When no one
should know
Michela
Michela guardò
l’orologio stanca, poi volse lo sguardo all’entrata della palestra. Alessia,
sua sorella, doveva ancora uscire. Intravide, invece della sua figura alta e
snella, un gruppo di ragazzi dirigersi verso la porta. Li conosceva bene.
Almeno, di vista, sapeva chi erano tutti. Fiore, Machiavelli e Lupin. Soprannomi,
ovviamente, però, li conoscevano così. Giocavano nella squadra maschile di
calcio del suo club, il Mirane, e da come avrebbe capito chiunque dal suo
sguardo allarmato e sovrappensiero erano piuttosto popolari.
Li vide passare
disinvolti per l’entrata, mentre salutavano il ragazzo dietro al bancone
dell’accettazione, il figlio proprietario della palestra, era un bel giovane,
che un tempo sembrava poter avere un futuro nel campo del basket. Poi stando a
quanto le aveva raccontato Alessia, sempre attenta alle chiacchiere di
corridoio, andando in motorino era caduto e si era rotto il legamento crociato,
poteva camminare, ma certo non correre o continuare a giocare. Così la sua
carriera era stata stroncata sul nascere.
I tre ragazzi
intanto erano quasi usciti dalla palestra. Michela poteva sentire il loro
vociare incessante. Abbassò lo sguardo e prese il cellulare, fece finta di aver
ricevuto qualche messaggio per non doverli guardare. Nel frattempo malediceva
sua sorella per essere di una lentezza esasperante. Aveva detto che saliva,
perché si era dimenticata la giacca. Probabilmente si era fermata a
chiacchierare con qualcuno. Lei era più aperta, non si faceva tutti i problemi
di Michela, che aveva difficoltà a conversare anche con chi conosceva
dall’asilo. Anzi soprattutto con chi
conosceva dall’asilo…
Fortunatamente i
ragazzi le passarono davanti indifferenti. Lei tirò un sospiro di sollievo. In
quelle situazioni non sapeva mai come comportarsi. Non era, infatti,
esattamente vero che li conosceva solo di vista. Lei era nella squadra
femminile di pallavolo e loro nella maschile di calcio. Situazione così stabile
da circa cinque anni, o forse anche più, non ricordava. Sicuramente, sapevano
chi era e qualche volta ci aveva anche scambiato due parole. Tutto lì nulla di
più.
Il suo problema
era molto semplice e stupido, se lo ripeteva in continuazione. Era solo molto
timida, tante persone erano timide e insicure. E con questo di solito liquidava
le riflessioni sui suoi blocchi. Sua madre e sua sorella dicevano che c’era
qualcosa di più. Forse un po’ era vero, andando alle superiori era cambiata. Michela non voleva pensarci.
Tornò a
rivolgere la sua attenzione al mondo: i ragazzi erano, ormai, o così le
sembrava, usciti dal suo campo visivo quando ripose il cellulare in tasca e si
diresse verso il parcheggio delle biciclette. Un massaggio alla fine l’aveva
mandato, aveva scritto a sua sorella che tornava a casa da sola. Ad ogni modo,
felice che quella giornata fosse finita girò l’angolo ed ecco materializzarsi
l’amara sorpresa, insieme alla consapevolezza che il luogo che la palestra
metteva a disposizione per le biciclette era attaccato a quelli dei motorini.
Loro erano là.
Lupin aveva già il casco e aspettava solo che gli amici lo imitassero per
partire. Fu Fiore a vederla per primo.
“Ciao” Fu tutto
quello che le disse, con fare non curante.
Lei rispose al
saluto nel modo più naturale possibile.
Machiavelli la
guardò sorridendo e la salutò a sua volta, Lupi si limitò a fare un cenno.
Michela sentì
una vampata scaldarle il viso, poi un brivido lungo la schiena quando
Machiavelli iniziò a camminare verso di lei. Era sceso dal motorino e aveva
detto qualcosa agli amici. Michela era sicura di aver scorto Lupin ridacchiare.
Mille pensieri
le affollarono la mente. Ultimo fra tutti quello di ricordarsi di respirare.
Ovviamente parlò
lui per primo “Sei nella femminile di pallavolo, vero?”
“Sì” disse
secca. Ripensandoci si maledì per non aver aggiunto qualcosa a quella risposta.
Un'altra domanda, per esempio. Avrebbe potuto dire ‘Sì, perché?’ o qualcosa del genere.
Lui, però, non
sembrò toccato dalla cosa. Anzi senza neanche aspettare che rispondesse aveva
iniziato a frugare nel borsone. Ne tirò fuori un cellulare. Michela lo
conosceva era di Ludovica il centro della sua squadra.
“Questo l’ho
trovato sopra gli armadietti in atrio e mi sembrava fosse della Ludo. Non è che
potresti darglielo quando la vedi?”
La sua voce era
distante e disinteressata, avrebbe pensato dopo, un po’ gelosa del tono di
familiarità con cui aveva pronunciato il nome della compagna di squadra.
Anna sorrise “Sì
certo. Non c’è problema. La vedrò domani a scuola.”
“Perfetto.
Allora ciao.” Le aveva già voltato le spalle.
“Ciao.” ora
sentiva di doverlo dire per forza.
Lui si girò, ma
non disse nulla sorrise e basta.
*****
Alessia
Uscì dalla
palestra correndo con il cellulare ancora in mano, sperando che la sorella non
se ne fosse già andata. Tirò un sospiro di sollievo quando la vide, si era
appena seduta sulla bicicletta.
“Comoda, eh? Non
preoccuparti minimamente la prossima volta, fai pure con calma.” Le disse
Michela dalla sella della bicicletta.
Alessia le
lanciò un’occhiata di fuoco.
“Sono stata
dentro dieci minuti, Michi! Mica un’ora!” Provò a giustificarsi, sorridendo
colpevole.
La sorella non
riusciva a tenerle il broncio. Poi sapeva che non era arrabbiata per lei, ma
per aver incontrato Fiore e i suoi amici.
“Muoviti dai!”
Alessia si chinò
per aprire il lucchetto della bici, sentendo lo sguardo della sorella bruciare
sulla schiena. Quando fu anche lei in sella incominciarono a pedalare nel più
completo silenzio.
“Cosa fai questa
sera?” chiese distrattamente Alessia.
Michela sbuffò
“Vado a mangiare una pizza con Lily.”
“E non sei
contenta?” Il tono con cui la sorella le aveva comunicato la notizia era stanco
e irritato, ma Lily era la sua migliore amica. Non poteva diventare
indisponente anche nei suoi confronti.
La giovane si
sentì un po’ in colpa per come aveva parlato poco prima.
“Non è che abbia
tanta voglia di uscire… Oggi.” Provò
a giustificarsi e di solito funzionava.
Il più delle
volte se la cavava, infatti, con qualche battuta pungente della sorella, ma poi
finiva lì. In quel momento, però, la vide assumere un cipiglio cupo.
“Tu non hai mai
voglia di uscire.” Non c’era nessuna malizia canzonatoria nella sua voce.
Michela provò ad
allentare la tensione creatasi. “Bhe dai. Ora non esagerare! Solo perché oggi
sono un po’ così…”
La sorella le
fece cenno di smettere. Sventolava la mano in aria come se dovesse scacciare
una mosca.
“Michi…” iniziò,
il suo sono non era più gaio, una maschera d’inflessibilità le copriva il volto
“…lo sai, dove voglio arrivare…”
Lei abbassò la
testa colpevole “Ale, per favore…” supplicò.
“Fermiamoci un
attimo dai” propose Alessia guardandola colpevole.
Michela si mise
a urlare “No! No, che non ci fermiamo! Tanto lo so quello che devi dire e se
tacessi per non mortificarmi ulteriormente te ne sarei grata!”
Le ultime parole
le erano uscite strozzate, Alessia sentiva da un metro il nodo alla gola che
ora la costringeva al silenzio. Per non tradire altre emozioni.
“Siamo
preoccupati… Io e mamma…” La sua voce si era fatta improvvisamente più tenera.
Non doveva aggredirla così. Sapeva che Michela era sempre stata sensibile.
Anche prima di quell’episodio, che aveva trasformato le loro vite.
Una lacrima
solitaria la rigò il volto. “E fate male.”
“Michela adesso
fermiamoci e parliamone.” Le intimò Alessia. Non era proprio il massimo
discutere di certe cose correndo in bicicletta.
L’altra aveva
cambiato espressione. Niente più aria contratta e affranta. Tutto nel tentativo
di fermare le lacrime, ma sapeva che stava per scoppiare.
“Io non ho
niente da dirti.” Affermò inflessibile.
Alessia pensò
che fosse meglio lasciar perdere e continuare il discorso a casa, ma non le
riusciva proprio di vederla così. Aveva troppe cose da dire e temeva che se
avesse aspettando non ci sarebbe più riuscita. Così provò di nuovo.
“Per favore
fermiamoci.”
“No.” La secca
risposta, che ricevette. Michela non guardava più verso di lei.
Lei sbuffò
sonoramente “Allora ti parlerò qui. Davanti a tutti. In mezzo alla strada.”
“Fa’ come
credi.”
“Perfetto.”
Seguirono attimi
d’impalpabile silenzio. Tutto sembrava vuoto e nullo. I faggi scorrevano dietro
e davanti a loro. Il gorgoglio del fiume e il ronzio delle macchine riempivano
i loro pensieri. Girano dentro “Via Calvetti”.
Alessia si fece
forza. “Michela, devi capire che quello che è successo è tragico, ma noi
dobbiamo superarlo. Anche dopo tutto questo la vita continua. Non siamo le
prime e non saremo certo le ultime cui è accaduta una cosa del genere.”
Michela non
disse nulla continuava a pedalare senza volgere sguardi alla sorella, che così
decise di continuare.
“Sai la mamma,
in fondo, ha reagito bene. Ora lavora e noi siamo di nuovo una famiglia, ma tu,
Michi, ti sei chiusa, capisci?” Nonostante il tono non era una domanda. “Hai
paura degli estranei, di parlargli e non dire che sei timida adesso. Prima
parlavi con le persone, ora le fuggi. Parli solo con quella Lily che hai
conosciuto qualche mese fa…”
Michela la
interruppe bruscamente “Adesso è Lily il problema?! Prima t’incazzi perché non
me la sentivo di uscire con lei, ora non va più bene!?” Era fuori di sei e
urlava a dismisura.
Alessia la
guardò allibita.
Non adesso, Michi. Calmati.
“Michi…” alitò appena la ragazza con aria
supplicante.
Lei tacque,
riprendendo a respirare. Alcuni passanti le fissavano. Sentiva il volto in
fiamme.
Alessia non ci
pensò due volte e tornò alla carica. “Capisci cosa intendo? Sei diventata
strana.”
Tacque anche
lei, valutando se era il caso di continuare. Poteva essere pericoloso sulla
strada dov’erano prima, ma ora. Lì ogni tanto passava solo qualche autobus.
Così si
arrischiò a dire una cosa, che sapeva già avrebbe scatenato le reazioni più
avverse nella sorella.
“Tu eviti
chiunque sappia…”
Boom.
Michela frenò di
colpo. Immobilizzata sulla sella della sua bicicletta.
Alessia continuò
a parlare. “Ora è inutile, che fai quella faccia! L’altro giorno la mamma di
Lily ha fatto le condoglianze alla mamma per la morte del marito. Cioè, ma
Michi, ti rendi conto?! Dici ai tuoi nuovi compagni di classe che papà è
morto?!”
Il tono rigido
della diciassettenne, che poi era diventato tenero, si era indurito nuovamente.
Michela scoppiò
a piangere. Questo non impedì alla sorella di continuare ad aggredirla. Dirle
cosa sapeva della sua situazione l’aveva fatta arrabbiare. La stessa rabbia
provata quando la mamma glielo aveva detto.
Scese dalla bici
e tornò a dar contro alla ragazza.
“Michela, cazzo,
guardarmi! Non era solo tuo padre! Porca troia, anch’io ho sofferto e non
credere che la mamma non stia ancora male. La verità è che quell’uomo era un
bastardo infa…”
Lì s’interruppe,
aveva visto Michela muovere impercettibilmente le labbra.
“Cos’hai detto?”
Parlava ansimando, la sfuriata di poco prima l’aveva scossa. Sentiva il sudore
imperlarle la fronte. I suoi bei capelli castani si erano attaccati a essa.
Michela aveva il
viso distrutto era scossa da tremiti e singhiozzi. Un liquido biancastro le
colava dal naso e si mescolava con il sudore e le lacrime.
Si passò una
mano sulla faccia. “Ale stai zitta… torniamo a casa.”
“Come sarebbe a
dire stai zitta?!” Riprese a sbraitare.
“Michi, non so
se ti rendi conto, ma quel vile ci ha lasciate! Ci ha abbandonate e se n’è
andato con quella puttana!”
Una piccola
folla si era radunata a osservarle.
La quindicenne
aveva smesso di piangere. “Non parlare di lui in questo modo.” Intimò alla
sorella, la voce sempre piatta e strozzata.
“E come dovrei
parlarne? Come dovrei chiamarlo sentiamo?! Il caro papà, che si scopava una
troia tradendo la moglie? Così va meglio? Oppure il caro papà che ci voleva
talmente bene da scappare senza un saluto!?”
Michela non
calcolò neanche quello che la sorella aveva detto. “Stai zitta!” urlò
tappandosi le orecchie con le mani.
“Cosa cazzo vuol
dire stai zitta!?” Alessia era furibonda, le vene del collo si dilatavano
sistematicamente, non sembrava neanche più lei. Aveva dimenticato i buoni
propositi di far ragionare la sorella in modo civile e di riportarla a casa per
continuare la discussione.
La rabbia per la
fuga del padre. La rabbia per quel biglietto. Le tornarono alla mente gli occhi
della madre, lei non voleva piangere davanti alle sue figlie, ma era scoppiata.
Alessia l’aveva guardata mentre gridava straziata. Da quel giorno non l’aveva
più vista piangere.
“Vuol dire che
devi tacere! Tu e la mamma fate tanto le rassicuranti: la vita continua Michi,
che fine ha fatto Marco? E Federica? Perché non li inviti più a casa?” Una
pausa. Si guardò intorno, la gente le guardava costernata, alcuni ridevano,
altri si passavano una mano sulla faccia mestamente, quelli che sapevano.
Michela continuò
“La verità è che vi sentite in colpa!”
“Cosa?” La voce
di Alessia era glaciale.
“Vi sentite in
colpa perché quello che è successo è stata colpa vostra. Voi trattavate male
papà, la mamma non gli parlava quasi più, lo avevate isolato…”
Alessia si
avvicinò “Smettila, non sai quel che dici.” Le intimò, ma anche a lei la
minaccia suonò vuota. Una frase fatta senza significato.
Infatti, lei
continuò “…eravate due vipere! Lo avete fatto scappare voi!”
*****
Michela
Un sonoro
schiaffo la colpì in piena faccia. Michela sentì qualcuno trattenere un grido.
Portò una mano alla faccia, non c’era il solito formicolio, non avvertiva
nulla. Si sforzò per raddrizzare il collo e guardare la sorella. Poi un sapore
metallico, quasi ferroso, si abbassò di nuovo. Sputò sangue.
Quando
finalmente alzò lo sguardo, vide Alessia, la mano ferma a mezz’aria. Nei suoi
occhi non percepì il rimorso, che si era aspettata.
“Ascoltami
bene…” La sua voce non era più altera. Era ancor più rigida e gelida di quando
avevano iniziato a discutere appena fuori la palestra.
“Ale per favore…”
Non era stata Michela a parlare, la voce veniva da dietro Alessia. Apparteneva
a un ragazzo. Francesco.
Lei alzò una
mano, poi si girò a guardarlo, uno sguardo, Michela pensò, che non ammetteva
repliche.
Ricominciò a
parlare “E’ giusto che sappia. Non può continuare a vivere nella sua bella
favoletta. Non può inventarsi un mondo tutto suo.” Si rivolse di nuovo a lei.
“La mamma non ci dorme la notte. Hai capito, piccola stronza? E’ così che la ripaghi?
Dicendo che è colpa nostra o cazzate simili?”
Lei aprì la
bocca per controbattere, sempre quel sapore ferroso, ora iniziava a sentire la
guancia in fiamme. “Siete voi che non lo avete ripagato per tutto l’amore che…”
Un altro
schiaffo, poi un altro ancora. Stava aspettando il terzo, ma non sentì nulla,
solo Alessia urlare e dimenarsi sopra di lei.
“Lasciami!
Lasciami!”
Per la seconda
volta alzò la testa. Il viso davvero in fiamme. Vide la sorella sospesa a
mezz’aria. Francesco l’aveva sollevata di peso, lei continuava a dimenarsi.
“Adesso basta,
Ale. Calmati.” La voce rassicurante del ragazzo si confondeva con il vociare
della folla.
Per la prima
volta, da quando aveva gettato la bicicletta per terra, si guardò indietro.
Vide la Signora Navigli, un’anziana del suo quartiere con una donna che non
aveva mai visto, discutevano. Ogni tanto la donna si girava a guardare la scena
di sua sorella che sbraitava, si girò anche Michela, ma solo per un attimo. E
in quell’attimo ebbe paura.
Non l’aveva mai
vista così. Livida in volto, gli occhi iniettati di sangue la fissavano
insistentemente.
Un pensiero che
più tardi si pentì di aver formulato.
Quella mi ammazza.
Tornò a guardare
la Signora Navigli. Riuscì a cogliere frammenti della conversazione.
“…sa il padre se
n’è andato con…”
“…sì, sì…”
“…no la madre
era a pezzi…”
“…uno
psichiatra?”
“No, non ha
voluto…”
“…ma…”
“…era
inevitabile…”
“…e quello che…”
“No, per
carità…”
“Ma allora?”
“Probabilmente
non sapeva a chi incolpare. E’ sempre stata una ragazza strana.”
“Su via!”
“No, non
scherzo.”
“Signora…”
“No, no, mi
creda.”
“…sa, ma dopo
tanti anni…”
Michela avrebbe
voluto saltarle addosso. Come si permetteva? Che ne sapeva lei? Non era
riuscita a capire tutto, ma aveva capito che la dava della pazza.
Si rimise ad
ascoltare.
“…una brava
ragazza…”
“Scusi non…”
“E una moglie
amorevole!”
Alessia aveva
smesso di strillare.
La Signora
Navigli continuò il suo delirante
discorso, o almeno, era così che Michela, che ascoltava e stringeva i pugni, lo giudicava.
“Povera Lucrezia!”
“…certo che…”
“…almeno Alessia
è tanto brava.”
Michela non ce
la fece più. Si alzò di scatto, ma non si diresse verso la Signora Navigli.
Passò davanti a
Alessia, che si mise a urlare qualcosa. Michela s’impose di non ascoltare.
Francesco le sorrideva incoraggiante.
Lei si fece
largo tra la folla che la guardava a occhi sbarrati.
“Michi…”
Qualcuno la chiamava. Era Marco. Michela ebbe un tuffo al cuore. Era un anno
che non lo vedeva. Dopo la fuga del padre aveva chiuso i rapporti con tutti
quelli che sapevano. Tutti gli amici delle madie e delle elementari.
Era per questo
che si sentiva in soggezione anche con Machiavelli e Fiore.
Era per questo
che Lupin la trattava con freddezza. Lui aveva perso la madre, anni prima, ma
lui aveva reagito…
No, basta. Non ci devo pensare.
Inforcò la
bicicletta e si mise a correre.
Qualcuno la
chiamava. Voci arrabbiate, affrante, imploranti. Le intimavano di tornare
indietro.
Non diede
ascolto a nessuno.
Passò con il
rosso a un semaforo. Poi vide un bar, fu tentata di entrare e chiedere da bere
qualcosa di forte, ma non si volle fermare. Sentiva la necessità di scappare da
tutto e da tutti. Di seppellire il passato.
Non voleva più
sentir parlare di suo padre.
*****
Alessia
“Va meglio?” La
sua voce era calda e rassicurante.
Alessia sorrise
“Sì, grazie.”
Francesco si
sedette accanto a lei, su una panchina, dove di solito si aspetta l’autobus.
I curiosi
avevano iniziato ad andarsene.
Speriamo che nessuno abbia chiamato la
polizia.
Attorno a lei
qualche amico e conoscente. Francesco le passava una mano sulla schiena. Per la
prima volta, dopo lo schiaffo dato a sua sorella, si guardò intorno. Ad
attirare la sua attenzione fu Marco. Un tempo era il migliore amico di Michela.
Erano cresciuti insieme quei due.
Alessia si
ricordava ancora dei giochi di quando erano piccoli, quando rovesciavano i
cuscini del divano e facevano finta che fossero dei mostri da abbattere.
Correvano festanti in giardino con cappelli di carta sulla testa. Catturavano
le lucciole. Poi alle medie il tempo dei giochi era finito: ascoltavano musica,
andavano sul computer, facevano stupidi scherzi telefonici, prendevano un
gelato all’Alaska.
Le mancavano
quei tempi, eppure era passato solo un anno.
“Marco!” Provò
ad alzare la voce, ma sentiva la gola secca e dolorante, lui, però, capì tutto.
Si stava
avvicinando.
Alessia sospirò,
Francesco lo salutò con un cenno.
“Visto come
siamo ridotte?” La voce roca.
Marco sorrise
mestamente “Ale mi dispiace…”
Lei lo zittì “Lo
so, ma non è stata colpa tua.”
Non rispose, ma
era evidente che avrebbe voluto dire qualcosa.
Si passò una
mano fra i capelli.
Alessia aveva
preso a fissarlo
Forse lo metto a disagio.
“Bhe io andrei.”
“Come? Di già?”
Marco sorrise
ancora, sembrava meno tirato di prima.
“Non mi sembra
il caso di restare…”
Lei abbassò la
testa, il peso di ciò che aveva fatto cominciava a farsi sentire.
“Capisco. Non
dev’essere stato facile per te. Voglio dire, eravate molto amici tu e Michela.”
“Vuoi sapere
come mi sono sentito prima?”
Alessia era
diventata speranzosa, ma non avrebbe saputo dire in cosa sperava.
“Dimmi!” lo
incoraggiò.
Marco lanciò uno
sguardo a Francesco, che continuava a passare una mano sulla schiena di
Alessia. Lui non aveva più la sua amica, se n’era andata insieme a suo padre.
La sua Michela non esisteva più.
“Mi sembrava di
vedere due estranee. Era come se fossi tornato a casa aspettandomi di trovare
tutto nei soliti luoghi, ma al mio ritorno niente era più come prima.”
Fece una pausa.
“Non è colpa
tua, però. E Alessia, per quello che vale… Puoi dire a Michela che io per lei
ci sarò sempre.”
Alessia pensava
che quello sarebbe stato il momento giusto per piangere commossa, ma non ci
riuscì.
“Lo farò.”
Disse, poi guardò Marco che si allontanava.
*****
Fine.
Allora premetto che non piace molto
neppure a me questa one-shot. E’ nata parecchio tempo fa e ho iniziato a
scriverla durante un’ora di storia, poi mi sono stufata e l’ho ripresa circa
una settimana fa, cambiando, fra l’altro, buona parte della trama.
Credo che non ci sia altro da dire, come
al solito commenti ed eventuali critiche costruttive sono ben accetti.
Ringrazio subito, (non potendo farlo
dopo) chiunque, per prima cosa sia riuscito a finire di leggere la storia e,
secondo, decida di dedicare un po’ del suo tempo per recensirla.
Un bacio a tutti.