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Autore: hikachu    30/03/2014    1 recensioni
I Gold Saint tra infanzia ed adolescenza, negli anni prima della Notte degli Inganni.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nastri bianchi sulle braccia, o: cicatrici (Aphrodite, Saga, Aiolos)



C'era un muretto che costeggiava parte del prato intorno alla sua Casa.

All'inizio, Aphrodite aveva creduto si trattasse di una protezione per le rose dalle suole di quelli che si arrampicavano su per il colle, diretti alla Tredicesima, ma un esame più attento gli aveva svelato le rimanenze di pilastri e la linea irregolare di mattoni mancanti o spezzati sotto i licheni, simile alla bocca marcescente di un uomo che ha perso tutto e inizia a disfarsi mentre ancora è in vita. Aphrodite conosceva bene quelle bocche sdentate e ancora di più conosceva quegli uomini disperati, accovacciati nell'angolo buio di una strada a cercare conforto in una bottiglia di liquore da quattro soldi, oppure vestiti eternamente a festa, a sorseggiare champagne da flauti che producono un suono quasi magico quando ne accarezzi l'orlo con un dito. Cercavano freneticamente un motivo per potersi dire gli uni migliori degli altri; volevano, insomma, la conferma della propria felicità nel constatare l'infelicità altrui, sebbene in segreto, forse anche a riparo dai loro stessi occhi, si invidiassero. Capitava infatti, quando Aphrodite passava tra le mani di quei signori impegnati in una specie di festival senza fine, che lo lasciassero spesso nei maglioni slabbrati e sbiaditi, decisamente troppo grandi per lui, che aveva raccattato per strada per difendersi dal freddo; ne ammiravano gli occhi e i capelli, e la pelle nascosta dallo sporco di giorni e giorni passati a dormire all'aperto; si intrattenevano in un gioco di indovinelli, dove il mistero da scovare erano le ossa sporgenti nascoste da strati di lana sudicia. Quanto peserà? Da quanto dici che non mangia? Se non gli diamo niente, riuscirà a sopravvivere la settimana? Beh, se vuol qualcosa dovrà imparare a chiedere. Farfugliavano dietro una mano mentre con eleganti bastoni da passeggio seguivano le linee dure dello sterno od un'anca. Erano mostri sfavillanti e Aphrodite desiderava che morissero tutti. Quando poi cadevano preda della noia, lo lavavano e lo vestivano e lo rimpinzavano di dolciumi di cui Aphrodite non avrebbe nemmeno conosciuto l'esistenza, altrimenti, e sembrava allora che avessero riscoperto in lui un gatto randagio, o qualche costoso cane di piccola taglia da accudire con amore. Talvolta invitavano degli straccioni con la promessa di un pasto caldo sotto la guisa di beneficenza, ma in realtà si divertivano a guardarne gli occhi che si riempivano di una fame diversa, ed invidia, quando si posavano sulla piccola sirena che sedeva, docile, sul grembo del padrone di casa. Talvolta, invece, lo avvolgevano in deliziosi abiti da bimba, con gonne vaporose e veli e delicato, bellissimo pizzo lavorato a mano in Italia. Erano quelli gli unici momenti in cui, guardandosi allo specchio, Aphrodite riusciva a pensare a se stesso oltre il presente, chiedendosi se crescendo sarebbe assomigliato a sua madre.

Di lei ricordava ben poco a dire il vero, eppure, l'impressione di un volto morbido e veramente bello era vivida nella sua memoria. Se glielo avessero chiesto, Aphrodite – che, in realtà, all'epoca non era ancora Aphrodite – non avrebbe saputo dire se avesse ereditato qualcosa da lei, eccetto per il neo sotto l'occhio che gli conferiva un'aria capricciosa e sofisticata anche dopo essere caracollato in una pozzanghera di fango durante una giornata particolarmente piovosa. Non sapeva con che nome l'avesse chiamato e non sapeva in che modo si fossero separati, ma siccome l'unica cosa che possedesse di lei, oltre alla consapevolezza che fosse bella, erano i ricordi vaghi di baci sui capelli e abbracci caldi e soffici, Aphrodite credeva fermamente che dovesse essere morta; forse, aveva fantasticato una volta o due, l'avevano uccisa perché lei si rifiutava di darlo via. Sua madre non l'avrebbe mai tradito, perché era la prima cosa veramente bella che avesse mai conosciuto in vita sua.

La seconda era Saga.

 
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“Il nuovo arrivato?” chiese Aiolos intorno ad un boccone di carne speziata. Parlava a voce bassa e non gli si addiceva, ma Aiolia era crollato nel suo letto, dopo gli allenamenti, e i templi sacri mancavano di porte e Aiolos non voleva disturbarlo.

Saga si lasciò cadere su una delle sedie di legno con un sospiro. “Dorme. A terra, sul marmo. Ho cercato di metterlo a letto, ma è sgattaiolato via di nuovo non appena ho fatto finta di allontanarmi.”

Aiolos rise. “Il cambio di clima è stato difficile anche per il piccolo Camus, ma vedrai che si abituerà.”

“Camus si sforzava di dormire nel proprio letto.”

“Sì, perché Camus ha sempre cercato di comportarsi più come un adulto che un bambino.”

Vi fu un momento di silenzio in cui Saga parve studiare il viso dell'altro, poi le proprie mani, ben aperte sul tavolo come farfalle da collezione, ferme per sempre su una tavoletta di sughero. Si sentiva impotente.

“Non è forse questo quello che chiediamo ad ognuno di loro?” disse infine.

Aiolos mormorò: Saga, ma non disse altro poiché sentiva che qualsiasi parola avesse lasciato le sue labbra in quel frangente sarebbe stata una menzogna.

“Gli ho detto...” Saga schiarì la voce, che suonava troppo debole, prima di riprendere: “Gli ho detto che qui sarebbe stato al sicuro, ma in lui vedo la stessa bellezza dei giovinetti del mito che finiscono inevitabilmente in tragedie più grandi di loro. In lui vedo Giacinto, di cui una volta mi parlò il Sommo Pontefice.”

“Oh sì, ricordo, ero lì anch'io.”

“E ricordi come finì?” domandò Saga, vedendo che Aiolos ancora sorrideva. Pensava, certo, ai giorni prima dell'investitura, in cui era loro concesso di ruzzolare per i colli come bambini e di ridere come bambini.

“Morì disgraziatamente, per caso.”

“No. Morì perché era bello, e Apollo non voleva altro che quella bellezza. Per lui Giacinto era un fiore da osservare, assaporare ed infine cogliere. Non ne pianse la morte perché non ve ne era motivo. Era, dopotutto, il momento che aveva permesso a Giacinto di sbocciare, l'apice di un estetismo a senso unico.”

“È come se nella tua bocca le parole si rimestassero e le vecchie storie fiorissero in qualcosa in qualcosa di molto più splendente e molto più tragico al contempo.”

“Per favore, Aiolos, considera seriamente ciò che dico.”

“Ma è perché ho grande rispetto per te e ciò che dici, amico mio, che questo tuo modo di parlare mi preoccupa. Tu sai bene che siamo stati chiamati dalle stelle a servire una causa, e che la nostra dea non ci chiederebbe mai il sacrificio delle nostre vite, sebbene questo sia imprescindibile dalla vita di un Santo.”

“Non ti accade mai di temere per Aiolia?” A Saga capitava di pensare a Kanon, alla vita di Kanon, uno strisciare furtivo di ombra in ombra, una vita a metà, e si sentiva colpevole e confuso perché, perché mai la Dea avrebbe permesso una cosa simile?

La luce sanguigna del tramonto disegnava ombre e forme sgargianti sul pavimento. Non vi erano finestre nella stanza; essa colava, languida, dal salone attiguo, come acqua che straripa da un calice già pieno. Aiolos sembrò scrutare quelle forme astratte per un po', come a volerle imprimere nella mente per chissà quale motivo. Saga lo conosceva abbastanza bene da sapere che un simile interesse per ciò che lo circondava non rientrava nella sua natura; Aiolos stava prendendo tempo. Avrebbe potuto dirlo ad alta voce, scoprire il compagno e metterlo in scacco, ma sarebbe stato troppo crudele, e meschino per di più. Prese allora un fico dal cesto al centro del tavolo. Era morbido e fresco nel suo palmo. Quando Saga l'addentò, la polpa rossa gli colò tra le dita e per un istante solo vide, nella sua mente, un'orribile immagine di morte, troppo sfuocata, però, perché gli fosse possibile capire se si trattasse un ricordo sbiadito o di un presagio futuro.

“Saga,” Aiolos disse infine. “Ricordi quando il Grande Sacerdote ci disse che seguire il proprio destino significa vivere bene? Se cercassimo di evitare tutto questo, finiremo come Edipo che inconsapevole realizza il fato tanto disprezzato: tragico, ma non solo. È innanzitutto miserabile.”

“Meglio perire al culmine di una vita onorevole che in disgrazia e tra ulteriori sofferenze, è dunque questo ciò che affermi?”

“E tu, pensi forse che potresti vivere serenamente, sapendo che migliaia di innocenti vanno incontro ad una morte che tu, con la forza degli astri, potresti evitare loro?”

A quella domanda, Saga sentì il respiro che veniva a mancare. Gli riuscì di soffiare un no, e poi null'altro. Consumò il resto del fico in silenzio; era insapore, ora, sgradevole perché si attaccava al palato e al fondo della lingua, pesante e viscido. Credette di aver in qualche modo inghiottito la poltiglia sanguinolenta che gli era apparsa di fronte agli occhi poco prima, e ci mancò poco che rigurgitasse sulle proprie vesti e il tavolo di Aiolos.

“Saga,” lo chiamò questi, con dolcezza, mentre si chinava in avanti. “Hai della polpa proprio qui,” disse, e con un dito gli sfiorò l'angolo della bocca, esitandovi in una maniera che era del tutto nuova ad entrambi.

Non vi era via di scampo, né da quella vita, né da Aiolos. Saga sorrise.


 
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C'era un muretto che costeggiava parte del prato intorno alla sua Casa, poi, un giorno di diversi anni fa, Aphrodite aveva scoperto che si trattava dei resti di quella che un tempo era stata un'altra costruzione: forse, un'estensione dello stesso sacro tempio dei Pesci. Aveva rinvenuto i capitelli degli altri pilastri tra le radici dei roseti e aveva lasciato che le rose continuassero a crescervi e a coprire, che l'età nuova soppiantasse quel che era stato prima di lui.

C'era stato un periodo in cui la calura greca non gli dava tregua e Aphrodite, a detta di qualcuno, pareva un fantasmino sul punto di svanire nell'immagine tremolante dell'orizzonte. Si accoccolava sul pavimento del tempio e dormiva lì, con la guancia premuta contro il marmo alla ricerca di un po' di sollievo, augurandosi sogni sereni. Di recente, invece, sognava la cerimonia d'investitura che si sarebbe tenuta di lì a poco. Sognava il potere e la sicurezza e le vestigia, e, talvolta, Saga.

Quando sognava Saga ricordava sempre di come l'avesse preso per mano e, con parole che l'Aphrodite dell'epoca non avrebbe potuto capire, aveva saputo rassicurarlo. Sognava dunque di ricordi, e poi sognava il futuro che non di rado si tramutava in incubi in cui il cloth lo rifiutava nell'arena gremita e Saga, che sedeva alla destra del Pontefice, si alzava e lasciava la platea senza mai voltarsi indietro per rivolgergli un ultimo sguardo.

Ma il Saga reale era lì, che scalava gli ultimi gradini prima della dodicesima casa e gli sorrideva orgoglioso.

“Mi concedi di passare, nobile Aphrodite dei Pesci?”

“Non è ancora ufficiale!” disse con una voce che si alzò e si spezzò in una maniera che lo fece suonare ben più giovane di quanto non fosse. Aphrodite se ne vergognò immediatamente, ma Saga non si scompose.

“Eppure lo sarà presto, no?”

Aphrodite chinò il capo: aveva le guance calde, certamente arrossate, e non voleva che l'altro le vedesse. Annuì come uno sciocco quando gli venne chiesto il permesso di attraversare il tempio per la seconda volta.

“Ti ringrazio. Mi faresti compagnia nella traversata?”

“Certo!” gridò senza ritegno, più Milo dello Scorpione che l'altero Aphrodite dei Pesci, e balzò sul muretto che era in realtà ciò che restava di un'altra costruzione, perché Saga era già tanto più alto di lui e Aphrodite desiderava, anche solo per un poco, di potergli camminare accanto come suo pari.

Non lo accompagnò sino all'inizio della scalinata per la tredicesima casa, poiché avrebbe significato ritornare coi piedi per terra, e lui voleva concedersi questo sogno, così diverso dagli incubi che lo attanagliavano di recente, quanto più a lungo possibile. Saga, il misterioso Saga, il saggio Saga, ne sembrava in qualche modo consapevole: si voltò rispettoso quando giunsero alla fine del muro, e posando una mano sulla spalla di Aphrodite – anziché sulla testa, come avrebbe fatto con uno dei bambini – gli augurò che il difficile cammino che si apprestava ad intraprendere gli fosse quanto più lieve possibile, e che egli potesse vivere tenendo sempre alta la propria testa, evitando le azioni ed i pensieri che avrebbero addolorato Atena.

Poi, Aphrodite restò immobile, in un equilibrio precario sui mattoni diroccati a fissare il bianco manto di Saga agitarsi nella brezza mattutina, fino a che la sua figura imponente non venne inghiottita dall'ingresso degli alloggi del Pontefice.

Prima ancora che la Dea, era quella schiena che avrebbe seguito, poiché Saga era la seconda cosa veramente bella che avesse mai conosciuto in vita sua. E sarebbe stata anche l'ultima.
   
 
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