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Autore: Candy Gandy    30/03/2014    0 recensioni
Il fastidio di una vita addosso che ti fa scrivere di getto, come non hai mai fatto. Giuro solennemente che non sono sempre così!
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Scrivo a te perché non so chi sei, ma sei l’unico che sa chi sono. Non ti immaginerò, non voglio sapere se hai i miei stessi occhi o lo sguardo di mio padre o le espressioni di mamma, non voglio sapere se sei tutto me o sei un po’ tutte le persone che sono entrate e uscite dalla mia vita, le stesse persone che mi sono incisa sulla coscia con quella lametta. Ti terrò relegato in un angolino della mia mente, ti proietterò sulle pareti del mio cervello come uno spiritello occupato a giocare con i miei sensi. Ti sentirò passare in mezzo ai miei ricordi e non farò nulla di concreto perché tu ne abbia di nuovi perché so che me li distruggerai, non te li meriti, dovresti penare nel bianco malsano, in solitudine, in silenzio. Dovresti scomparire, stupido alter ego, ma non puoi, quindi ti sopporto, aspetto la tua morte, consapevole che sarò l’unica a poterti ammazzare.
Penso tu sia l’unico a capirmi, per quanto sia il mio opposto. Sai come si dice, great minds think alike, siamo affini tu ed io. Tu mi capirai, sei lì, legato da catene di seta sulla pelle, sulle ossa, per comprendermi. Ho sognato di impazzire. Ero in una stanza buia con Sara, lei parlava in continuazione, non la smetteva, e io sapevo di avere uno sguardo perso nel vuoto e sconvolto. Ho iniziato a sentire una marea di voci che piano piano sono diminuite, fino ad essere solo due o tre, limpide e chiare, che dicevano di volermi segnare il palmo della mano del mio sangue con un coltello, una dolorosa linea che poteva essere pulita via con la lingua, inutile come me. Erano voci profonde, aspre, dure. Ho chiesto di smetterla, non so precisamente a chi, urlavo di piantarla o mi sarei spezzata ma Sara continuava e le voci anche, e sono crollata piangendo, implorando che si fermassero, il viso rigato di lacrime.
Il sogno finiva così. Ed è questo che mi fa paura. Finiva che sono impazzita, come una promessa.
Mi dicono che mi vedono più silenziosa in classe. Non sono mai stata così, dicono. Io non rispondo, non ho niente da dire, mi stringo nelle spalle, mi faccio marcire il cervello. Tra qualche mese si sentirà odore di carne putrefatta a metri di distanza. Sono taciturna e mi chiedono perché sono asociale, se sto bene, se ho dei problemi. E poi? E dopo che mi hanno sentito parlare cinque minuti si sentiranno meglio? Menomale che ci sono loro ad alzare la media di gente felice nel mondo, siete grandi. Non vi cambierà un cazzo, ve lo dico io. Danno per scontato che io abbia qualcosa, ma non ho più niente. Potrei usare la delusione amorosa come scusa, ma sono oltre quelle puttanate, me ne sbatto le palle, non è un dolore emotivo, è un malessere psicologico, mentale.
Sono piena di una rabbia in corpo che mi comprime il petto ogni singolo secondo, verso gli altri e verso me stessa, sono indignata, disperata, furiosa, potrei scoppiare da un momento all’altro, dovrei sfogarmi, picchiare qualcuno, fare boxe immaginando che ci sia la mia faccia a subire ganci. Sono stanca della mia età, sono stanca della routine, sono stanca della mia famiglia, di non parlare e sembrare sprezzante e snob quando lo faccio, di avere il sangue freddo, congelato nelle mie vene, di vergognarmi quando ho le lacrime agli occhi perché brucia ancora di più dello schifo che provo verso di me.
Chissà da quanto tempo sono così. Non ti svegli da un momento all’altro con questo mix di sensazioni, ma non so da cosa sia stato scatenato. C’ho provato a scrivere di nuovo e aggrapparmi alle lettere, ai libri, a Heathcliff. C’ho provato a ricominciare a correre tanto da stancarmi e pensare che non mi sarei arresa in quel modo, correre più veloce ancora e sfidare il vento, sentirmi libera nell’animo, nessun pensiero, nessun peso spirituale, solo io e due gambe che non si sarebbero fermate finché non si sarebbe fermato il mio respiro affannoso, sorridere a fine corsa.  C’ho provato a non aver paura. Ma la paura si è tramutata in paralizzante terrore, due polmoni in muscoli grigi e avvizziti, i libri sono diventati legna da ardere. Cenere alla cenere e polvere alla polvere.
Devo smetterla di parlare da sola, tento di intavolare una conversazione con qualcuno, che sia in italiano, in inglese o in tedesco, e mentre parlano di sé non riesco ad ascoltare, perché penso a come mi sono svegliata all’una di notte e da quel momento fino alle cinque ho guardato il soffitto. Pensavo fossero due minuti, e invece erano quattro ore.
Non so, forse devo trovare altre priorità, nuovi desideri, ambizioni più semplici. Non pensare di finire le superiori e trovare qualche lavoro nel durante per risparmiare e andarmene da questa casa, un affitto da pagare diviso con qualcuno, un gatto persiano, una stanza illuminata da un’enorme finestra, nessun pensiero alla macchina perché voglio essere vicina alla facoltà di Psicologia quanto basta per poter camminare tutti i giorni, lavorare quel tot di ore per tornare a casa e studiare quei tre probabilmente inutili tomi da trecento pagine l’uno,  dimenticarsi di mangiare e bere e dormire per vivere di notte, conoscere persone nella vita vera e incontrare quelle conosciute online negli after fatti di Tequila sale e limone e videochiamate su Skype, sorridere alla vita anche se sarà pesante da far schifo, accoglierla a braccia aperte, sputare sangue per realizzarmi. Forse pensare a questo mi fa male perché non vedo l’ora. Il cazzo di tempo, non basta mai, è così lento, cagionevole.
Sei uno stronzo, alter ego, sei più stronzo di me. Mi dispiace dover spegnere il tuo entusiasmo ogni volta che soffrirò. Sappi che con quelle medicine che presto prenderò, non saprò riconoscere più il dolore dalla gioia, non mi lascerò influenzare, avvizzirai con me. Andremo a fondo, ma quanto è profondo?
   
 
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