8.
Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night.
Birmingham (The
Magical City), Alabama, 18 Maggio 1977
Diciotto giorni.
Diciotto, maledetti,
giorni senza di lei.
Non un tocco, non un
suono. Bastano poche settimane senza una chitarra per mandarmi fuori di
testa e
a darci dentro con la solita merda. Poi riprende il tour, finalmente la
double
neck tra le mie mani ansiose e sudate, ed ecco che arriva, puntuale
come la
morte. L’errore. Una nota inciampa, poi due. Cambiamo
canzone. Di nuovo. Così,
fino alla fine del concerto, fino allo sguardo esasperato di Jonesy che
non sa
se continuare a sopportare o provare a trovare il coraggio per darmi un
calcio
in culo.
Bonzo sorride. Poi beve,
fine della storia. Dio solo sa in che condizioni è il suo
fegato, ma sono
l’ultimo che ha voce in capitolo al riguardo, specialmente
mentre ingurgito
l’ultimo sorso di Jack tutto d’un fiato. So solo
che John è l’unico a parlarmi
con gentilezza, così insolita per un orso come lui, e poi mi
solleva da terra
con un braccio, come se fossi un bambino, solo per vedermi ridere.
Poi c’è Robert e il
nostro solito tira e molla. Le sue lamentele sulle mie esibizioni sono
un’arma
a doppio taglio che feriscono entrambi, ma sono necessarie come punti a
carne
viva che chiudono una ferita rimasta aperta. Le difficoltà
ci allontanano, ma
ci ritroviamo per provare a scalarle. Insieme. Da soli saremmo persi,
non
sapremmo dove andare, piume perse nel vento che non sanno
più volare.
Silenziosamente, scendo
dal palco, gli applausi che ci accompagnano fino a quando John non
scompare nel
backstage, io che imbocco il corridoio verso i camerini, stanco. Poi,
un rumore
di passi, così mi volto a guardare, ma lo sguardo alle mie
spalle è troppo
basso per ricambiare il mio.
- Jonesy!
Solleva la testa, una
serie di rughe che va a ricamare il centro della sua fronte, in
un’espressione
di confusione così perfetta da farmi avvertire
l’irritazione tra le dita dei
piedi.
- Jim. – risponde freddo,
facendo per aprire la porta del suo camerino, ma io lo blocco, il mio
viso che
cerca il suo.
- Non vuoi guardarmi in
faccia?
Lo fa, con disprezzo. Per
non dire disgusto.
- Ti sembra una faccia,
quella? – chiede, indicandomi col mento – Io vedo
solo la maschera di un uomo
che gioca a fare l’onnipotente.
- Dimmi Jonesy, da quanto
tempo pensi questo di me? – chiedo, il mio tono di voce che
aumenta insieme
alla rabbia e la voglia di sferrargli un pugno in faccia.
- Da quando il James che
conoscevo ha abbandonato l’amore per la Musica per poter
amare solo se stesso.
– sputa fuori, la calma e la freddezza inglesi che da tempo
ho lasciato perdere
- Sei così preso dalla tua immagine che non ti rendi conto
di non averne più
una, di esserti lasciato solo il disegno di te stesso impresso nella
mente
malata che hai. Sei così impegnato a commiserarti che hai
anche perso le palle
per affrontarti. Guardati, James! Sei un fottuto morto che cammina!
– termina,
il fiato corto, la voce che inizia a diventare isterica, io che tremo
furioso –
Ed io non sono Robert, Jim! Io non verrò a farti da balia.
Fosse stato per me,
ti avrei già sferrato un calcio in culo e aspettato che tu
ti riprenda. – dice,
puntandosi un dito contro il petto, io che seguo ogni sua singola
parola sulle
sue labbra – Ma lui no. Lui dice che sarà la
Musica a guarirti.
- E tu? – lo interrompo,
per poi afferrare il colletto della sua camicia inamidata –
Tu cosa
consiglieresti, dottore? – chiedo sarcastico, a un centimetro
dal suo volto.
- Dovresti andartene in
riabilitazione.
- Io sto bene. – dico a
denti stretti.
- Sì? – fa, sollevando le
sopracciglia – Allora dimmi, da quant’è
che non senti Scarlet?
- Cosa c’entra Scarlet
adesso?
- Dimmi da quant’è che
non le telefoni, che non le mandi qualcosa, che non le scrivi una
lettera.
Dillo, Jimmy! – urla, prendendomi per le spalle, la sua calma
che va a pezzi
insieme ai suoi nervi – Non ci sei più per
nessuno, Jim, tranne che per te
stesso. Sul palco dimentichi le note, non improvvisi più
come un tempo. E
l’amore. Quello che t’illuminava gli occhi quando
ti nominavano la tua
principessa. – aggiunge, arrochito, mentre inizio a deglutire
solo per ignorare
il vuoto all’altezza dello stomaco – Non
c’è più. I tuoi occhi erano spenti,
vuoti mentre ti parlavo di tua figlia. Come puoi abbandonarla? Come fai
a
mandare tutto a puttane come se niente fosse, James?
E così dicendo mi
strattona via, aprendo e scomparendo dietro la porta del suo camerino,
facendola sbattere con tutta la rabbia che ha nelle mani, le mie che
tremano.
Con lo sguardo perso nel vuoto, inizio a cercare il mio camerino a
intuito,
trovandolo dopo una manciata di secondi, muovendomi come se fossi una
marionetta mossa da fili invisibili che, partendo dalle mie braccia e
dai
piedi, finiscono tra le mani di un cervello che ormai è
perso in un labirinto
di rimpianti, di cose e persone dimenticate, lasciate a metà
strada, mentre io
imboccavo quella che, secondo me, poteva condurmi verso quel firmamento
sul
quale avrei scritto il mio nome.
Mi rendo conto che John
ha ragione, mentre mi libero della mia dragon suite. Ripenso a Scarlet,
alle
telefonate mancate, ai gesti negati, troppo preso da me stesso e dalla
convinzione di fare sempre la cosa giusta. È
dall’inizio del tour che non sento
la sua voce, che non chiamo Charlotte per avere loro notizie, che
arrivo alla
reception di ogni hotel dando l’ordine di non farmi passare
nessuna telefonata.
Isolato, legato da una camicia di forza fatta da tutte le mie paranoie,
le mie
paure, in mano solo un rasoio di presunzione e autocommiserazione che,
invece
di liberarmi, mi taglia i polsi.
Respiro, mi faccio forza.
Al nostro ritorno in hotel, la reception è deserta.
Così, afferro una cornetta,
compongo un numero e subito un telefono dall’altra parte
dell’oceano prende a
squillare.
Uno.
Due squilli.
Il quarto segue il terzo.
Forse non sono a casa.
- Pronto?
Una vocina così acuta,
dolce, ma decisa. È il suono che fa la mia principessa
quando corre alla
cornetta più in fretta di sua madre. Nel petto, il mio cuore
ha accelerato i
suoi battiti.
- Scarlet! – balbetto, la
voce arrochita dall’emozione – Amore mio.
- Papà! – urla, quasi
posso vederla saltellare sul posto, tenendo la cornetta con due mani
contro la
testolina bionda – Papà, come stai?
- Bene, tesoro. –
sussurro, passandomi una mano tra i capelli – Adesso sto
bene. Tu?
- Benissimo, pà! –
esclama, per poi prendere fiato, il suo tono di voce che cambia
all’improvviso
– Papà?
- Dimmi amore!
- Perché non hai più
chiamato me e la mamma? – chiede, lasciando trasparire il suo
essere ferita
dalla mia assenza.
- Scarlet, papà non ha
avuto molto tempo … - mento. Mi faccio schifo.
- Non ci vuoi più bene? –
chiede, la voce che trema. Sta piangendo.
- Amore mio, non dirlo! –
dico, affannandomi – Papà ti ama. Lo sai. Sei la
mia vita, Scarlet.
- E allora perché non hai
chiamato? – domanda di nuovo – Sei arrabbiato con
me?
- Ma cosa dici, tesoro? –
chiedo allarmato – No! Perché dovrei esserlo?
- Perché non ti ho
salutato quando sei partito. – sussurra, tirando su col naso.
- Scarlet, ascoltami. –
dico, tentando di restare calmo, di trattenere le lacrime –
Cosa ti ho detto di
fare ogni notte?
- Di guardare le stelle.
– dice e quasi posso vederla asciugarsi le guance piene, il
labbro inferiore
sollevato in un broncio – Che lo avresti fatto anche tu,
così ci incontriamo.
- Giusto, piccola mia. –
dico, incoraggiandola - Non preoccuparti se non mi hai salutato. Io e
te ci
vediamo tutte le notti.
Non è convinta.
Dall’altra parte, Scarlet continua a singhiozzare in silenzio.
- E molte notti sono
venuto a trovarti. – sussurro dolcemente – Stanotte
per esempio!
- Davvero? – esclama,
stupita.
- Sì. – affermo –
Ogni
tanto vengo a trovarti nei sogni, non te ne sei accorta?
- È vero! – esclama
entusiasta – Stanotte eri qui! Andavamo a Headley Grange e
zio Robert mi
portava sulle spalle.
- E se non sbaglio, ho
intrecciato una corona di fiori per te!
- Sì! – dice, la voce
acuta più che mai – Era bellissima papà!
- Come te, amore. –
sorrido.
Penso che la mente umana
sia strana. Raccontandole un mio sogno, ho scoperto che era anche il
suo. Forse
l’anima davvero è in grado di viaggiare. O forse
è il sangue a tenerci uniti
anche con l’oceano in mezzo. Oppure la mente è
capace di grandi cose, anche di
combinare un incontro a occhi chiusi tra padre e figlia.
- Ci sogneremo anche
stanotte, papà?
- Certo amore. – prometto
– Tutte le notti che vorrai.
- Mi porterai a
Bron-y-aur? Voglio sedermi
sulla
sedia a dondolo di zio Robert e giocare a braccio di ferro con zio
John! –
esclama tutto d’un fiato, mentre dalla cornetta arriva la
voce di Charlotte che
chiama Scarlet.
- Prometto, Scarlet. – le
dico – Ora vai, amore, la mamma ti sta cercando.
- Va bene, pà! – sussurra
– Ti voglio bene. – aggiunge, con una
sincerità disarmante che mi stringe un
nodo alla gola. Ma riesco ancora a parlare.
- Ed io ti amo, piccola.
*
Quando entro nella mia
stanza, le palpebre si abbassano sotto la pesantezza del sonno, ma qui
l’aria è
irrespirabile, così decido di aprire la finestra sul cielo
dell’Alabama, così
nero, così trapunto di stelle da richiamare lo sguardo per
una notte intera.
Sorrido, penso a Scarlet, tutta la voglia di vivere che io ho perso,
sembra
quasi voler ricominciare a scorrermi nelle vene quando penso a lei.
Poi, un lampo, qualcosa
che si muove nella strada deserta e così abbasso lo sguardo,
la mia bocca che
si spalanca dall’incredulità.
È lei.
La riconoscerei anche al
buio.
Solleva la testa, sembra
quasi che abbia avvertito i miei occhi su di lei. Senza perdere tempo,
abbandono la stanza, quasi cado per le scale, ma quando sono in strada,
lei è
lì che aspetta, immobile, l’accenno di un sorriso
sulle labbra.
- Ciao James. – sussurra.
- Ciao. – sorrido,
l’istinto innato che mi spinge ad avvicinarla, ma lei, come
sempre, fa un passo
indietro – Che fine avevi fatto? – chiedo col
fiatone.
- Ho avuto da fare. –
risponde con naturalezza.
- Cosa? – insisto contro
la sua freddezza.
- Trovare il modo di
starti lontana. – dice, le sue guance che si colorano
teneramente, mentre un
fiore d’orgoglio mi sboccia al centro del petto.
- Mi fa piacere vedere
che non ci sei riuscita. – annuisco, passandomi la lingua
sulle labbra – Mi
dispiace per l’ultima volta. – aggiungo seriamente.
- Non preoccuparti. –
dice lei, inclinando la testa da un lato e incrociando le braccia al
petto – So
chi sei. Non mi ha sorpreso vederti in una situazione del genere.
– commenta,
con una semplicità che mi fa sentire mediocre, mentre mette
a nudo la mia
natura, fatta di presunzione e menefreghismo.
- Non darti delle colpe.
– sussurra, mentre mi accorgo di aver fissato il vuoto per un
po’ di minuti –
Sei buono, James. Il problema è che ancora non hai trovato
il modo di
dimostrarlo – Vieni con me. Parliamo.
Senza proferire parola,
la seguo, lungo un percorso che solo Grace conosce, fino ad un parco,
alberato
e silenzioso, la luna e le stelle unici lampioni accesi nelle
vicinanze. Dopo
qualche minuto di trance, mi accorgo finalmente di essere nei Birmingham Botanical Gardens, mentre il
profumo dolce e intenso di tutti i fiori che ci sono mi riempie le
narici. Mi
sembra di avvicinare un luogo segreto, sacro. È un qualcosa
che somiglia
all’entrare ad occhi aperti in un sogno.
Ma è la realtà e le
parole di Grace tornano a rimbalzarmi nella mente.
- Ho paura che tu ti stia
sbagliando. – dico – Oggi ho telefonato mia figlia
dopo due mesi di silenzio.
Le mancavo. Aveva paura che fosse colpa sua, che fossi arrabbiato con
lei.
Grace non risponde, mi
cammina accanto senza fare rumore, imitando i miei passi, mentre mi
stringo
nella mia giacca.
- Sono spregevole, Grace.
- E cosa proponi di fare?
– chiede, arrestandosi, sedendosi tra l’erba. La
imito, guardandomi intorno.
Gli alberi formano un cerchio perfetto intorno a noi, delineando quello
che
sembra il centro del parco. Il vento si è fermato, tutto
è quiete. Qui non
arriva nemmeno il rumore del traffico. Mentre dentro di me si scatena
una
tempesta di pensieri e sensazioni, qui intorno tutto tace, creando
armonia col
volto di Grace, disteso e paziente, in attesa di una mia risposta.
- Non lo so. – dico.
- Bugiardo. – dice
sarcastica – Il solito bugiardo. A furia di mentire, prendi
in giro anche te
stesso.
- Che ne sai? – chiedo,
più insicuro che nervoso.
- Basta guardarti, James.
– dice, mentre lo fa con un’intensità
che mi fa sentire nudo, stranamente
vulnerabile – Stai male e il tuo malessere lo trasmetti a chi
ti sta intorno.
Eppure rimani fermo, non fai nulla. Sai perfettamente qual è
la decisione più
giusta da perdere, ma ti rifiuti, perché sei così
dipendente da quei momenti di
invincibilità ed ebbrezza che dover smettere ti rincresce,
facendoti
dimenticare che continuando così non ti resterà
abbastanza da vivere per
poterne godere ancora di quell’effimera felicità.
Lo ha detto tutto d’un
fiato, il mio corpo che prende a tremare come una foglia.
- Perché? – chiede –
Avevi tutto. Talento, carisma. Eri bellissimo, James! –
sussurra, le sue guance
che tornano ad arrossarsi – E guardati ora. Sei debole, a
malapena ti reggi in
piedi e hai il volto scavato, deforme.
Serro la bocca, incapace
di aggiungere altro. Continuo a tremare, quasi mi stesse torturando
fisicamente
con ogni parola che esce dalle sue labbra.
- Non sei più tu. – dice,
aggrottando la fronte – Perché?
- Perché iniziavo a
sentirmi stanco, Grace! – esplodo, la mia voce che esce dalla
gola in maniera
innaturale mentre urlo – Perché non trovavo
l’ispirazione, perché non
sopportavo più di essere indicato come un infame, di vedermi
dipinto dei
peggiori colori su qualsiasi rivista. Ho solo una fottuta passione per
l’occulto, ma non sono quello che dicono loro. E non sono una
razza di pedofilo
depravato. Tanti altri si sono scopati ragazzine appena tredicenni!
– continuo,
le lacrime che iniziano a rigarmi le guance mentre sento le labbra
gonfiarsi
sotto lo sforzo del pianto – Volevo che mi ascoltassero.
Volevo solo suonare. –
ingoio saliva e muco ormai, mentre mi si apre il cuore e faccio uscire
qualsiasi cosa ci sia stata al suo interno – Poi
l’incidente di Robert, ho
avuto paura per lui, i suoi figli e la mia Scarlet. Loro in Grecia ed
io a
Londra a farmi come un dannato per tentare di scrivere qualcosa. A
Malibù,
Robert era immobile in un letto col bacino a pezzi e io non sapevo che
fare,
mentre Bonzo e Jonesy erano in Europa, fuori da qualsiasi problema.
–
singhiozzo, buttandomi le mani sul viso – E a volte penso che
venderei davvero
l’anima al diavolo per non sentire più tutte
queste voci intorno a me, che
parlano, parlano e non dicono un cazzo. Voglio solo un po’ di
pace, Grace.
Mi asciugo le guance con
le maniche, mentre tiro pesantemente col naso, Grace che mi guarda con
un’espressione affranta, ma comprensiva. Non
c’è condanna sul suo viso, solo
una tremenda voglia di fare qualcosa per me che le fa brillare gli
occhi. È
quello che sento, quello che provo mentre riprendo fiato.
- Questa vita grava sulle
mie spalle, Grace. – sussurro, stringendo i pugni –
Ormai non la vivo più da un
bel po’. Me la porto dietro e basta. – concludo,
per poi buttarmi contro
l’erba, la schiena che raggiunge il suolo con un tonfo, le
mie mani abbandonate
sul grembo.
Da quando è iniziato il
mio personale inferno, questa è la prima volta che mi sfogo,
che sputo
fuori le mie
amarezze, che mi sento
finalmente libero di frignare come un bambino e sentirmi sollevato, di
aver
diviso questo peso e di potermi, anche se poco, rialzare. Chiudo gli
occhi,
mentre sento un rumore alla mia destra. Erba schiacciata.
- Ti senti meglio?
Annuisco ad occhi chiusi
alla domanda di Grace.
- Sicuro?
- Sì. – dico, riaprendo
gli occhi, incontrando il cielo sopra di noi – Anche se
vorrei capire chi
diavolo sei. – sussurro, senza guardarla – A volte
ho paura che tu sia una mia
allucinazione, uno scherzo del mio cervello. – mi volto a
guardarla, giusto per
vedere che reazione ha, ma il suo volto è di marmo,
impassibile – Poi penso che
a Pontiac anche Bonzo ti ha vista e questo un po’ mi
rincuora. – dico,
accennando una risata di sollievo, ma lei no. Grace scatta a sedere,
gli occhi
sgranati puntati su di me.
- Che succede? – domando
allarmato, mettendomi a sedere anch’io.
- Nulla. – dice,
portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Non avrebbe dovuto
vederti? – chiedo, mentre altre mille ipotesi si delineano
nella mia mente.
- Non lo so, James. –
dice, scuotendo la testa e fissando il vuoto – Non lo so
più.
- Beh. – sospiro, vedendo
la sua faccia buffamente amareggiata – Almeno siamo in due ad
avere lo stesso
dubbio. – dico, tentando un sorriso, ma lei rimane
imbronciata, gli occhi blu
che saettano veloci. Sta cercando una spiegazione, ma ha tutta
l’aria di
esserne ancora lontana.
- Hey. – sussurro,
avvicinandomi un po’ - È tutto ok.
- No. Non lo è. – dice.
- Sì invece. – annuisco
–
A volte ho paura che tu sia una povera ragazzina che ha perso la
memoria e non
sa più dove andare, ma di certo non seguiresti me.
– dico teneramente, mentre
lei finalmente mi guarda – A volte credo che tu venga da
chissà dove. –
aggiungo, serio, facendola impallidire – Ma di certo non da
questa terra.
- E cosa ti sei detto? –
chiede, impaurita quanto me.
- Che preferisco non
saperlo. – dico, deglutendo pesantemente, mentre i nostri
occhi si chiamano, si
cercano e i nostri volti, inconsciamente si avvicinano.
- Non farlo, James. –
sussurra, a un passo dalle mie labbra.
- Perché?
- Ho paura di cosa
potrebbe succedere. – ammette, ma da come lo ha detto, non si
riferisce di
certo a cosa potrebbe accadere tra noi. Ma a me.
- Lasciami provare. – sussurro,
supplicandola, mentre intorno a noi cala una nebbia leggera, che fa
brillare le
punte dei fili d’erba e, all’orizzonte alle spalle
di Grace, le stelle sembrano
brillare più forte, quasi fossero fiamme incastrate nel
cielo. Ho un brivido di
paura, ma lo combatto, mentre una nuvola di fumo scappa dalle mie
labbra. Vista
da vicino, Grace è ancora più bella, la pelle
liscia, bianca. La sua intera
immagine richiama purezza, mentre una ciocca di capelli le ricade sul
naso.
- James… - sussurra.
- Shh. – la zittisco,
stringendo tra le dita alcuni fili d’erba –
Qualsiasi cosa accada, sarà meno
forte del rimorso che avrò per sempre se non lo faccio.
– sussurro, mentre le
sue guance che si colorano di nuovo e le mie labbra, tremando, si
poggiano
delicatamente sulle sue e si tendono in avanti. Ne cerco il sapore
sulla punta
della lingua. Sono dolci, quasi un frutto proibito, mentre iniziano a
muoversi
impacciate e innocenti, quasi non avesse mai baciato, quasi fossi il
primo uomo
che incontra sulla terra.
Grace, venuta da chissà
dove, fragile contro le labbra di un uomo che ha conosciuto tante
donne, ma mai
nessuna strana quanto lei. E mai, potrei giurarlo, ho sentito il cuore
così
presente, quasi facesse le fusa contro i muscoli del petto,
così felice di
battere e di vivere. E mentre le mie labbra si mescolano con le sue,
perdo
fiato e lo riprendo da lei. Intorno a noi l’aria si
è fatta calda, quasi come
se questo posto stesse cercando di nasconderci, di isolarci, creando
una bolla
in cui il tempo è sospeso e non esistiamo altro che noi due,
soli, piccoli,
labbra contro labbra. Riapro gli occhi, felice, e mi stacco da lei, che
mi
guarda confusa e poi mi sorride, quasi sollevata. Una luce tenera
invade i suoi
occhi.
- Visto? Siamo ancora
vivi. – dico, facendola ridere – Non è
successo niente!
- Già! – dice,
continuando a ridere piano, mentre osservo il cielo. La luce delle
stelle è
così intensa e grande che sembra ci stiano cadendo addosso,
come a voler
partecipare a questa strana unione, a questo bacio assurdo, che mi
porterò nel
cuore come il più bello della mia vita.
- Sono felice, Grace! –
confesso.
- Anche io. – dice di
rimando, sorridendo, quando noto qualcosa sotto il suo naso.
- Grace?
- Sì?
- Stai sanguinando. –
dico, indicandole il naso con un dito.
- Cosa? – chiede,
portandosi una mano alle narici, le sue dita che subito si sporcano di
rosso.
- Aspetta, dovrei avere
un f… - ma non faccio in tempo a terminare la frase, che una
riga sottile di
sangue prende a scorrere dalla sua tempia sinistra.
- Devo andare. – dice,
allarmata e scattando in piedi, tamponandosi il naso con una mano.
- Ma dove, Grace? –
chiedo, più agitato di lei – Tu… hai
bisogno di aiuto. – urlo, mentre lei mi
volta le spalle e scappa. D’istinto, prendo ad inseguirla, ma
qualcosa
intercetta il mio piede, facendomi inciampare e cadere a terra.
- Grace!!! – urlo, mentre
la vedo sparire tra gli alberi, la gonna che svolazza da un lato
all’altro dei
suoi fianchi.
Poi, una pesantezza scura
si accanisce sulle mie palpebre, un freddo incontrollabile e, senza
più sapere
chi o dove sono, abbandono la guancia contro l’erba, cadendo
in un buio
profondo.
Angolo della pazza:
Salve! ^^
Finalmente, non vedevo l'ora che arrivasse questo capitolo. *^*
Beh, potete immaginare perché. :'3
Ehm, nulla. Diciamo che da qui in poi si dovrebbero un attimo delineare
le cose. Forse. Dipende da quanto sarò capace di rendere "su
carta" ciò che ho in mente.
Bene, oggi sono in vena di ringraziamenti.
Innanzitutto, ringrazio Ire. Grazie perché m'incoraggi
sempre, ma prima di tutto incoraggia te stessa. Sai a cosa mi
riferisco. Spero che questo momento "no" passi in fretta, beddha! ♥
Ringrazio Zelda per le sue bellissime recensioni. Non solo
quelle pubbliche, ma anche quelle per messaggi. Sei un tesoro, davvero!
:*
Ringrazio Cimma e Slyth, le mie recensitrici "vedo, non vedo". Grazie
anche a voi! ^^
Grazie ad Idra, che ogni tanto spunta dal nulla. Rivederti qui mi fa
sempre sorridere, caVa.
E grazie a chi legge, segue e preferisce in silenzio. Certo, vedersi
qualche parolina nelle recensioni fa sempre piacere, ma vedere sia il
numero delle visite che quello delle preferenze crescere poco a poco mi
fa sempre piacere.
E ringrazio anche voi, che magari leggete ma non volete dire
nulla. E' anche per voi che continuo a scrivere. :3
Detto ciò, ESIGO (♥) che voi facciate un salto
sulla cara, buona, vecchia Sweet Old Desire. Io e Ire stiamo
buttando il sangue per quella storia e continuerò a
pubblicizzarla perché ci sono troppo affezionata.
Bene, ho detto tutto. Credo.
Un abbraccio,
Franny