Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: _LilianRiddle_    30/03/2014    2 recensioni
Una lettera. Una morte. Due vite intrecciate, quasi divise, mai perdute.
Una storia di anime e di persone, di esseri umani che vanno avanti nonostante tutto. Nonostante la morte, nonostante la vita.
Dal testo: "Davvero, Mae. Io avrei potuto, avrei potuto. Non so che cosa, non so come, ma se mi avessi detto che mi amavi, forse sarebbe cambiato qualcosa. Forse, forse sarebbero cambiate tante cose. O forse no, conoscendoci non sarebbe cambiato niente. I nostri dettagli ci avrebbero fregate sempre e saremmo rimaste io e te, non un noi, non un uno, eppure una cosa unica lo stesso, perché siamo simili, ma completamente diverse, perché è stato difficile per tutte e due e che forse è giusto così.
Che forse se tu adesso stai bene, magari sto bene pur’io."
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Intoxicant - Maeve.
 


Cara Ita,
Lo so. Credimi, lo so. E mi dispiace. Mi dispiace, ma non ce l’ho fatta. E al diavolo tutti i discorsi che ti ho sempre fatto, su come il suicidio tolga la possibilità di migliorarsi, di andare avanti, di diventare qualcosa di migliore. E avevi ragione te, è stato così maledettamente facile decidere, scrivere questa lettera, le altre lettere. E sì, avevo ragione io quando dicevo che ci voleva anche tanta forza, tanto coraggio. Ma io non ne potevo più, davvero. Non potevo andare avanti così e questo forse non era l’unico modo, ma di sicuro era quello giusto per me.
Io t’immagino già, in fondo alla chiesa, arrivata in ritardo, perché di sicuro avrai pensato a lungo se venire o meno, se assistere alla cerimonia o no. E tutti saranno vestiti di nero, mentre tu avrai quel tuo vestito bianco che ti ho visto indossare solo una volta, di quel bianco che ti fa paura, di quel bianco che tu associ al vuoto e alla morte. E non piangerai come faranno tutti, non verserai neanche una lacrima, perché tu sei fatta così, preferisci sembrare forte sempre e comunque, preferisci andare a consolare qualcun altro, abbandonando te stessa da qualche parte in fondo alla gola. Non farlo, Ita. Non farlo, ti prego. Lo so che è difficile, lo so che io non l’ho fatto, non prendere esempio da me: lasciati aiutare. Lascia che le tue amiche, le mie amiche, lascia che ti aiutino. Tu sei troppo forte per te stessa, non distruggerti, ti prego. Perché lo so quello che stai pensando in questo momento, lì in fondo alla chiesa, nascosta sicuramente dietro a qualche colonna. Io lo so che ti stai dando sei mesi, sei mesi per superare il dolore, per ritornare a vivere e che se in sei mesi ancora ci pensi a me, allora è giusto farla finita. Non è così. Tu non mi dimenticherai mai, lo so io come lo sai tu. Io resterò sempre con te e a quest’idea ti devi arrendere. Che io non ci sarò più, ma tu rimarrai sempre la mia donna, come io rimarrò sempre la tua. Ma non chiuderti in te stessa, non lasciarti morire dentro. Perché ci sarà qualcuno che, un giorno, arriverà e ti farà innamorare di nuovo. Magari non domani, magari tra uno, cinque o dieci anni, ma arriverà e tu non lasciarla fuori solo perché sei la mia donna. Non lasciarla fuori solo perché hai deciso di rimanermi fedele, come le donne dei poeti trobadorici che, se i loro uomini morivano in battaglia, si chiudevano in convento. Tu sei sempre stata la prima a disprezzarle, che “va bene tutto il dolore del mondo, ma nel mare ci sono un sacco di altri pesci!”. Hai sempre detto così, quindi applica quello che dici e non restare sola. Tu ti meriti una famiglia, dei figli, qualcuno che ti ami tanto quanto ho fatto io.
E lo so che non te l’ho mai dimostrato. Che ti ho fatto tanto male, che ti ho allontanata, poi ripresa, poi ancora allontanata. Ma ti ho amata, ti ho amata in ogni momento e il mio unico rimpianto sarà sempre quello di averti tolto la possibilità di avere una vita insieme. Il mio rimpianto sarà sempre quello di non averti potuta baciare quando volevo, ma che mi sia limitata solo a sfiorarti, ad abbracciarti. Ti ho tolto tanto, forse troppo, e di questo non mi perdonerò mai. Però ti ho amata, ci siamo amate, a modo nostro, lo sai. Tu sapevi che io ti amavo e io sapevo che tu sapevi, quindi, insomma, scusami, ma penso che sia stato bello anche così. E lo so che tu non credi nell’anima, nel paradiso, nell’inferno e in tutte ‘ste cose qua, ma io ci credo, ci devo credere, perché pensare di non rivederti mai più mi distrugge più di tutto il resto, più di quanto immagini. E lo so che tu sei un’epicureista del cazzo e che non cambierai idea sull’esistenza dell’anima, che tu non ci credi e non ci crederai mai, ma io ci devo credere per poter morire, perché se no, forse, non ce la farei.
Siamo arrivate alla fine della mia vita, e lo abbiamo fatto insieme. Adesso andremo avanti con la tua vita, e faremo anche questo insieme, in qualche modo. Perché io sono intossicante e tu assetata, e da due cose negative nasce sempre qualcosa di bello. E  lo so che sei arrabbiata e che rileggerai queste mie parole mille e mille volte, che ci urlerai contro, che la strapperai, ‘sta lettera, che tanto le parole le saprai comunque a memoria, impresse dentro te. Resta arrabbiata, amore, tanto tu arrabbiata con me lo sei sempre stata, che io sono la tua bambina e che, anche se tu sei bambina come me, cresci sempre un po’ per curarti di me e sistemarmi i vestiti. Dovrai trovare qualcun altro a cui sistemare i vestiti, tesoro, e sono sicura che sarà come sistemarli a me, anche se tu non ci credi.
Un bacio, amore, ti aspetto in quest’altra vita,
Maeve.
 
***
 
Venerdì 25 luglio 2014.
- Una rosa bianca, per piacere. – disse alla signora.
La donna dai capelli rossi le porse il fiore e lei le sorrise come sempre aveva fatto nell’ultimo mese.
Si avviò lungo il vialetto costellato da tombe e raggiunse quella in fondo alla fila centrale.
 
Maeve Monroe
10/09/1997 – 18/06/2014
“Ma molti fuggono la morte talvolta come il più grande dei mali, talvolta la scelgono come cessazione dei mali nella vita."
- Epicuro.
 
Rileggeva quella frase tutte le volte, sempre, ce l’aveva impressa a fuoco negli occhi, nel cervello, nello stomaco. Si sedette davanti alla tomba e appoggiò delicatamente la rosa sopra di essa.
- Ciao, Mae. – disse. – Sono sempre io, Ita. È un mese che il tuo corpo è in decomposizione e che tu non ci sei. Mi manchi, devo ammetterlo, anche se fa male. Mi manchi e oggi la prof ha detto una frase, una frase con un palese doppio senso e io mi sono girata verso il tuo banco, lo abbiamo fatto tutti, aspettavamo la tua battuta, aspettavamo la tua risata, ma tu non c’eri e c’è stato un attimo di silenzio, un momento di stupore nel realizzare che non eri andata in bagno, che non c’eri proprio più, che non saresti apparsa da un momento all’altro ridendo. E Clare è scoppiata a piangere e tutti erano così stupiti che non si muovevano e Clare continuava a piangere e io la guardavo e ho pensato che tu non avresti mai permesso che lei soffrisse così, era la tua migliore amica, così mi sono alzata e l’ho portata in bagno. Non siamo mai state grandi amiche, io e lei, ma l’ho abbracciata lo stesso, non sapevo che fare, e le ho raccontato che vengo da te tutti i giorni, sempre alla stessa ora, che ti lascio una rosa bianca, che parlo ad un corpo in decomposizione della mia giornata e poi me ne vado, tentando di trovare la forza per tornare alla vita di sempre, ma che non so che cosa vuol dire “la vita di sempre”, perché non ho mai avuto una vita normale tra disordini alimentari, autolesionismo e istinti omicidi.
Non penso che tu voglia questo per me. Non mi taglio più da un po’. Non mi sono mai tagliata troppo, lo sai che capitava solo quando perdevo veramente il controllo. Adesso lascio che la mia mente mi uccida. Lentamente, senza alcuna fretta. L’altro giorno ti ho rivista. Eri tu, tra la folla, e io ti sono corsa dietro e più correvo, più scappavi e, anche se ti chiamavo, non ti fermavi. Mi ci è voluto un po’ per capire che era solo frutto della mia mente, che tu non ci sei più e che non tornerai di certo, perché il tuo cuore ha smesso di battere da un pezzo e i tuoi polmoni, i tuoi organi, non funzionano più da un mese, ormai.  E niente, sono rimasta ferma in mezzo alla folla per un po’, trattenendo il respiro, perché ti giuro che il dolore era troppo. Anche respirare faceva male e la gente non se ne accorgeva. Poi una bambina mi si è avvicinata e mi ha dato una caramella e lo sai che a me non piacciono le caramelle, però l’ho presa lo stesso che un sorriso così bello, bello come il tuo, non l’avevo più visto da quando ti sei uccisa. Mi ha detto di non piangere che ero bella e poi se n’è andata e io solo in quel momento ho capito che stavo piangendo, manco me n’ero accorta, tanto il dolore mi aveva assalita.
E niente, Mae, è difficile senza di te. È maledettamente difficile e io non so come farò. Io non ce la farò, lo sai. Non riuscirò a fare quello che mi hai detto tu, non ce la farò proprio, ma tu avevi fiducia in me, tu mi credevi e quindi tenterò di farcela, ma questo mese è passato lentamente e se tutti gli altri saranno così io non so proprio se ce la farò. L’idea di non rivederti mai più mi uccide. Mi scava dentro, come facevano i brucotarli in Eragon. Ma non posso credere che ci sia qualcosa dopo la vita, non posso credere nell’esistenza di un’anima. Non posso. –
La ragazza stette zitta ad osservare la foto per un po’. Una lacrima le scese lungo la guancia, ma nessun’altra le uscì dagli occhi, nessun’altra s’infranse sulla sua maglia.
Sospirò, rapida, e passò una mano sulla foto della ragazza che, sorridente, la guardava immortalata dall’obbiettivo della macchina fotografica. Poi si alzò e, senza più guardarsi indietro, andò via.
Come tutti i pomeriggi.
 
Sabato 1 novembre 2014.
- Ciao Mae, oggi ho una sorpresa per te! – disse la ragazza tentando un sorriso. Era tanto che non sorrideva. – Sono venute a trovarti Clare, Marthe ed Emely. So che ti sarebbe piaciuto e così le ho portate qui. Io me ne vado per un po’, così potete parlare tranquille. Torno dopo. –
Si allontanò lentamente, avvicinandosi alla fioraia. Notò allora una piccola bimba che avrà avuto non più di sei anni, dai ricci capelli rossi. Era la stessa bimba che mesi prima le aveva sorriso quando lei cercava disperata tra la folla Maeve.
- Ciao. – le disse la bimba sorridendo.
- Ciao. – le rispose Ita, un poco imbarazzata. C’era qualcosa, in quella bambina, che le ricordava Maeve. Forse quella luce che scorgeva in fondo agli occhi della bimba.
- Come ti chiami? – chiese la piccola.
- Ita. Tu? –
- Enea. -
- È un nome importante, sai? –
- È un nome profondo, da vagabonda. Proprio come l’Enea della storia. –
Ita sorrise, ma non rispose. Guardò lontano, oltre le tre persone che guardavano silenziose la tomba di Maeve, oltre il cimitero, oltre a tutto, e rivide lei e Maeve in un tempo lontano, parallelo, a curarsi e a distruggersi a vicenda.
- Mamma dice che sei un’anima triste. –
- L’anima non esiste, Enea. –
- Mamma dice anche questo. Che non credi nell’anima. Però la persona che amavi ci credeva, perché tu non ci credi? Se ci credessi potresti sperare di rivederla, no? –
- Così sarebbe troppo semplice, non trovi? –
- Pensavo di sì, prima che morisse il mio gattino. Si chiamava Neve ed era tutto bianco, proprio come la neve. E prima che morisse io pensavo che gli esseri umani non avessero un’anima, perché non possono avere un’anima quando fanno tutte queste cose cattive che si vedono. Ma quando è morto Neve e ho pianto, ho capito che un’anima ce la dobbiamo avere anche noi, perché facciamo i cattivi solo per nascondere agli altri che siamo buoni. È che siamo un po’ stupidi, noi esseri umani. Per questo c’è la neve, e i gatti bianchi, e il sole. Per ricordarci che abbiamo un’anima e che queste cose le ritroveremo anche nel posto in cui va un’anima. Così, quando io morirò, la mia anima ritroverà Neve e il sole e tutte le altre cose belle, così sarò ancora felice. –
Ita stette in silenzio per alcuni minuti, con gli occhi chiusi per non far cadere le lacrime. Poi li riaprì, sorrise alla bambina e le fece una carezza sui capelli ricci.
- Sai, Enea, se mai avrò una figlia, la chiamerò proprio come te. –
 
Giovedì 25 dicembre 2014.
- Nevica, Mae. Nevica da due settimane, ormai. La neve tra un po’ mi sommerge, mi toccherà nuotare, lo sai che sono bassa.
Nevica, Mae, e tutto è bianco. Ed è Natale, oggi è Natale, ma a me non sembra Natale, perché manchi tu. Non potrò mandarti gli auguri, sperando in una tua risposta, ansiosa.
Nevica, Mae, e sono passati sei mesi da quando te ne sei andata. Ma non è vero che te ne sei andata. Tu sei ovunque, ovunque, in tutto. Sei a scuola, sei a casa, sei nei libri. Oggi ho ritrovato una ricerca che ci aveva assegnato il prof di storia, sai, quella che m’era venuta bene, quella che mi piaceva tanto, che ti avevo ripetuto all’infinito, che non ne potevi più di sentirmi parlare. E niente, c’era un tuo cuoricino. Sopra quella ricerca ci avevi disegnato un cuore, un cuora scrauso, che tu non hai mai saputo disegnare i cuori, proprio come me. Che noi due su tante cose eravamo diverse, ma su questa proprio no. Che se c’è una cosa che non ci veniva proprio erano i cuori e io mi sono sempre chiesta il perché, di questa cosa, perché un “perché” c’è sempre. E tu mi dicevi che chi faceva un cuore così “scrauso” voleva dire che ce lo aveva bello dentro. Io ti ho sempre creduta. Tu avevi un cuore molto bello, tutto ammaccato. Io no, io non ce l’ho un bel cuore. Ho pensato davvero di uccidermi. Ci penso sempre, è un pensiero fisso. Però, però penso che andrò da uno strizza-cervelli, che mi farò aiutare.
In classe è sempre difficile. Clare va meglio. Da quando è venuta a trovarti penso che abbia accettato il fatto che tu sia morta, che tu sia un cadavere. Piange di meno, anche le altre, si stanno tutte riprendendo, lentamente. Adesso non fanno più caso ai doppi sensi delle frasi, a tutto ciò che fa ripensare a te. Nessuno si ferma più ad attenderti, nessuno scoppia a piangere. Tirano dritti, pensando che in questo modo il dolore sia più sopportabile. Magari è così, ma rischiano di dimenticarti. Io non voglio dimenticarti. Io voglio ricordare il colore dei tuoi occhi e il suono della tua voce e il profumo della tua pelle. E se c’è una frase con un doppio senso alzo la testa e guardo il tuo banco, non ci posso fare niente, mi viene naturale, come respirare. Che ripeto, tu sei morta, ma mica te ne sei andata.
Ah, e a questo proposito, io sono incazzata con te, Mae. Ti giuro, ti sei scelta la via più facile. Semplice morire, no? Diventare un corpo freddo, abbandonarsi all’oblio e amen, chi s’è visto s’è visto. Semplice, davvero. E gli altri? Io lo so che tu ci hai pensato, lo so che doveva sembrarti davvero l’unica possibilità, quella giusta per te, io lo so. Ma, Cristo, potevi lasciarmi provare. Io avrei potuto salvarti. Io avrei potuto trascinare avanti la vita di tutte e due, avrei potuto farlo senza problemi, lo sai che sono forte, io, che da bambina sarei diventata adolescente, e adulta, e vecchia, pur di farti andare avanti. Perché non mi hai lasciata provare? Non mi hai dato alcuna possibilità, stronza. E te l’ho detto, penso sempre di farla finita, di farmi fuori e basta, ma sarebbe troppo semplice e lo sai che a me le cose semplici mica sono mai piaciute, perciò penso che non mi ucciderò, non lo farò. Forse per ripicca, forse per buonsenso, ma non voglio uccidermi. Cioè, vorrei, ma qualcosa mi blocca, all’altezza della gola, e sai che le sensazioni che passano per la gola non vanno ignorate, quindi niente suicidio. M’incazzo con te che è meglio, almeno mi scarico.
Davvero, Mae. Io avrei potuto, avrei potuto. Non so che cosa, non so come, ma se mi avessi detto che mi amavi, forse sarebbe cambiato qualcosa. Forse, forse sarebbero cambiate tante cose. O forse no, conoscendoci non sarebbe cambiato niente. I nostri dettagli ci avrebbero fregate sempre e saremmo rimaste io e te, non un noi, non un uno, eppure una cosa unica lo stesso, perché siamo simili, ma completamente diverse, perché è stato difficile per tutte e due e che forse è giusto così.
Che forse se tu adesso stai bene, magari sto bene pur’io. –
 
Venerdì 18 gennaio 2019.
- Ciao Mae. Oggi è il mio compleanno, ne ho 21. Il tempo è passato in fretta. E anche se è passato, io sono seduta davanti alla tua tomba come tutti i pomeriggi.
Sono passati cinque anni. Cinque, sono tanti. Sembrano pochi, ma sono un’eternità. Ancora mi domando come cazzo ho fatto a passare la maturità che c’era greco e lo sai che io il greco mica lo so tradurre. Comunque adesso faccio medicina. Divento un chirurgo pediatrico e poi parto per l’Africa, o per l’Afghanistan o per qualche altro paese di guerra. Che tanto se la guerra ce l’ho dentro tutti i giorni e sono ancora viva, quella fuori con armi e carrarmati posso affrontarla senza problemi. Quindi niente, medicina è difficile, volevi farla pure te, saresti stata bravissima, lo so. Saresti stata portata per neurochirurgia, sicuro, avevi mani troppo belle. Me le ricordo ancora. Le tue mani lunghe e affusolate, magre. Avevi le mani da donna, mani da donna, certo, ma eri una bambina. La mia bambina. E io, io che ho sempre avuto delle mani minuscole, io, insomma, io sono sempre stata grande. E sono grande anche adesso.
Ieri sono andata ad una festa. Dopo tanto tempo, Clare è riuscita a convincermi. Siamo diventate amiche, saresti contenta di noi. E niente, ero già stufa ancora prima d’entrare. Sai che le feste a me non sono mai piaciute, mentre a te piacevano tanto, che bevevi e fumavi e ti divertivi. Vabbeh, ma ormai ero lì, così mi sono messa in un angolo, con un whisky e soda, come quelle dei vecchi libri che leggo io. E niente, stavo lì e ho fumato un sacco di sigarette perché mi è venuta un’improvvisa nostalgia di te, totalizzante, come non mi succedeva da settimane e dovevo calmarmi e distrarmi e tentare di non pensare a te. A te che non ci sei più da cinque anni. Che sono tanti, eh. Proprio tanti. Così io stavo lì ad osservare la gente e ad un certo punto è arrivato un ragazzo. Che mi ha guardata. Ti giuro, Mae, io uno sguardo del genere non lo vedevo da anni. Sembrava quasi che sapesse quello che mi passava per la testa, sembrava che avesse intuito della nostalgia che mi aveva imprigionata.
“Vieni fuori, dai.” mi ha detto. Ora, io davvero non sarei andata con lui, ma quei suoi occhi chiari in qualche strano modo erano così tanto simili ai tuoi che io, davvero, non ho saputo dirgli di no. Così mi ha portata sul balcone e si è acceso una sigaretta.
“Fumi?” mi ha chiesto. Ho annuito, ma mica gli ho rivolto la parola. Troppo sconvolta. Mi ha offerto una Marlboro Gold, Mae. Mi ha offerto una delle tue sigarette, tu fumavi solo Marlboro Gold e io mi sono sentita morire. Avrei voluto buttarmi giù e, non so come, mi sono ritrovata a piangere. Cioè, sono scoppiata a piangere davanti ad uno sconosciuto, cosa mai vista, sto aspettando la pioggia verde da quando mi sono alzata, ‘sta mattina. Comunque, niente, lui ha fatto una cosa del tutto imprevista e in parte non voluta.
Mi ha abbracciata. Io non mi facevo toccare da cinque anni. Da quando sei morta, nessuno mi ha più sfiorata, o baciata, o abbracciata. E sono rimasta un po’ interdetta, ma poi l’ho abbracciato anch’io e tutte le lacrime che non ho pianto in tutti questi anni li ho pianti ieri sera abbracciata ad uno sconosciuto. Ridicolo.
Comunque, appena ho finito di piangere mi sono staccata. Lui si è appoggiato alla balaustra.
“Mi chiamo Doran.” mi disse senza guardarmi.
“Perché l’hai fatto?” chiesi io, che sai che vado subito al punto, quando ho paura.
Lui mi guardò, con quei occhi azzurri che mi ricordano tanto i tuoi, anche se i tuoi erano scuri come la pece. Distolsi lo sguardo appena incrociai i suoi occhi. Non potevo sopportarlo, davvero.
“Perché so che cosa vuol dire non saper guardare una persona e non riuscire a divertirsi alle feste. Perché so cosa vuol dire essere preda della propria mente. E perché so osservare. E tu sembri essere un libro estremamente interessante.”
Questa volta lo guardai io, Mae, non avrei potuto fare altrimenti.
“Mi chiamo Ita.” gli ho detto. –

Martedì 18 giugno 2024.
La donna appoggiò il bouquet sulla tomba e strinse la mano all’uomo biondo in piedi di fianco a lei. Aveva i lunghi capelli liberi e il vento ci giocava creando onde che subito districava. Un sorriso malinconico le illuminava il viso e il lungo vestito bianco di pizzo la rendeva eterea.
- Ciao Mae. Oggi è un giorno importante. È il tuo compleanno, auguri tesoro. Avresti compiuto ventisei anni, avremmo festeggiato, magari ti avrei anche portato la colazione a letto. Non ho mai saputo se ti sarebbe piaciuto che qualcuno ti portasse la colazione a letto, ma secondo me sì, ti piaceva essere coccolata e a me piaceva coccolarti. E niente, mi sono sposata. Ho un vestito di pizzo bianco, penso che non ti sarebbe piaciuto, io e te non andavamo mai d’accordo sui vestiti. Come sulle altre cose. Non andavamo d’accordo e basta. E l’uomo biondo a cui stringo la mano, che indossa lo smoking, è Doran.
Avevi ragione te. Alla fine è arrivato qualcuno, proprio come avevi detto. Gli ci è voluta tanta pazienza, ma alla fine ce l’ha fatta. Mi ha tirata fuori dalla mia testa e mi ha rimesso al mondo. E lo so che saresti stata gelosa, per questo ti dico che lui lo sa quanto tu sia importante per me. Lo sa che io sono la tua donna, non ti preoccupare. Anche se suppongo che un cadavere non si possa preoccupare.
Lui crede nell’anima, proprio come te. E cerca sempre di convincermi che esiste, ma nessuno ci riuscirà mai. Sono votata all’epicureismo, ma lui ancora non si arrende. È testardo, ti sarebbe piaciuto, anche se non avete molto in comune. A parte gli occhi. Lui ce li ha azzurri, azzurri come il cielo di oggi, azzurri come il ghiacciolo all’anice, come uno zaffiro. E tu ce li avevi scuri, scurissimi, una macchia d’inchiostro infinita. Ma i suoi occhi hanno una luce, una luce che avevano anche i tuoi, di occhi, Maeve. E questo li rende simili, incredibilmente simili.
Sono passati dieci anni. Tu sei morta da dieci anni e oggi ci sarebbe anche la tua messa, sai, in tua memoria. Ma io non ci andrò. Non ci andrò perché non ne ho bisogno. Perché tu sei dentro me. Sei dentro me da sempre. È che sei sempre stata dappertutto. Sui banchi, sui libri a scuola, sul quaderno di matematica, sugli autobus, sulle filo, sulla metro. Sei sempre stata sulla panchina davanti a casa mia, sullo scivolo del parcheggio davanti al supermercato, sul mio comodino. Sei stata le lacrime versate sul cuscino la notte e i sorrisi mostrati al cielo durante il giorno. Ci sei stata quando ho esultato per una partita vinta, un bel voto a scuola, un’interrogazione andata bene, una giornata di sole passata a casa con gli amici. Sei sempre stata il mio pensiero fisso, il mio libro preferito, la mia canzone preferita. È che, da quando non ci sei, io ti ho lasciata un po’ ovunque. E quel vuoto che hai lasciato, quello, non si è riempito mai, e non si riempirà mai. Ma io ho imparato a conviverci. Che io adesso ho Doran e lui ha me e io lo amo, anche se non glielo dico spesso. Sai che non credo nelle parole. Credo nei gesti, credo nel corpo. Quello non mente mai. Tu non hai creduto al tuo, tu non hai creduto al tuo corpo, perché se no saresti ancora qui. Io non avrei mai incontrato Doran e forse oggi ci saremmo sposate io e te.
Ma questo non ha più importanza, ormai. Io e te siamo state quello che dovevamo essere, quello che potevamo essere con le poche forze che avevamo. Ed è andato bene così, non ne sono mai stata convinta, ma adesso lo so. Quello che siamo state andava bene. Noi andavamo bene. Funzionavamo poco, ma andavamo bene. E siamo state una cosa bella, bellissima. E strana, stranissima. E anche complicata, complicatissima. Bella. Una cosa bella. E adesso, adesso so essere una cosa bella anche con Doran, che mi dona il sorriso che ho sulle labbra, che mi ha fatto accettare la tua morte, che mi ha trascinata avanti finché non sono riuscita a camminare con le mie forze. E ho tentato di smettere di fumare, ma non ci sono riuscita, però ho fatto la dieta, sono dimagrita. E tra un po’ prenderò la laurea e diventerò un neurochirurgo, anche con le mie piccole mani di bambina. Doran ha le mani grandi, da uomo, come le tue erano da donna.
E niente, verrò sempre a trovarti, verrò ogni pomeriggio e ogni pomeriggio ti regalerò una rosa bianca, come ho sempre fatto. Ma non ti amerò più come prima. Ti amerò sempre, ma in modo diverso, perché io sono diversa, perché io sono cresciuta, adesso, e non ho più bisogno di essere una bambina, adesso posso essere me, senza problemi. Posso essere adulta, pur mantenendo quello che sono stata e il mio essere una bimba sperduta. Posso amarti, adesso, e smettere di amarti per amare Doran. E sarà amore vero, verso entrambi. Perché lui è il mio uomo, ma tu sei la mia donna.
Ed è giusto così.
Perché se tu stai bene qua, dentro di me, io sto bene là, dentro di te. –
 
***
 
Cara Maeve,
Mi chiamo Maeve anch’io. Mi chiamo anche Enea, ma sono soprattutto Maeve. Sono la figlia di Ita, la tua donna. Mamma mi ha raccontato di te quando le ho chiesto che cosa significava il mio nome. Maeve significa “intossicante” e io pensavo che fosse una cosa brutta. Poi, invece, mi ha raccontato di te. E ho capito che essere intossicante non è una cosa brutta, e che devo trovare anch’io qualcuno assettato, come mamma, per capire che cos’è l’amore. Perché il nome di mamma significa “assetata” e lei era assetata di te, lo è sempre stata, e lo è ancora e lo sarà per sempre, anche se ama papà con tutta se stessa. A volte è molto triste. Si perde dietro qualche pensiero, dietro qualche granello di polvere e non c’è più. Papà mi ha spiegato che ha bisogno di essere incredibilmente triste, a volte, e che quando capita non bisogna disturbarla perché mamma deve provare emozioni forti per restare viva e che la tristezza non è una cosa brutta. Aiuta ad andare avanti e ti da una visione delle cose diversa.
Ho sedici anni. Ho la tua stessa età, ma io non voglio morire. Sto bene, sono felice. Non ho mai avuto gli stessi problemi di mamma, me ne ha parlato, le ho chiesto di quando era giovane e lei mi ha parlato di quello che ha passato, di te, della tua morte, del suo dolore. E mi sono sentita un po’ in colpa, perché ho sempre pensato che non provasse sentimenti, che fosse una stronza senza cuore, perché ho sempre visto le madri delle mie amiche che le coccolavano, che davano baci e abbracci ai loro mariti e ai loro figli. Mamma, invece, non ha mai fatto niente del genere, niente smancerie, niente dolcezze. Adesso ho capito perché. Adesso ho capito che come ama lei, non ama nessun altro. Ho capito che lei la dolcezza la da in modo diverso, ma che è pur sempre dolcezza. È dolce a modo suo, lei. Fa tutto a modo suo, quella donna. A volte la bambina sembra lei e io e mio padre i due adulti. A volte diventa così vecchia che sembra avere dentro di sé tutta la saggezza e il peso del mondo. A volte riesce ad essere anche se stessa, però rimane sempre pazza.
Io non sono come lei. Io sono calma, riflessiva e dolce. Dice che il mio tipo di dolcezza le ricorda molto il tuo e che nonostante tutto siamo molto più simili di quanto pensasse. Dice che a volte le ricordo te, anche se sono bionda. Dice che ho i tuoi occhi. Sai, questo è pesante da accettare. Assomigliare a qualcuno che non c’è più e che le persone a te care hanno amato più di sé stesse è una responsabilità immensa. Ti sento dentro, anche se non ti ho mai conosciuta, e questo mi fa paura. Una fottutissima paura. Sento che ci sei, che sei presente, ma non so come esserti utile, non so cosa vuoi. Forse vuoi solo vegliare su di me, e questo mi rassicura.
Sai, spero proprio che tu sia finita in Paradiso, che la tua anima sia lì, perché così prima o poi potrò conoscerti. Mamma dice che se l’anima esiste e che se esistono anche Inferno e Paradiso, di sicuro io e te non c’incontreremo mai, che tu sarai nel girone dei suicidi descritto da Dante e io in qualche cerchio del Paradiso. Così ho dovuto darle ragione – lei vuole sempre avere ragione – e ho deciso di scriverti questa lettera. Che magari Dio lascerà che tu la legga, così come sono sicura che hai ascoltato tutte le conversazioni di mamma. Mia madre dice che non ho speranze e che tu sei solo un mucchietto di ossa in fondo alla bara, ma io credo che la tua anima possa leggere la mia lettera. Perché io ti voglio bene e in qualche modo tu sei dentro di me. Io sarò la parte migliore di te, se lo vorrai, così come sarò la parte migliore di mamma e di papà.
Così niente, questo è quello che ti chiedo. Cioè, che ti dico. Io ho già deciso. Tu sei parte di me come sei parte di mamma.
Perché io sono Maeve. Proprio come te.
Tua, Maeve.










Note dell'autrice:
Buonsalve a tutti! Eccomi qua con un'altra storia (non uccidetemi, finirò anche la Dramione, prima o poi).
E niente, era un sacco che non scrivevo qualcosa di così triste, ne avevo proprio bisogno. 
Spero che vi piaccia, io devo scappare!
Un bacio,
Lilian <3
 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: _LilianRiddle_