia ormai non aveva più neanche la forza di autocommiserarsi e le uniche parole che le riecheggiavano nella mente erano le tre amare della madre. 

"Sei una fallita!"

"Sono una fallita" fu il sottofondo dolciastro che l’accompagnò fuori dal condominio e lungo il marciapiede della traversa in cui abitava. Poi Silvia mise piede nel Grande Viale. 


Marco ingoiò l’ultimo boccone, si alzò dal tavolo e cominciò a sparecchiare velocemente. Alessandro rientrò dal balcone e chiuse la telefonata. 

-Ciao Gisella, ti amo. -

Posò il cellulare sul piano della cucina.

- Marco è da ieri sera che cerco di parlarti. -

- Ale è tardi, non ci arrivo a lavoro. -

Alessandro lo seguì per il corridoio. Mentre Marco schiacciava il tubo del dentifricio lui continuò a parlare sulla soglia del bagno. 

- E’ per la questione del vicedirettore. -

- Hai 3 minuti e mezzo. Poi me ne vado. – lo interruppe lui, prima di cominciare a spazzolare i denti.

- Marco ascolta, tu stai per diventare vicedirettore. Non dovresti essere così nervoso e nevrotico. È una cosa bella, lavorerai sfruttando le tue qualità, ti divertirai. Gli altri saranno invidiosi? Fregatene, devi fregartene e andare dritto per la tua strada. Sssshhh, come se non esistessero. Tu fai il tuo lavoro. -

L’unica risposta di Marco dopo aver sciacquato la bocca fu un grazie piuttosto frettoloso. Infilò la giacca abbinata al vestito e alla camicia, prese il cellulare, la cartella e aprì la porta di casa. 

-Marco dovresti essere felice, hai tutto ciò che ti serve. - 

 
Una volta chiusa la porta dietro di sé la frase del fratello non smise di riecheggiare nelle pareti dell’ascensore, nel grande atrio del condominio e nella strada stretta che Marco percorse in fretta, come al solito.“Dovrei essere felice, ho tutto ciò che mi serve”. Ancora scettico girò l’angolo. Poi Marco mise piede nel Grande Viale.
  
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