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Autore: Prontaanarrare    04/06/2014    0 recensioni
Finalmente è passata la brutta stagione, finite le epidemie d'influenza, finiti i temporali, finite le gelate. Il sole si alza forte all'orizzonte, il cielo è sereno e la temperatura, non c'è dubbio, è ormai primaverile. Nel Corso principale della città c'è una stazione della metropolitana e ogni mattina tante persone pronte a prendere il loro treno godendosi la primavera. In mezzo alla folla ci sono una donna, ferma sul marciapiede, con la mente chissà dove, Silvia, e un uomo sempre di corsa, con lo sguardo altrove, Marco; gli unici nel Grande Viale, sempre così trafficato, a sembrare addirittura appartenenti ad un altro mondo, dove è ancora inverno, dove la paura sembra avere ancora la meglio e dove il sole sembra non splendere. Ma cosa succede se un giorno ci si scontra faccia a faccia col proprio destino? Ci si scotta o ci si abbronza toccando il sole all'improvviso?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 2

ONDATA DI CALORE
 
 

 
Marco avanzava verso la stazione.

“Dovrei essere felice, ho tutto ciò che mi serve.”

In quel momento ciò che gli serviva, il treno delle otto e un quarto, era ancora distante. Lui procedeva col suo solito passo affrettato e sentiva sul viso l’aria fresca della mattina del Grande Viale: raggi di sole, chiacchiere, telefoni che squillano, passi veloci. Si chiedeva ancora se la frase che gli aveva detto il fratello fosse vera oppure no. Intanto gli avevano detto che quel giorno poteva presentarsi a lavoro alle otto e mezza e l’ufficio lo avrebbe aperto Liguori al posto suo, nonostante che in teoria lui sarebbe dovuto entrare mezz’ora prima. I datori di lavoro stavano rimescolando le carte. Che motivo c’era di farlo entrare mezz’ora dopo? Scosse la testa perché non voleva pensare alle voci che correvano riguardo a ciò che stavano combinando per lui e lo turbava parecchio che fosse proprio Liguori a occuparsi del suo ufficio, per fortuna solo per poco tempo. Tornò prepotente il pensiero di prima.

“Ho tutto quello che mi serve?”

Marco continuava a camminare, la voce squillante del fratello nella sua testa e il vocio animato della strada lo accompagnavano lungo il marciapiede. Allungò il passo superando un signore che sbadigliava. Ogni giorno lo scenario del viale diventava un quadro lontano, un insieme di pochi colori, uno schermo dove Marco proiettava i suoi pensieri e le sue incognite senza risposta, quel tratto di strada diventava sempre l’occasione di farsene delle nuove e di lasciarsi alle spalle tutte le vecchie domande, per cui diventava inutile avere delle risposte. Le sue incognite ormai appassite poi scivolavano via, perdendosi nella folla, nella confusione, nella sfilata di colori sempre uguali, in mezzo a tutte quelle stoffe, a quei tessuti che si muovevano addosso agli uomini e alle donne che li portavano, che altro non erano che un monotono girotondo di luce debole, o così credeva Marco. Si sbagliava e gli ci volle solo un secondo per accorgersene, ancora meno tempo per capire tutto. In mezzo al girotondo di luce debole due gambe esili si muovevano in un paio di leggings di un azzurro intenso tendente al blu e camminavano seguendo il ritmo di due ballerine dal colore più scuro, un po’ più su rispetto a loro stava un giubbotto chiaro che comunque verteva sulla stessa colorazione del resto. Quella macchia di colore spezzava lo schermo opaco della strada, dei capelli mossi color del mogano spezzavano l’amalgama di blu e azzurro, Silvia Tomelli con quella camminata leggera gli spezzava il respiro. Accelerò il passo e oltrepassò una signoria bionda che urlava al telefono con un marcato accento inglese, forse facendolo le diede una gomitata.

- Cretino, guarda dove cammini! –

La sua voce stridula sembrava un’eco lontana e Silvia una figura vicina. Marco sapeva che ogni figura non stava nel mondo a caso ma aveva uno scopo: decorare un libro, dare un rapido avviso, esprimere un sentimento nascosto, dunque lui cosa doveva farne di quella figura azzurra che si muoveva davanti ai suoi occhi? Il cuore gli sembrò precipitare nel petto con un tonfo sordo, Marco si lanciò in avanti, verso di lei, e allungò quel braccio che tremava.

-Silvia!        

 
  ...

 
Silvia camminava lentamente mentre le ombre oscillavano sull’asfalto, andava verso la macchina, andava verso il garage, andava verso un’altra sconfitta? Non stava andando al lavoro, non stava andando a cucinare? Ogni tanto si ricordava che quelle mattine grigie in teoria dovevano essere le giornate dei suoi sogni realizzati e ingoiava tutti i sospiri, li uccideva guardando qualche tailleur più carino che camminava addosso alla sua proprietaria lì nel viale. Inutile, era troppo stanca anche del viale, non guardava l’orologio, non affrettava il passo.

“Sono una fallita? E cos’altro se no?”

Non avrebbe mai immaginato che le esperienze e le situazioni della vita potessero allontanarla così tanto da ciò che sembrava essere stato così vicino a lei in altri momenti, da quella passione pulsante che  dalle sue mani cadeva in una padella piena d’olio e si colorava d’oro oppure si adagiava su una teglia stratificata di pasta, sugo, besciamella e speranze. Si ritrovava puntualmente a mettere su qualche ricetta di ripiego e nelle occasioni in cui poteva dare di più l’unica cosa che tirava fuori erano le lacrime, come se volesse insaporire una mente affranta, stanca, senza sale. Si ritrovava a non essere mai serena, mai tranquilla, mai in ordine, mai al giusto punto di cottura.  Sentì una mano afferrarle il fianco destro. Trasalì. Si voltò indietro. Era Marco Carini, la cingeva col braccio. Il buio dentro il suo cuore si espanse in ogni anfratto dell’anima e le si inumidirono gli occhi.

- Marco! –

L’esitazione nella sua voce si mischiava ad un senso di stupore, e quest’ultimo abbracciava quella nota di dolcezza e calore che aveva sentito risuonare nella testa mentre pronunciava quel nome. Non poteva fare a meno di fissarlo sconvolta, mentre i suoi occhi brillavano. Era inutile tentare di scacciarlo dalla mente o di convincersi che non fosse una persona della sua vita, almeno era una persona del suo tragitto mattutino, e quella mattina era vestito con un abito nero, la camicia bianca e una cravatta verde.

- Buongiorno Silvia. –

Era venuto accanto a lei e non aveva l’iPhone tra le mani. Camminava al suo fianco e ancora non le era inciampato addosso, forse non l’avrebbe fatto quella mattina, dopo due giorni di seguito che era successo. Si sporse a salutarlo baciandolo sulle guance.

-Buongiorno Marco. –

Marco odorava di doccia appena fatta, di dopobarba, di profumo maschile.

- Poi com’è andata ieri? –

Silvia gli scorse nella voce una nota di dispiacere e rimase interdetta.

- Eh sì, diciamo bene. –

In un attimo si trovò addosso un paio di  fulminanti occhi azzurri.

-Sicura? -

Non le andava di confermare e non se la sentiva di raccontare cos’era successo il giorno prima. Davanti all’attesa di Marco nei confronti della sua risposta lasciò vagare lo sguardo tra i ghirigori della sua cravatta, quanto era diverso da lei! Allungò un braccio cingendogli il fianco, la giacca era fatta di una stoffa morbida. Marco la guardava ridendo piano, aspettando in silenzio. Lei si era avvicinata a lui e con il corpo lo sfiorava. Lui passò con una rapida occhiata dal tripudio di blu che l’abbigliamento di Silvia a quei suoi occhi marroni persi nel vuoto e increspati dell’angoscia, quella che lo preoccupava e al tempo stesso lo interessava, incuriosendolo più dello strano modo che la donna aveva di vestirsi, più della sua strana storia per quanto poco lui ne sapesse, più del suo strano modo di atteggiarsi, più di tutto e più di niente erano quelle iridi mogano, luminose e velate.

- Cambiamo argomento, Silvia, oggi come andrà? –

- Cambiamo argomento, Marco, oggi come andrà a te? –

Marco strinse appena gli occhi e rispose con un sospiro.

- Mah, vedi, io sono abbastanza positivo –

In una pausa respirò e Silvia gli fece eco.

- Bene, allora è tutto ok –

Marco si morse un labbro.

- Di solito sono abbastanza positivo ma oggi… -

La voce si spense in un respiro sospeso, che il tono curioso  di Silvia rincorse, quasi a volerlo completare.

- Oggi? –

- Oggi, beh, diciamo che è un momento particolare per tutta l’azienda, in questo periodo molte cariche saranno riassegnate, alcune lo sono state già. –
- E tu pensi di essere nel giro dei riassegnati, è così? –

A Marco sembrò di leggere tutti i suoi interrogativi nelle iridi scure di Silvia, lei aveva capito tutto.

-Sì hai indovinato, a dire il vero… -

Silvia lo guardò spostare gli occhi verso il sole lontano.

-Marco, a dire il vero? –

Le diede una strana sensazione chiamarlo con il suo nome, la sera prima si era rimproverata che lui non faceva parte della sua vita e invece in quel momento camminavano addirittura cingendosi i fianchi. Le crollò il cuore in petto e iniziò a respirare sentendosi la paura nei polmoni, spostò la mano strisciandola sulla giacca di Marco, ma non riuscì a toglierla da lì e tornò a concentrarsi sul suono della sua voce.

-A dire il vero mi fanno stare sovrappensiero alcune voci che girano tra i miei colleghi. –

- Ah i colleghi, bella razza! –

Anche Marco spostò la mano sul suo fianco e le rivolse un'altra domanda, con quel tono di voce a metà tra l’incuriosito e il preoccupato.

- Perché? Non hai dei bei colleghi? –

Silvia corrugò la fronte. Non se la sentiva di prendersela con i suoi colleghi, in fondo rimaneva sempre convinta che era lei ad avere qualche problema.

-No, adesso no, non mi posso lamentare. Nel vecchio locale in cui lavoravo però era proprio un brutto ambiente. Il tuo lo è pure? –

Marco riprese a parlare e Silvia ad ascoltarlo, circoscrivendo il mondo a quella voce asciutta e baritonale con quel timbro tranquillo e tiepido, come se non esistesse altro, come se la tranquillità esistesse per davvero. Nella voce di Marco c’era l’illusione di un mondo calmo, in ordine, armonico. Prima di precipitarsi di nuovo nel caos della sua vita quotidiana Silvia decise di godersi l’illusione.

“Tanto, cosa può cambiare?”

Non sapeva che poteva cambiare tutto.

- Il mio un brutto ambiente? Dipende. Quando tutti i colleghi sono preda dell’invidia, è terribile, è come camminare su un campo minato, poi quando tutti  sono più tranquilli è come se quel campo minato non fosse mai esistito. Ti lascio immaginare come sono adesso che è periodo di promozioni. –

Gli occhi di Silvia si rabbuiarono, anche nel locale in cui lavorava prima in periodo di promozioni l’invidia si respirava nell’aria, ma forse quell’invidia era più per il discorso delle raccomandazioni, che tutti sapevano e di cui nessuno parlava, almeno lì da Marco vigeva l’onestà e bisognava temere il merito degli altri, non le loro conoscenze tra i pezzi grossi, ma non le andava di raccontargli queste cose.

– Mi pare di capire che tu sei il bersaglio di questi invidiosi. –

 – Uno dei bersagli, sì. –

Silvia spostò lo sguardo altrove.

– Devi essere uno di quelli bravi –

Tornò a guardare Marco e gli vide una strana luce negli occhi.

– Così dicono. Ma tu, perché lo dici, Silvia? –

Lei prese fiato e scosse la testa.

– Esattamente non lo so, per il tuo modo di presentarti, credo, sei sempre in orario, ben organizzato, tutto in ordine, sei impeccabile. Lavori in un ufficio amministrativo se ho capito bene e penso che se non ci sia un tipo così alla sua direzione succeda lo sbaraglio. –

Silvia si fermò, stupita dalle sue stesse parole, di come in realtà aveva risposto così dettagliatamente alla domanda, in realtà aveva cercato di indovinare un uomo partendo da null’altro che sensazioni.

– Marco è così? –

– Sì, è proprio così, i nostri uffici si occupano di modeste attività imprenditoriali, seguono piccole aziende e io sinceramente ho sempre avuto a cuore ciò che mi è stato affidato, non so perché, ogni tanto penso che se qualcuno non si prende cura del presente non ci può essere futuro, mi piace l’idea di portare lo stipendio a decine di famiglie facendo vivere la ditta per cui lavorano i loro parenti ma tutto questo essere impeccabile… -

– Non vorrai dirmi che non è vero. -        
   
– No no è verissimo, ma in gran parte è naturale, è la mia testa che è cosi, e poi nel lavoro in particolar modo ci tengo, magari fuori è possibile vedermi in versione casinista. –

Silvia rise e gli fece il verso.

– “Nel lavoro in particolar modo” –

– mai, assolutamente! – sentenziò Marco e poi scoppiò a ridere anche lui.

– E tu? Perché stiamo parlando solo di me? –

Silvia si sentì tremare le gambe. Non la faceva sentire a suo agio guardarsi e dare un giudizio di sé agli altri, anche soltanto descriversi le era complicato, persino spiegare cosa stava facendo, dire soltanto che stava andando a lavoro non era facile e diretto, contando di dover giustificare il mezzo di trasporto meno conveniente che prendeva, tutte le sue paure del passato, il suo marcato ritardo, il vuoto che spesso sentiva dentro e la malinconia che ogni tanto la teneva a braccetto. Non poteva, non voleva parlare di sé, era troppo stancante.

– Dai facciamo lo stesso gioco al contrario, come io ho tirato a indovinare per te, fallo anche tu per me, più che indovinare io ho provato a fare delle deduzioni, ma, va bene, credo che tu abbia afferrato il concetto. –

Marco piegò le labbra in una smorfia concentrata.

– Dunque, sei una cuoca e questo me lo hai detto ieri, hai dei brutti ricordi legati al passato, e pure questo me l’hai detto ieri, e a quanto sembra non ti sentivi accettata o compresa. Più in generale, forse non ti senti così neanche adesso. –

– Ci credo che t’invidiano, sei bravissimo – lo fissò lei stupita non senza l’ombra di un sorriso sul volto.

– Ho indovinato? –

– No, hai proprio centrato la questione. Sono io che non centro nessun bersaglio. –

– Secondo me invece non è così. –

Silvia si tuffò nell’azzurro dello sguardo di Marco che la scrutava.

–Cosa? –

– Ne ho viste di persone che non hanno proprio l’attitudine, la natura per centrare gli obiettivi, persone annoiate, stanche e apatiche, sono i dipendenti che non riesco a sopportare. Tu Silvia potresti essere tutto tranne che apatica. –

Silvia non allontanò lo sguardo dal suo mentre sentiva i suoi occhi scolorire.

– Appunto, hai detto bene, potrei essere ma non sono… -

– “Adesso” non significa nulla, se adesso non sei, anche soltanto tra un minuto potresti essere! –

Lei non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

– Cos’è? Uno scioglilingua?! -

– Forse, ma diciamo che principalmente è una bella verità. –

Marco non attese una risposta, strinse la mano sul suo fianco e le sorrise. Nel viso sereno di Silvia si rispecchiava la calma immobile degli occhi chiari di Marco, la luce di quel volto intenso e l’azzurro di quelle iridi puntate su di lei. L’aria leggera e confortevole del colore del cielo sfumò in un senso d’angoscia quando scorse il cartello rosso della fermata che indicava le scale. Marco doveva prendere la metropolitana, andare via, per la sua strada. Gettò lo sguardo oltre le scale della stazione, dritto al suo garage, alla saracinesca che si doveva alzare e poi riabbassare, a quel luogo dove stava la macchina che si doveva mettere in moto e poi far partire, verso un locale lontanissimo, che lei poteva raggiungere soltanto alla fine di una lunga, trafficata, lunga strada. Si staccò da Marco e si allontanò di due passi.

– Silvia? –

Si stava verificando la stessa situazione del giorno prima, doveva soltanto trattenere il respiro e camminare, e poi avrebbe trovato il garage, la macchina, la strada, il ristorante. Non poteva fare a meno di pensare anche alle chiavi da recuperare in fondo alla borsa, al traffico, al ritardo e si sentì un piccolo ago davanti a un intricato gomitolo, talmente attorcigliato e confuso da non distinguere i colori dei fili. Le si bagnarono gli occhi, strinse i denti, fece per muovere un altro passo.

– Silvia, dai, almeno fatti salutare. –

Marco la guardava mentre lei di nuovo si allontanava, camminando in fretta e ansimando, come il giorno prima. Subito lui ripensò alle sensazioni che proprio il giorno prima aveva provato, così strane, così alienanti, il pensiero di Silvia che lo rincorreva nei viaggi in metro e che dopo quella chiacchierata poteva diventare ancora più crudele ogni volta che gli sarebbe tornato in mente.

 “ Dovresti avere tutto quello che ti serve.”

Più Silvia si allontanava verso la sua strada, più lui si mordeva  il labbro, non era vero che aveva tutto ciò che gli serviva, prima di tutto perché non lo sapeva, non sapeva esattamente cosa gli servisse e soprattutto perché l’unica cosa che sapeva, che sentiva dentro dio sé come inevitabile era che Silvia c’entrava qualcosa.

– Silvia, ti prego, fatti salutare! –

Le parole gli uscirono di bocca quasi senza che lui ci pensasse, Silvia si fermò. Un sospiro di sollievo accompagnò i suoi passi mentre si avvicinava a lei. La sentiva ansimare, immobile, la sentiva singhiozzare, in piedi davanti a lui, di spalle. Prendere o lasciare? Prendere. Le appoggiò una mano sulla spalla, lei si voltò. Due lacrime le rigavano le guance, il suo volto era un quadro astratto di emozioni; la fronte corrugata, gli occhi socchiusi, le labbra che si aprivano appena per respirare. Marco non riusciva a non sorriderle fissando quelle iridi scure luccicanti, lucide di pianto e di voglia di fuggire via. Non la salutò, le asciugò le lacrime con una carezza impercettibile. Nonostante il suo ritardo al lavoro crescesse in maniera esponenziale Silvia rimaneva lì a guardare quel Marco Carini che incontrava al Grande Viale solo per la terza volta in fin dei conti. Si voltò verso il garage che si intravedeva già. Le pareti erano verniciate di un grigio piombo appena più scuro di quello dell’asfalto, la saracinesca era così scura da avvicinarsi al nero e la maniglia era arrugginita e pesante, che solo per tirarla su richiedeva uno sforzo considerevole, oltre che un po’ di pazienza per farla arrivare alla posizione giusta. Il crollo dentro di lei diventava sempre più rovinoso e tutto le sembrava un’impresa titanica. Per un secondo davanti agli occhi vide sovrapposti il peso della maniglia del garage e quello della caduta emotiva che sentiva dentro, le due sensazioni continuavano ad infuriare stringendola in una fossa senza via d’uscita. E poi, in mezzo a tutto, piccoli ma micidiali, i tremendi occhi azzurri di quell’uomo elegante, di quell’angelo in giacca e cravatta. Prendere o lasciare? Prendere. Marco non faceva parte della sua vita, era vero, ma Silvia non reggeva più la sua vita. Si voltò di nuovo, con uno scatto gli afferrò le mani, calde e lisce. Lo guardò fisso nelle pupille. Gli strinse più forte le mani e gli sorrise tra nuove lacrime che le rigavano il viso.
Marco rimase immobile a guardare Silvia che piangeva. Seguiva il movimento rapido delle lacrime, dagli occhi sfavillanti alle guance arrossite, dalle iridi scure alle labbra che si piegavano in un sorriso incerto. Le strinse le mani, pervaso da un brivido. Non riusciva a fare null’altro. Sentiva qualcosa che gli si annodava nello stomaco ed era certo che non si trattava della colazione, qualsiasi cosa fosse lo spingeva ad avvicinarsi a lei, ad abbracciarla, a stringerla. Ma dov’erano le braccia, le gambe? Marco si sentiva come davanti a una tabella vuota, ad un bilancio dove le entrate e le uscite viaggiano scontrandosi in un cielo di comete anziché stare nelle rispettive colonne. Afferrò la prima meteora che gli venne in mente.

- Silvia, vuoi venire con me? –

- Però Marco non mi lasciare. –

Lui la rassicurò.

- Lo so, lo so, non ho dimenticato nulla di quello che mi hai detto. Vieni.  –

Lei gli cinse i fianchi stringendosi a lui come stavano camminando poco prima e accoccolandosi un po’ di più.

- Marco, ho paura. –

- Shh, tranquilla, se vuoi parlare ti ascolto, se vuoi distrarti ti racconto le favole, se vuoi silenzio, starò zitto come un semaforo. –

Lei scoppiò a ridere.

- No, parliamo, lo preferisco. –

- Sai, di recente hanno cambiato i distributori di bevande e snack e anche la macchina che stampa i biglietti. –

- Quell’aggeggio orrido? –

Marco rise.

- Non più, adesso. –

- Giusto, l’hanno cambiata. E ora dobbiamo scendere le scale. –

- Sì, scendiamo, siamo ancora in orario, per un pelo. Hai brutti ricordi legati a queste scale? –

- No, diciamo che sono caduta in tutti gli angoli della stazione e pure del treno, tranne qui sulle scale. –

Marco rise di nuovo.

- Hai mancato il posto più classico per una caduta. –

- Più che altro sono io che sono poco classica. –

- L’ho notato – fece una pausa – dalla prima volta che ti ho vista. –

Silvia ridacchiò nervosa, cercando di badare soltanto ai lati positivi della situazione, alla fine lei e Marco ridevano e le risate sembravano soffocare i ricordi. La macchina che stampava i biglietti era moderna e dai colori pacati , c’era una sorta di azzurrino alternato al grigio, sui quali spiccavano i pulsanti verdi. L’aggeggio era invitante e senza fatica Silvia si fece emettere un biglietto: andata e ritorno, una promessa a prendere quel treno anche per tornare a casa, un impegno. Il congegno che convalidava i biglietti però non era stato cambiato ed era lo stesso che dieci anni prima, piccolo e rosso, lei poteva usare solo dopo esser stata scavalcata da Emanuele, Denise, Maria Vittoria, Giovanni e Veronica, quando non si aggiungevano anche le ragazze della sezione A. Chiuse gli occhi e scacciò quei pensieri dalla mente facendo semplicemente quello che doveva fare. Si allontanò da quell’aggeggio e sospirò. Aveva già fatto tutto il necessario ed era pronta per scendere fino al binario. Non era successo niente. Marco le teneva ancora la mano, percorsero pochi metri e sbucarono nella galleria. Silvia gli strinse forte quella mano calda, il treno non era ancora arrivato ma lei era stata investita da un altro bestione che non poteva evitare di affrontare, e che prima o poi doveva arrivarle addosso, il ricordo del 21 febbraio di dieci anni prima.

- Tutto bene, Silvia? –

Senza neanche pensarci gli raccontò ogni cosa, lasciandosi andare ai ricordi, riversando tutta l’indignazione e la rabbia che per anni le era rimasta nel cuore bagnandole gli occhi, pungente come un groppo in gola.

- Avevo indossato il maglione nuovo, color fragola, tutto traforato, mi ero guardata a lungo allo specchio e poi finalmente mi ero decisa a prenderlo, mi stava bene. Denise mi vede e mi dice che avevo comprato quel maglione apposta per potermi pavoneggiare della torta alle fragole che avevo preparato il giorno prima a scuola, non l’avessi mai fatto! Loro non erano granchè come bravura ai fornelli e questo l’ho sempre pagato io, ero troppo brava a cucinare e troppo fuori moda. Subito a lei si accoda Veronica con quella voce stridula e dice che mi sono messa addosso lo scolapasta. Tutte le ragazze della  A iniziano a ridere. Poi Emanuele con quel vocione grida: “Il soufflé dell’alunna preferita della prof stava in piedi, vediamo se riesce a reggersi pure lo scolapasta alla fragola che cammina!” E poi mi fa lo sgambetto. –

- Oh no! – mugolò Marco dispiaciuto – che stronzi! –

Silvia gli appoggiò la testa sulla spalla.

- E’ stato brutto rialzarsi da terra e salire in treno come se non fosse successo nulla, infatti poi ho cucinato un risotto orribile a scuola, insipido e brodoso, come mi sento io a volte e come loro riuscivano a farmi sentire sempre. –

Tirò un sospiro e si fermò a guardare Marco che la fissava con un’ombra sul viso, intristito da ciò che lei gli aveva raccontato.

- Dai, Silvia, è finito, non è vero quello che dicevano, ora è finito tutto, ora la vita è un’altra cosa. –

Sentirono un rumore e si guardarono incerti, abbracciati tra la folla.

- Prendiamo il treno? –

- Sì, Marco. Andiamo. –

Silvia aveva gli occhi asciutti, non aveva pianto e si lasciava coccolare dall’odore caldo e maschile che lui emanava, mentre la trascinava verso le due porte aperte del vagone. Sentiva ancora addosso le sensazioni e i ricordi di quel giorno lontano che aveva rievocato, le percepiva svolazzare intorno a sé e perdersi nell’aria della stazione mentre seguiva Marco verso il treno, in quel viaggio che non aveva messo in conto di fare. Le tremavano le gambe e sentiva il tonfo sordo del cuore che le batteva insicuro nel petto. Non appena mise piede nel vagone guardò Marco e lasciò annegare quel groviglio di sensazioni nei suoi occhi perfetti. Per un attimo, forse anche di più, pure lui rimase fermo, vicino alle porte ormai chiuse, a guardare Silvia e quei suoi occhi caldi che lo ringraziavano in silenzio.

- Vuoi sederti? Ci sono due posti lì in fondo. –

- Se non cado in mezzo al vagone prima di arrivarci sì. –

- No, dai, ti tengo io. –

- Vorresti dire che ne ho bisogno? –

- Ehi, fai un passo indietro, era sottinteso il “casomai”! –

Silvia lo fissò trattenendo una risata.

- Che fai? Ancora qui? Vai Silvia! –

- No, dammi la mano. –

Marco sospirò, le prese la mano e con lei arrivò fino ai due sedili blu liberi. Si sedettero e lei gli appoggiò la testa sulla spalla.

- Non sono abituata a questa comodità: poter stare seduta, poter rilassarmi, non dover guidare e fare attenzione al traffico. Dove voglio andare mi ci porta il treno, mi muovo stando ferma. –

- Ti piace? –

Silvia prese un respiro.

- Sì, diciamo di sì. –

- Magari arriverai al locale più tranquilla oggi. –

- Che ore sono? –

- Le otto e venti. –

- Allora sicuramente arriverò in orario. –

- Vedi? Un pensiero in meno! –

Silvia cambiò posizione sul sedile e lo scrutò.

- Ma come fai? –

Marco aggrottò le sopracciglia.

- A fare cosa? –

- A far sembrare tutto quello che dici così semplice, lineare, scorrevole. –

Rise appena, prima di risponderle.

- Esattamente come tu riesci a farti sembrare tutto quello che pensi così complicato e difficile.

Silvia lo guardò interdetta.

-Non hai risposto alla mia domanda. –

- Che c’è da rispondere? Ho fatto determinate cose che mi assicurano determinati risultati, quindi posso contare su me stesso e sono tranquillo. –

Silvia lo guardò affascinata mentre lui proseguiva.

- Alla fine sono solo in viaggio verso il mio lavoro. Sono in orario perché stamattina ho fatto tutto in tempo e sono calmo perché è il mio mestiere, ho studiato per tanti anni e dopo parecchio tempo che lavoro più o meno ho anche soltanto una minima idea di come funzioni, non pensi? –

Lei annuì.

- Silvia perché mi fissi come se fossi un alieno? –

Lei stava con la testa appoggiata alla mano, ritta sul gomito.

- Stai parlando di un mondo per me lontanissimo. –

Marco s’accigliò.

- Perché? –

- Sai, non è tanto il fatto del ritardo, alla fine in maniera così grave lo ero solo ieri. Però non sono mai in anticipo e con tutto il traffico che incontro per strada il rischio c’è sempre, oltre allo stress che mi fa iniziare la giornata già stanca. E poi sento che non riesco ad arrivare fino in fondo in quello che voglio fare. –

Anche lui cambiò posizione sul sedile.

- Bene, mia cara, allora se sei una donna intelligente oltre che interessante, da oggi in poi ti scorderai quel garage e quella macchina, che evidentemente ti danneggiano, imparerai da quest’esperienza che stai facendo oggi e non ricorrerai più a quella soluzione così poco conveniente. –

- Hai detto che sono interessante? –

- Sì, molto. Mi incuriosisci. Altrimenti ti avrei lasciata a piangere in mezzo alla strada, ma lo hanno fatto troppe persone per troppo tempo con te, e non è giusto Silvia, no no. –

Silvia scosse la testa pervasa da un altro ricordo, più semplice e forse più velenoso, che sembrava abitare nell’angolo più remoto del cuore. Tornò a sorridere e puntò nuovo gli occhi su Marco.

- Tutto ok?  -

- Sì sì, è solo che mi è venuta in mente una cosa. Che stavi dicendo? –

- Perché non prendi l’abitudine di venire in metro? Ci sono io, puoi stare con me. –

Silvia gli fece il verso.

- In effetti, anche tu “mi incuriosisci” –

Si misero a ridere entrambi e quando una signora iniziò a fissarli infastidita smisero e ripresero a parlare.

- Allora? –

Lei abbassò lo sguardo.

- Penso di sì, non mi va di darti una risposta certa, però tu conta che sia un sì. –

Marco le prese delicatamente il mento, le alzò il viso e le parlò in tono leggermente accigliato.

- Non riesci mai a dare delle risposte certe, vero Silvia?

Lei si scostò dalla presa di Marco e s’incupì.

- Che vuoi dire? –

- Che se scegli una cosa, ti fermi a quella e fai tutto il necessario per farla andare avanti vedrai dei frutti alla fine, però devi sbattere la testa sempre sullo stesso muro per ottenere un risultato vero. –

-Ultimamente la sbatto ovunque. –

Silvia piegò le labbra in un’espressione delusa. Marco le afferrò le mani.

- No. Non devi. È sbagliato, è così che si rimane fermi allo stesso punto. Io sono uscito dal liceo scientifico, potevo intraprendere mille strade, ne ho scelta solo una: Economia e Commercio. I miei genitori erano i primi a dubitare che ce la facessi, vista la scuola da dove venivo, ma l’avevo deciso io. E ora sono qui. –

- L’avevi deciso tu. –

Silvia si appoggiò di nuovo a lui mentre il treno si fermava, le porte si aprivano e po’ di gente scendeva, altra gente saliva.

- Marco, la prossima è la mia fermata. –

- La nostra fermata. –

- Aspetta, lavori negli uffici a un isolato dal mio ristorante? -

- Eh sì. –

Le sfuggì un tiepido sorriso.

- Bene. –

Le porte si richiusero. Silvia chiuse gli occhi un attimo e si lasciò trasportare dal rumore di sottofondo del treno che correva veloce, dal chiacchiericcio della gente, dal calore delle mani di Marco e dalla sensazione di scivolare lentamente, comoda, tranquilla, sottoterra, perfettamente in possesso di sé. Marco giocherellava con un boccolo di Silvia osservandone il colore scuro, carico di riflessi. Dimenticava il mondo là fuori, là sopra, che si muoveva con i suoi mille ritmi, esisteva solo un punto fermo: la chioma di Silvia. Continuava a rigirare la sua ciocca tra le dita mentre il mondo scorreva, la ammirava impresso nella scena, fissato nell’attimo, solo nelle sensazioni tranquille di quel viaggio come tanti e come nessun altro.

- Uscita lato destro. –

Entrambi sobbalzarono nel capire che era la loro fermata. Marco, come abitudine, si sistemò pronto vicino alla porta, sorrise a Silvia che non si muoveva dal sedile.

-Ero comoda… -

- Dai, ti aspettano –

Le allungò una mano. Silvia sorrise appena, si aggrappò a quel braccio e si alzò in piedi. Quando la porta si aprì ebbe quasi delle vertigini. Era stata così bene, non voleva scendere. Camminò lasciandosi trascinare da Marco. La fermata attraverso cui la conduceva lui era per lei del tutto nuova, non c’era mai scesa. Non rivide vecchi ricordi, soltanto tanta gente che avanzava in fretta, anche Marco aveva accelerato il passo. Non lo contrariava e camminava dietro di lui, guidata da quella mano che la stringeva forte e la portava verso l’uscita. Mancavano solo la metà dei gradini e poi ricominciava un altro viale, molto più stretto da quello in cui avevano preso la metro.

- Mi ha fatto davvero piacere fare il tragitto con te, Silvia, non è stato come le altre volte. –

- Marco, per me è stata la prima ed era la cosa giusta, lo è sempre stata, ma… -

- Ma? –

- Grazie. –

-Macchè, grazie a te, e… -

- e…?

- Cerca di stare più tranquilla. –

Le fece una carezza.

Silvia si sentì morire.

- Sì, sì. -

Iniziò a ridere e si avvicinò per baciarlo sulle guance lisce e odorose.

- Ci vediamo. –

- Presto. –

“Presto” fu la loro ultima parola, prima che si allontanassero per il marciapiede verso due isolati diversi. “Presto” era come Marco raggiunse l’imponente palazzo dove lavorava, “presto” era come Silvia correva per arrivare prima che la lancetta dell’orologio scoccasse le 08:30. Voleva arrivare in orario perfetto, senza i minuti “accademici” che concedevano a lei e agli altri che non appartenevano alla razza dei puntuali purosangue. Raggiunse la porta a vetri dell’ingresso del locale, afferrò la maniglia e tirò energicamente. Un passo e fu dentro. Tirò un sospiro di sollievo. Salutò tutti i colleghi che incontrò mentre si preparava, alcuni stupiti del suo arrivo, altri indifferenti. Cominciò ad osservarli nella loro compostezza ed eleganza come faceva sempre, li ascoltò discutere sicuri di quel che dicevano, fieri di come si organizzavano per gestire il bar. Il locale era dotato di un’ampia sala e apriva a pranzo, a cena e a colazione fornendo in questo caso i servizi di un bar, chi aveva progettato l’hotel lì vicino lo aveva costruito sulla strada per poter guadagnare anche dalla gente di fuori che voleva usufruirne oltre che per metterlo a disposizione dei clienti. Silvia rabbrividiva, continuava ad osservare i colleghi mentre prendeva della cialde per il caffè. Cominciò a far funzionare la macchinetta, mordendosi il labbro perché tutto quello che vedeva, che sentiva, che osservava, rimbalzava sulle pareti blu e crema del locale e le rimbombava nel battito sordo del cuore, e perché da tutte quelle cose si sentiva ancora lontana.

 

 

Alle 11 e 10 Marco stava in piedi vicino al distributore di bevande al centro della piccola saletta. Era una sorta di salottino-relax ed era illuminato da grandi porte a vetri su un balcone di modeste dimensioni. Sorseggiava lentamente il caffè che aveva appena preso, rivolgendosi a una collega.

- Alessandra, tranquilla, tu prova a fare così e stai tranquilla, casomai se non va bene ci si pensa più tardi. –

- Grazie del consiglio, proverò a fare come mi hai detto tu, per quel mio povero ufficio desolato. –

- Smettila dai, potresti anche non doverci lavorare più tra qualche settimana. –

- Magari –

Risero entrambi. Li interruppe una voce squillante.

- Carini! Siamo in pausa, per un po’ smettila di pensare al lavoro, poi a quello degli altri, non ti basta il tuo? –

Marco si lasciò sfuggire una smorfia d’insofferenza che la collega vide mentre si allontanava. La salutò e si voltò cercando di essere il più cordiale possibile.

- Angelo, buongiorno caro, cosa ti affligge? –

Lui rise con le mani nelle tasche della giacca Armani.

- Nulla, io ogni tanto mi rilasso, a differenza di te. –

Marco bevve il caffè rimasto tutto d’un sorso.

- Amico chi ti dice che io non mi rilasso? –

- Devo dire però che ora che ti sei trovato la ragazza ti rilassi per bene. -

Marco non poté evitare di guardarlo interdetto.

- Che vuoi dire? –

- Eh… -  

Liguori non aggiunse altro e lasciò vagare nella stanza uno sguardo malizioso.

- Collega vieni al sodo, e accompagnami alla mia stanza, è tardi. -

Angelo sbuffò e lo seguì per il corridoio, sistemandosi i capelli biondo scuro che sentiva fuori posto.

- Guarda che ti ho visto, uscito dalla stazione della metro, insieme a quella. –

Marco accelerò il passo per non doverlo guardare in viso oltre che per sua abitudine.

- Guarda che “quella” è una persona e “questi” sono fatti miei. –

Sentì il collega ridere di nuovo.

- Ma dai, io vengo con buone intenzioni, mica voglio farmi i fatti tuoi! Avevo solo notato che era la stessa ragazza che lavora al locale qua vicino, quello che rifornisce l’hotel Riveira. –

Riuscì con successo a soffocare la voglia di schiaffeggiarlo.

- Lo so. –

Angelo continuava imperterrito.

- L’ho vista l’altra mattina quando siamo andati a fare colazione al bar del locale, e poi quando siamo tornati a pranzo l’ho intravista mentre si affacciava dalla porta della cucina. C’erano anche altre cuoche con lei, tutte molto carine. Lavorano fino alle quattro del pomeriggio, poi finisce il turno, non come noi che stiamo buttati qua fino a sera! –

- Angelo noi abbiamo la pausa pranzo, loro no. –

- Perché non vai a trovarla? –

Marco si voltò fissandolo dritto negli occhi nocciola.

- Perché non ti fai i cavoli tuoi? –

- Va bene, siamo arrivati al tuo ufficio, vado via. –

- Ciao, buon lavoro –

Guardò Angelo Liguori che si allontanava per il corridoio e pensò di avergli fatto un augurio abbastanza inutile, il suo collega aveva già tirato fuori dalla giacca le sigarette e probabilmente avrebbe perso chissà quanto tempo prima di mettersi a lavorare sul serio. Rientrò nella sua stanza, aprì una finestra e si affacciò. Tre piani sotto di lui le auto scorrevano nella rotonda e le persone entravano e uscivano dai due negozi lì vicino. Era parecchio infastidito dall’atteggiamento morboso di Liguori, un ragazzino in cerca di attenzioni, nonostante avesse solo due anni in meno di lui. Gli sembrava strano che gli avesse parlato di Silvia. Un flebile sorriso gli spuntò sul volto. E così adesso sapeva che Silvia usciva da lavoro alle quattro, allo stesso orario in cui lui doveva rientrare. Pensò che lei avrebbe dovuto prendere la metro da sola e gli venne un brivido. Era preoccupato per lei. Eppure era stato sincero quella mattina quando le aveva detto che lei era tutto tranne che apatica, quindi doveva tranquillizzarsi e convincersi che, appunto per questo, lei ce l’avrebbe fatta, perché non era apatica, anche se sembrava così fragile. Silvia aveva un fascino innato: nel modo in cui guardava il mondo, con quell’aria che sembrava assente ma captava tutto, in quel suo modo di porsi che poteva apparire diverso e che proprio per questo era bellissimo, nella nonchalance con cui stava ferma in mezzo al Viale, senza curarsi di tutta la gente che le passava intorno, soltanto perché aveva voglia di piangere. L’aveva vista con le lacrime ancora calde sul viso mentre si girava verso di lui anziché scappare via, gli occhi dal colore intenso bagnati dalle lacrime erano diventati sfavillanti e lei ancora più bella. Di donne belle Marco ne vedeva tante, ma Silvia aveva qualcosa che lo spingeva a guardarla e a parlare con lei ancora un attimo in più, prima che lei andasse via, nonostante fosse così contorta, nonostante fosse solo una donna conosciuta in mezzo al traffico, nonostante fosse così diversa da lui. E oltre che guardarla e parlarle, Marco non poteva fare a meno di sorriderle, di tenderle la mano, di preoccuparsi, come se fosse una priorità, come se fosse la sua ragazza. Non era la sua ragazza, era semplicemente Silvia. Ed era così fragile quando si scostava i boccoli scuri dal viso, quando accaldata abbassava la cerniera del giubbotto, quando sorrideva per mascherare il nervosismo, quando arrossiva appena, socchiudendo gli occhi, quando tirava fuori tutto il buio nascosto nei suoi occhi raccontandogli tutti d’un fiato spezzoni della sua vita. Lui la guardava e gli veniva da sorridere, non riusciva a lasciarla andare perché si sentiva in dovere di aiutarla, di farla stare meglio, come se un sorriso di Silvia valesse quanto uno dei suoi. Ripensò al loro ultimo saluto vicino all’incrocio, quando probabilmente li aveva visti Liguori, forse un sorriso di Silvia valeva più di uno dei suoi, perché era come il sole che dopo un temporale splende più forte, un sorriso liberatorio dopo momenti d’ansia, di tristezza, perché era il sorriso di una luce che voleva brillare e che finalmente poteva farlo, o forse solo perché era il sorriso di Silvia. Chiuse la finestra e ancora con un’espressione assorta e compiaciuta tornò a lavorare.

 

 

Silvia lasciava vagare lo sguardo da un colore all’altro della cucina del locale, dall’arancio del pavimento al marrone chiaro dei mobili, dal bronzo dei rubinetti al color crema delle pareti. Il suo turno stava per finire e i colleghi sistemavano tutto per la chiusura mentre lei preparava l’ultimo piatto della giornata per un tavolo di quattro persone. Abbassando gli occhi vide che l’olio nella padella era caldo al punto giusto e vi gettò tutti i frutti di mare osservandoli uno ad uno: i piccoli gamberetti dal gusto delicato, i tentacoli di polipo ben saporiti e i gustosi tocchetti di salmone. Non pensava a nient’altro che a quella danza di sapori sotto i suoi occhi, a quelle piccole delizie che manovrava con le sue mani, rimestava col cucchiaio di legno e sfumava col vino bianco. Loro sfrigolavano, brillavano e profumavano quel piccolo spazio che si era ritagliata, sola, a giocare con i sapori.

- Mi sta piacendo questa tua nuova strategia, Silvia. –

Lei si voltò improvvisamente verso Rosa che all’improvviso le era arrivata dietro.

- A cosa ti riferisci? –

- Oggi sei arrivata presto, sei stata molto attenta, anche più veloce e ti è scappato qualche sorriso in più. –

Silvia ringraziò meravigliata.

- Stai sorridendo di nuovo, non è che qui c’è qualche angelo salvatore che è venuto a svegliarti? –

Silvia rabbrividì, cercò di non darlo a vedere e tornò a tuffare lo sguardo nella sua padella sul fuoco.

- Perché? Ero addormentata? –

Nonostante sapesse di non aver dato mai il massimo nel suo lavoro non aveva mai interpretato la situazione con questa chiave di lettura, come un “dormire” e “non svegliarsi”.

- Non so Silvia io ho sempre visto qualcosa che ti blocca, oggi un po’ meno. Non so a cosa sia dovuto questo tuo atteggiamento ma ti posso assicurare che non ti porterà da nessuna parte. E te lo dico perché vedo chiaramente che tu vuoi di più. –

Silvia alzò lo sguardo e la fissò sbalordita.

- Si vede? –

- Dallo sguardo, sembri innamorata davanti a qualche ricetta più complessa, mentre osservi alcuni di noi quando le cuciniamo, e di solito quelli che hanno questa faccia da pesce lesso o sono dei golosi oppure dei cuochi veri. –

Silvia arrossì tornando a rimestare il pesce.

- Il goloso gioisce quando riesce a mangiare, il cuoco quando riesce a far mangiare gli altri. Me lo ripeto da tanto tempo perché l’ho sempre vista così, come una ricerca del piacere i cui risultati faranno stare bene altri. –

Rosa piegò le labbra in un sorriso scostando una ciocca di capelli neri e ricci.

- Io te l’ho già detto che potenzialmente hai tanto, e che una passione come la tua può diventare un passe-partout, una chiave che apre qualsiasi porta, si vede. –

- Grazie. –

Silvia sorrise in difficoltà, cercava di capire cosa volesse dirle Rosa.

- Silvia, non dormire sugli allori. Anzi, non dormire e basta. Guardami. –

Alzò di nuovo la testa.

- Al mondo non importa cosa siamo, al mondo importa cosa mostriamo, chi riesce a mostrare quello che è ha vinto.  Sarebbe un peccato se tu non lo facessi. Io ti consiglio di farcela, come ho fatto io dieci anni fa e come hanno fatto tutti gli altri. –

Silvia spense il fuoco senza abbassare la testa.

- Stavo per dirtelo, brava –

Rosa era troppo criptica da decifrare, soprattutto in quel momento che con un sorriso enigmatico andava via.

- Silvia puoi venire un attimo? –

Era Antonio che affacciato alla porta la chiamava.

- Fuori c’è una persona per te, finisco io gli spaghetti ai frutti di mare. –

Silvia si tolse in fretta il grembiule e uscì chiedendosi chi potesse essere, mai le era successa una cosa simile. In piedi all’ingresso, con la giacca in mano e le maniche della camicia rimboccate c’era Marco. A Silvia esplose il cuore nel petto e in un attimo fu vicina a lui. Si salutarono e si sforzò di mascherare l’esitazione quando gli chiese qual buon vento lo aveva portato lì.

- Un rompiscatole di un mio collega mi ha detto che ti aveva vista salutarmi e ti aveva riconosciuta perché lavoravi qui, e mi ha detto che a quest’ora finisce il tuo turno. Mi aveva preso in giro esortandomi a venirti a trovare. L’ho mandato via naturalmente. E poi mi sono detto che per quanto noioso sia stato una cosa buona l’ha detta, che dovevo passare a trovarti, anche solo per chiederti com’è andata oggi. –

- Sono successe tante cose. Se aspetti che prendo le mie cose possiamo parlare mentre esco.–

-Certo. –

Silvia si allontanò e tornò due minuti dopo con la borsa e il giubbotto in mano. Lui aprì la porta e uscirono insieme. Tenendosi per mano passeggiarono diretti alla stazione.

- Allora, Marco, intanto, è ovvio, sono arrivata prestissimo. –

- Ed è stata una cosa bella? –

-Sì, non me lo aspettavo. A parte la tranquillità è anche una cosa gradita dagli altri. –

- Come ti dicevo. Poi? –

- E’ andata molto bene, e prima che venissi tu Rosa, una delle cuoche tra i “veterani” diciamo mi ha fatto un discorso strano, però boh credo positivo, bello, anche se ancora devo capire bene. –

- Cioè? –

Erano arrivati davanti alle scale della stazione e Marco stava fermo aspettando una risposta.

- Se vieni ti spiego meglio in metro, no? –

- Mi sa che allora dobbiamo rimandare a domani mattina. -

Silvia non riuscì a trattenere l’ombra che le passò sul viso.

- Domani mattina? Adesso non prendi la metro? –

A Marco si spezzò il respiro.

- No, ho pranzato a casa e adesso sono tornato e devo rientrare in ufficio, poi lavoro fino alle otto. –

Marco non voleva lasciarla sola, non voleva andare via e dagli occhi di Silvia capì che lei pensava le stesse cose. Si avvicinò e le accarezzò i capelli. La vide sorridere e scese giù con la mano facendola scivolare sulla guancia.

- Mi prometti che sopravvivrai anche senza di me? –

Silvia aveva le guancie rosse e la mano di Marco ancora sul mento.

- Certo, se non sopravvivrò non potremo vederci ancora. –

- Allora domani mattina verrai di nuovo con me? –

Silvia si sentì esplodere in petto una decina di fuochi d’artificio.

- Sì. –

- Ci vediamo alle otto al Grande Viale, vicino alla pasticceria? –

- Sì. –

Marco non voleva staccare la mano dalla sua pelle, la sentiva incollata, come se non ci fosse altra soluzione che lasciarla lì, leggermente in imbarazzo le sorrise e cominciò ad accarezzarle il collo anche con l’altra. Lei non riusciva a credere di avere davvero i piedi piantati a terra, sul marciapiede, si sentiva volare in universi sconosciuti, finalmente erano successe delle cose al lavoro e un bellissimo Marco sorridente come un ebete le aveva dato un appuntamento per l’indomani mattina. Fece un rapido confronto con quello che era successo esattamente ventiquattro ore prima e sentì una scossa: il giorno prima non aspettava altro che tornare a casa, nervosa e imbronciata con le lacrime dietro gli occhi,  in quel momento invece c’erano davanti a lei gli occhi azzurri di Marco. Si avvicinò a lui, non c’era modo di poter esprimere la sua gratitudine, mentre lui non smetteva di sorridere. Gli allungò le braccia al collo e gli si accucciò appoggiando la testa sul petto. In quell’abbraccio sentiva ancora il suo profumo e il suo respiro. Marco sentiva il cuore di Silvia che batteva veloce e quasi allo stesso ritmo frenetico.

- Mi fanno bene questi momenti, e vedo che fanno bene anche a te, è molto bello e molto importante che tu oggi non sia scappata, ti aspetto Silvia, ti aspetto, a domani. –

Silvia trattenne il respiro e scostandosi dall’abbraccio lo salutò.

- A domani. –

 

 

Sulla metropolitana Silvia stava seduta comoda, come se quell’esperienza non avesse mai portato traumi nella sua vita, come se dieci anni di paure fossero scivolati via in un attimo. Aveva la testa appoggiata sulla mano e gli occhi chiusi, aveva trovato in fondo alla borsa gli auricolari e ascoltava dal cellulare delle canzoni che aveva trasferito dal computer tempo prima. I loro suoni si impregnavano delle sensazioni che provava, tutte miste in un groviglio confuso. Si sentiva come se stesse viaggiando in una città nuova, come se improvvisamente tutto intorno a lei fosse cambiato. Poi sentiva una sorta di tepore a pensare alle carezze e all’abbraccio di Marco, chi era quello sconosciuto che in tre giorni era entrato nella sua vita, adesso ufficialmente? Marco era capace di portarla via dalla sua noiosa vita a metà, da tutte le fatiche e da tutte le ansie. I suoi occhi azzurri riuscivano a convincerla che anche il cielo lo era, Marco era azzurro come la torta che le era riuscita meglio, Marco era elegante come lo stile di cucina che a lei piaceva, Marco era sveglio e pronto come voleva essere lei quando piangeva stanca e triste. Marco era bello come quei pochi momenti che avevano passato insieme. Pochi minuti dopo Silvia si ritrovò sola, ancora con quei suoni nelle orecchie e quelle sensazioni nel cuore, a percorrere la stazione, le scale e il viale fino ad arrivare a casa sua. Provò una sensazione strana nel girare le chiavi nella serratura dell’appartamento, erano le quattro e un quarto e la casa era deserta. Si avvicinò al frigorifero per prendere dell’acqua. Bevve in piedi vicino ai fornelli osservando come la luce batteva sui caldi colori chiari della cappa e degli altri pezzi della cucina. Poi riaprì il frigo e cominciò a rovistare tra gli ingredienti. Antonio non le aveva fatto terminare la pasta ai frutti di mare e aveva voglia di cucinare qualcos’altro. Trovò mozzarella, finocchi, prosciutto e un rotolo di pasta sfoglia. Pensò a una sfoglia al prosciutto e tirò fuori il rotolo di pasta dal frigo, rigirandolo dubbiosa tra le mani, poi ebbe un’altra idea e lo ripose nuovamente in frigorifero. Prese una padella e dell’olio e cominciò a far soffriggere il prosciutto e i finocchi. Era un’accoppiata insolita per accompagnare gli spaghetti ma soppesando il gusto forte dell’uno e quello delicato degli altri, Silvia pensò che potesse funzionare. Mentre l’aria si riempiva di odori e colori Silvia non smise di cucinare, conservò il soffritto e preparò anche una sfoglia con la mozzarella e degli spinaci surgelati che aveva trovato in freezer e una torta con il cacao in polvere e lo yogurt al caffè. Finì di spalmare il cioccolato bianco sulla torta già cotta e si stese sul divano. La sfoglia e la torta si sarebbero conservate e avrebbero potuto mangiarle la sera stessa, il soffritto lo avrebbe cucinato di nuovo quando avrebbe fatto la pasta. Il sole non era ancora tramontato e Silvia inseguì con lo sguardo la sua luce, aldilà della porta a vetri che dava sul balcone. Osservava come la primavera si rifletteva nel giardino della villetta vicina al suo condominio. L’erba chiara luccicava sotto il sole, i raggi caldi illuminavano le rose gialle e rosse. Quei petali oro e rubino sembravano splendere di luce propria, tanto era forte il sole che li illuminava, o forse era una sensazione di Silvia. Forse era lei che aveva quell’impressione, lei che prima si nascondeva dalla luce e che adesso la guardava affascinata, che ne sentiva il calore. Si alzò e uscì in balcone, mentre il telefono nella borsa squillava senza che lei lo sentisse. Si appoggiò alla ringhiera e assorbì tutti i raggi del sole sulla pelle, erano forti e caldi, intensi e tanto piacevoli da sembrare quasi melodiosi. Il telefono continuava a squillare. Non era primavera quella che sentiva, no, lei non faceva parte della primavera, si trovava catapultata in una scia quasi scottante, in una tempesta di sole improvvisa, in una bellissima ondata di calore da cui si lasciava abbracciare in quel balcone poco distante dal Grande Viale.
 

 

- Marco, posso entrare?  -

Lui si alzò dalla sedia e andò alla porta per aprire.

- Alessandra, sì, cara. –

- Volevo dirti che la situazione va un po’ meglio, grazie del consiglio. –

- Lo sai che per me è un piacere.   –

- Sono stata dal direttore e mi ha detto di mandarti a chiamare. –

Marco sospirò.

- Sì, sono le otto meno cinque quindi il tempo che mi sistemo per andare via e lo raggiungo. –

Alessandra lo salutò baciandolo sulle guancie.

- Ovviamente tu non hai di che preoccuparti. –

Marco ricambiò il saluto con una risata nervosa, le augurò una buona serata e tornò alla scrivania. Spense il computer, si tolse gli occhiali riposanti, li ripose nella custodia e sistemò la cartella. Prese anche la giacca e uscì dal suo ufficio. Per arrivare a quello del direttore doveva percorrere tutto il corridoio e salire una rampa di scale.

“Perché mi ha chiamato?“

Salutò distrattamente il suo vicino di stanza che percorreva il corridoio in direzione opposta. Buttò giù lo sguardo, diretto al parquet scuro su cui camminava e poi lo riportò alle pareti, verniciate in verde muschio nella parte inferiore e in bianco nella parte superiore. Nei giorni prima aveva sentito dire tante cose, tante cose erano successe. Prima non si fidava della primavera, prima vedeva tanti ostacoli davanti a sé, prima non si sentiva mai tranquillo, poi aveva incontrato Silvia, era riuscito a farla stare meglio, era riuscito ad aiutare Alessandra, forse era arrivato il momento di iniziare a fidarsi, o forse no? Percepiva ancora quella sensazione di diffidenza e quel bisogno di mantenersi sulla difensiva, solo che era una debole sensazione accompagnata da altre nuove che si affollavano nei suoi occhi, una era il pensiero rivolto a Silvia, un’altra l’ansia di sapere per quale motivo era stato chiamato. Muoveva i suoi passi l’ansia di entrare ancora di più negli avvenimenti della sua vita, la sete di futuro che lo animava, cieca e potente, più forte dell’esitazione. Salì le scale in fretta accedendo a un altro corridoio dall’elegante accostamento di colori e dalla luce calda dei lampadari. Un quadro appeso al muro raffigurante una composizione di fiori gli ricordò tutte le sue riflessioni sulla primavera, sul suo non volersi fidare, non volerne partecipare. Arrivò alla porta dell’ufficio del direttore e bussò chiedendo con tono di voce energico di poter entrare. Come poteva lui far parte della primavera se si sentiva immerso in un’ondata di calore così forte, che gli riscaldava il presente e forse anche il futuro, illuminandoli di una luce strana e fuori stagione, da non poter capire, da poter solo amare?
 
  
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