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Autore: Sen    31/03/2014    4 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il Fiore e la Spada


Le fiaccole illuminavano la scalinata che conduceva alla grande arena laterale dove si stavano tenendo le festività in onore della dea Athena Promachos, la prima in battaglia.

Eranthe ammirava le composizioni che avevano preparato il giorno prima e sistemato nel tardo pomeriggio, appena la calura della prima estate era scemata tanto quanto bastava a non far avvizzire i petali all’istante.

Agathê era estasiata, fluttuava con grazia spostandosi tra le tavolate del grande banchetto. Il sorriso che si addolciva, le gote appena un po’ più rosate, quando Albafica dei Pesci l’aveva avvicinata con la scusa di complimentarsi con lei per l’ottimo lavoro delle decorazioni floreali.
Vicini senza neppure sfiorarsi, lei persa in un sentimento troppo intenso, lui nella paura del suo stesso esistere.

Un movimento accanto alla fontana, appositamente attivata per l’occasione, la fece voltare. El Cid stava conducendo la giovane Francine al di là dei giochi d’acqua, accanto agli alberi.

Gli occhi severi abbozzavano un sorriso, quelli di lei erano raggianti. Le mani unite, intrecciate, le labbra assetate di quei baci che erano solo per lui... solo per lui.

Eranthe li osservava in disparte, senza essere vista.

In fondo, nella sua condizione, lei aveva avuto fortuna.

Certo, non conosceva l’amore platonico di Agathê, né tantomeno quello romantico di Francine, ma aveva una figlia che le aveva rivelato il segreto dell’amore assoluto, trascendentale, del quale le aveva parlato sovente la nonna.

Quando era poco più di una ragazzina, la saggia Areia le aveva svelato di come, lì a Rodorio, esistessero le donne libere, quelle che avevano la possibilità di scegliere: sovente si ritrovavano invischiate all’interno di quel mondo dorato con il rischio, concreto, di rimanere con il cuore spezzato.

E poi c’erano loro.

Le donne di tutti e di nessuno, che imparavano, col tempo e l’esperienza, ad indossare un’armatura attorno al cuore, ancora più resistente e impenetrabile di quelle fulgide corazze d’oro.

Sole ma forti, a testa alta, con gli occhi scuri puntati al mare e al cielo.

Così era stato, per lei.
Anche quando il suo mondo era esploso ed il sangue aveva smesso di scorrere, consolatorio.
Anche quando lui era arrivato, una sera, con quel cosmo spaventoso e la nonna gli aveva spiegato che, no, lei non poteva più servirlo, non ora. Che sarebbero state ad Atene a trovare dei parenti. Gli aveva sbarrato la strada con la forza delle sue mani ossute e i suoi capelli scuri stretti in una rigida treccia alla base del capo. Aveva guardato nei suoi occhi di tempesta e lui, sì, lui aveva capito.

Ma lui, che, esattamente come lei, aveva sempre vissuto nell’ombra, ad Atene c’era andato, eccome. Seguendo quel piccolo universo che era arrivato dal nulla, le aveva stretto le mani, e la vista del sangue non gli aveva mai fatto male come in quel momento.

“È figlia mia”, aveva risposto ai suoi occhi stupiti, e la nonna aveva riso, di pancia e di cuore, come aveva fatto più di vent’anni prima, di fronte al padre di Eranthe.

E quando sua nipote era crollata, fiaccata dal parto, Areia aveva affidato a lui la neonata, che sembrava ancora più piccola e bianca tra le sue braccia possenti. Quando lei si era svegliata, ore dopo, alla vista del guerriero imponente che stringeva tra le braccia una neonata, sua figlia, aveva sentito qualcosa agitarsi nella sua anima, che aveva scalfito, un poco, le sue difese. Qualcosa che si era affrettata a rinchiudere e ignorare per sempre.

Forse non lo sai ma pure questo è amore...*

“Ehi, mamma, andiamo a vedere Athena?”

Eranthe annuì seguendo l’entusiasmo della figlia, si avviò verso il banchetto principale, facendosi largo a stento tra le persone assiepate attorno al tavolo della dea.

Poi la vide, con i suoi colori tenui e le gote arrossate dal vino e dagli sguardi. Il sorriso gentile, umano, così dannatamente simile a quello di ogni ragazza che lei aveva incontrato. La pelle diafana, il vestito candido e quel cosmo di luce che risuonava dentro di lei.

“Vieni Dimitra, andiamo a giocare con Kostas e gli altri bambini, vuoi?” La bambina annuì, gli occhi ancora abbagliati da quella bellezza trascendentale che seguiva la dea.

E lei provò l’irrazionale timore che, da un giorno all’altro, qualcuno la guardasse e riconoscesse in lei un possibile nemico, una minaccia.

Strinse le spalle come infreddolita nella notte calda e umida.

“Nonna, controlla Dimitra, per favore, faccio quattro passi...” Areia sorrise annuendo, mentre la nipote si allontanava dal banchetto, verso la scogliera.

L’aria salmastra della notte che spirava dal mare le diede un rapido sollievo; i pensieri ingarbugliati parevano distendersi e dipanarsi, così come il senso di vertigine che l’aveva investita, attimi prima. Bevve un sorso dal bicchiere ghiacciato che teneva in mano, godendo della luce delle stelle.

Kalisperà, Eranthe.”

Le stelle risuonarono, come un allarme.

“Nobile Aspros.”

Neppure si voltò verso quella voce e quell’uomo così maledettamente pericoloso. Rimase immobile anche quando lui si sedette, accomodandosi sulla roccia accanto a lei.

“Via, via!”, rise lui, per nulla infastidito. “È così che si saluta un vecchio amico?”, scherzò circondandole le spalle con un braccio.

Questa volta ottenne un’occhiata di fuoco.

“Sono passati così tanti anni. E poi”, concluse lei alzandosi di scatto, “devo tornare. Buon proseguimento.”

Ma lui le bloccò il passo, il suo corpo come ostacolo, le sue braccia ferme sulla roccia appena sopra le spalle di lei.

“Direi di no. Suggerisco che tu ora faccia la brava.” Si avvicinò a lei, che voltò il viso, il respiro sempre più veloce.

“Credevo lavorassi ancora, o forse mi sono sbagliato?” Rise ai suoi occhi dilatati, quegli occhi che riuscivano a leggere così chiaramente l’oscurità dentro di lui. “Ah, ho capito adesso!” Le strinse il mento in una morsa d’acciaio, costringendo i suoi occhi a tuffarsi in quelli di lei. “Io sono troppo, per te! Povera piccina!” Si fece di colpo serio. “Tu scopi solo la feccia, come quei soldati da quattro soldi o mio fratello.”

La baciò, ignorando il morso che gli aveva fatto sanguinare un labbro o le unghie che cercavano di graffiarlo. Una mano corse a strapparle la veste, quando un colpo che sapeva di fuoco lo fece barcollare. Un secondo lo fece rovinare a terra.

“Sei arrivato alla fine, dunque?”, mormorò asciugandosi il mento imbrattato di sangue.

“Vattene Aspros.” La voce roca, graffiante e profonda attutita dalla maschera, gli occhi indaco infuocati dalla rabbia.

Il gemello maggiore rise, sguaiato, rialzandosi.

“Stavo giusto tornando alla celebrazione”, sputò. “Sono stufo della spazzatura come voi!”

Eranthe si rese conto di stare trattenendo il respiro, solo quando il suo corpo protestò per la mancanza di ossigeno, costringendola ad un singhiozzo.

Entrambi, lei e il suo improvvisato salvatore, stavano osservando la schiena possente del Santo dei Gemelli sparire oltre gli alberi.

“Stai bene?”, le chiese Deuteros**, roco. Lei annuì, sorridendo, tornando a sedere sulla roccia, lo sguardo perso verso il mare.

“Grazie”, mormorò, sapendo che, tanto, lui l’avrebbe udita comunque. “Non è nulla di nuovo. In fondo sono una puttana. C’è sempre qualcuno che crede di potersi prendere quello che vuole, a prescindere dal luogo e dal momento.” Sospirò cercando di impedire alla voce di rompersi seguendo le emozioni che si agitavano dentro al suo petto. “E poi stasera non sono qui per lavorare.”

Lui la guardò, serio, le sue parole, troppo veloci, gli scivolarono addosso.

“Stai tremando”, constatò poi, sedendole accanto.

Lei alzò lo sguardo verso i suoi occhi, in subbuglio, proprio come quando entrava nella sua stanza, nelle notti senza luna.

“Anche oggi la indossi?”, mormorò, ansiosa di cambiare argomento, allungando le mani ai ganci della maschera che gli copriva il volto.

“Tanto, cosa cambia? Non posso partecipare alle celebrazioni del Tempio, lo sai.”

Un rumore secco, un respiro, e la fastidiosa costrizione cadde al suolo.

“Hai paura di Aspros, che è un Santo d’Oro”, asserì cupo. “Ma non ne hai di me.”

Lei rise, di cuore.

“Oh, no. Ne ho avuta anche di te. Eccome!” Si passò una mano tra i capelli chiari stretti nell’acconciatura. “Ma tu…” Lo guardò, dritto negli occhi. “Tu sei differente. Sei nato dal Caos, ma, luce o tenebra, non nascondi ciò che sei.” Sospirò. “Il primo a temere se stesso è proprio tuo fratello, invece.”

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Deuteros recuperava la maschera con lentezza.
“Ho visto Dimitra giocare, prima.” I capelli selvaggi celavano il suo viso. “Sta crescendo.” Lei sorrise, fiera. “Ha il tuo carattere incendiario”, concluse, concedendogli un mezzo sorriso al quale lui rispose con il suo solito ghigno.

Eranthe, in tutti quegli anni, non lo aveva mai visto sorridere, nemmeno una volta; Deuteros non era vulnerabile nemmeno quando, sopra di lei, perso nel bianco assoluto reclamato dal suo corpo, ringhiava, gutturale, le labbra serrate, le mani strette nelle lenzuola, le membra tese, i muscoli contratti.

Si alzò porgendole la mano.

La aiutò in piedi stupendosi, come sempre, di quanto la propria pelle fosse pallida e fredda in confronto alla sua, brunita dal sole.

La guardò ancora negli occhi, attirandola contro di sé, senza l’urgenza delle notti di ombra.

“Chi sei stasera, Eranthe?” La domanda vibrò nel suo petto, contro la guancia di lei che alzò il capo per sorridergli.

“Solo una donna, Deuteros”.

Lui annuì, serio, poi le si avvicinò sigillando con le labbra le sue parole e chiudendo il suo vero volto dietro la maschera.

Tornò a casa più tardi, quella notte; con la bambina beatamente addormentata portata sulla schiena, il suo respiro che le solleticava il collo, spostandole i capelli, chiarissimi, che le erano sfuggiti dall’acconciatura.

La nonna Areia, per una volta, aveva perso la sua aura di saggia e composta vecchina e ora, completamente ubriaca, si lanciava in stonati ritornelli antichi di almeno mezzo secolo.

Eranthe rise, sistemando meglio Dimitra e accingendosi ad aprire la porta di legno azzurro della casupola al limitare del villaggio.

Non si accorse, come sempre, dell’uomo d’ombra che seguiva il suo cammino, discosto, dai tetti delle case.

Non seppe mai che, da quando era nata loro figlia, lui non l’aveva mai lasciata sola.

 

 

Lo scompiglio che attraversava la Casa dei Piaceri di Melina si poteva udire fin dalla piazza del mercato.

“Eranthe, corri, corri!”, la esortò Agathê dal banco in legno all’esterno del suo negozio, e suo padre le sorrise bonario.

“Cosa è successo?”, cercò di farsi udire lei, mentre l’amica la strattonava per un polso, correndo ad una velocità improbabile lungo le vie laterali.

“Una cosa bellissima!”, si voltò Agathê, talmente repentina da farle perdere il già precario equilibrio. “Sapessi!”, concluse portandosi le mani al volto arrossato e facendo una piroetta su se stessa.

“Ah!”, sospirò con un’intensità da fare invidia ad un’attrice di tragedie. “Potesse capitare anche a me una cosa del genere!” I suoi occhi si fecero brillanti.

“Ma cos...” Eranthe era sempre più perplessa, ma l’altra la interruppe.

“Andiamo! Cosa stai a perdere tempo!” E via di nuovo, strattonata da quella ragazzina di rose, dall’insospettabile forza erculea.

Arrivarono da Melina senza fiato per la corsa, Agathê bussava mentre lei si massaggiava il polso segnato dalla presa fatale di quelle piccole, innocenti dita.

La formosa Filothea andò ad aprire in una nuvola di profumo.

“Ahhhh!”, fu tutto ciò che Eranthe udì prima di essere travolta da un turbine di rosa e porpora e fatta accomodare su un divano tra le due ragazze.

Fu solo parzialmente conscia del fatto che zia Melina stava fumando sulla comoda poltrona a fianco, mentre la ragazza francese sedeva di fronte alla finestra. La pelle diafana recava un gentile rossore.

Qualcuno stava parlando, Eughenìa, dalla pelle scura e i capelli corvini.

“Adesso che ci siamo tutte, puoi anche continuare!” la esortò.

In un attimo l’attenzione di tutte fu catalizzata dalla ragazza minuta.

Francine alzò gli occhi. Sì, tutte le ragazze che conosceva erano assiepate nel salone della casa dove lavorava.

Sorrise, offuscando il sole stesso con la sua gioia.

“Ieri sera, al banchetto in onore di Athena, El Cid ha chiesto la mia mano.” Abbassò gli occhi all’anulare, su cui spiccava un cerchio d’oro. Poi lo sollevò, facendo brillare il dono alla luce del sole. “È un pezzo della sua armatura. Shion ha acconsentito a farlo apposta per me.” Sorrise mentre dagli occhi scendevano la prime, timide lacrime.

“Quanta scena!”, scherzò Deidara, dai capelli fulvi. “Poteva semplicemente mozzartela!”

Si lasciarono andare in una sonora liberatoria risata ed Eranthe avvertì una strana stretta bloccarle il respiro, una gioia profonda le stirò le labbra.

“Oggi stesso chiederà ad Athena il permesso di ospitarmi nelle sue stanze private”, continuò Francine. “Se la dea acconsentirà, chiederà alla signora Melina di potermi portare via.”

Ormai la giovane francese rideva e piangeva. “Pardonnez moi...

A turno le ragazze le si avvicinarono, abbracciandola. Agathê le infilò tra i capelli una rosa del colore delle melegrane mature.

Poi Melina prese la parola in uno sbuffo di fummo azzurrognolo.

“Hai la mia benedizione, ragazza”, proclamò solenne. “Anche perché il Capricorno ha già accordato con me un buon prezzo per il tuo riscatto.” Le fece l’occhiolino, la risata le faceva sussultare il seno prosperoso.

“Ricorda, tuttavia una cosa: essere la moglie di un Santo, uno d’oro per giunta, non è affatto come scegliere una persona normale”, asserì d’un tratto seria e fu come se una coltre di neve raffreddasse gli animi delle donne presenti. “Potrai essere sua moglie sul contratto di matrimonio, nel tuo cuore, come nel suo. Potrai essere sua moglie tutta la vita o per un giorno solo. Non dimenticare, Francine, non potrai dargli un amore diviso, un amore immaturo. Sei pronta ad amarlo senza riserve o timori, bambina mia?”

Eranthe abbassò il capo. Per un attimo l’immagine di Deuteros le balenò nella mente, subito scacciata e censurata dalla sua coscienza. No, nel suo destino non c’era nulla di simile. Lo sapeva.

Andò col pensiero alle storie che la nonna le raccontava su sua madre e quell’uomo di luna che l’aveva portata con sé. Di come i loro cuori si fossero legati nel silenzio della fatidica notte, di come i loro destini si fossero per sempre incrociati. Erato, sua madre, tuttavia, aveva dovuto rinunciare a lei.

Tutte le ragazze attesero la sera, e quando le prime stelle fecero capolino proprio al confine tra il violetto ed il rosa aranciato del cielo, il ragazzo dagli occhi taglienti apparve sulla lunga scalinata che conduceva al Santuario.

Eranthe si sentì onorata di assistere a quel piccolo miracolo che prendeva vita di fronte a lei: in quel momento nel salone c’erano solo loro due, soli. Beh relativamente soli, contando che circa una decina di persone erano nascoste nella piccola cucina di Melina, ad origliare spudoratamente.

“Athena ha dato la sua benedizione”, cominciò lui, la voce che tremava, le braccia forti a stringerla. “Ci potremo sposare ai primi del prossimo mese.” Si inginocchiò di fronte a lei, prendendole la mano. “Nel frattempo vuoi farmi l’onore di condividere la tua vita con la mia?”

Francine annuì mentre lui si rialzava. “Davvero non ti importa… che sono una putain?”, gli chiese con un filo di voce

“Davvero non ti importa che sono un assassino?”***, le sussurrò lui, la fronte appoggiata a quella di lei.

Si baciarono, ancora e ancora, mentre la luce scemava dietro al mare.

NOTE:

Ancora grazie a Francine per la sua immensa, smisurata pazienza!

* citazione da "Stranamore" di Roberto Vecchioni

** la questione Deuteros o Defteros, qui ho scelto il primo perchè più frequente nel greco antico dell'Attica

*** non voglio dare un valore completamente negativo al termine "Assassino" utilizzato qui: ho giocato con i termini greci "fomneos" e "somneos" rispettivamente assassino e santo.

  
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