Ciao, sono Dim. Non ho intenzione di
commentare questo capitolo, perché ammetto che si tratta
davvero di un capitolo crudele. Dico solo che vi saranno un po' di
riferimenti alla Saga del Male. Riliane sarebbe la principessa, Alexiel
e Allen sono la stessa persona, ovvero il suo gemello, solo che Alexiel
è il suo vero nome e Allen il suo nome da servitore.
Quindi vi lascio alla lettura e sono qui, in caso voleste sfogarvi o
qualsiasi altra cosa.
Dim
Capitolo
17
Una bambina bionda canticchiava queste tre sillabe,
camminando lentamente e mettendo i piedi uno davanti
all’altro, con attenzione,
tenendo le braccia leggermente allargate come se dovesse mantenere
l’equilibrio. Poi afferrò il bordo della lunga
gonna gialla che indossava e
tenendola sollevata girò su se stessa, scoppiando a ridere
subito dopo.
-Aki?
Sei qui?- Un’altra testa bionda spuntò dalla
fessura tra la parete e la porta
socchiusa. La bambina si voltò con un enorme sorriso
stampato sul viso.
-Aka!- esclamò
correndogli incontro e abbracciandolo. -Sei tornato! Sei tornato!-
strillava
radiosa. -Sono tornato, ma non soffocarmi!- tentò di
protestare lui, senza fare
nessun tentativo concreto di svincolarsi da quell’abbraccio
stritolatore.
Quando infine i due gemelli si separarono, continuarono comunque a
tenersi per
mano.
Lui la squadrò perplesso. -Con quel vestito sembri una
principessa- fu il
suo commento.
-Davvero?- fece lei, gli occhi che le brillavano per la
contentezza. -Come Riliane?-
Aka sospirò. -Proprio non riesci a togliertela
dalla testa quella favola, eh sorellina?- chiese falsamente
esasperato.
-No! E
non fingere che a te non sia piaciuta!- esclamò Aki
guardandolo male. Il
bambino sospirò di nuovo e scosse la testa.
-Non cambierai mai- affermò convinto.
-E comunque sì, un po’ - un po’, eh -
assomigli a Riliane- ammise infine. -Ma
solo perché anche lei veste sempre di giallo!- si
affrettò a precisare.
La
bambina gli fece una linguaccia, poi fece una seconda piroetta. -E tu
sarai il
mio Alexiel?- domandò porgendo la mano al fratello, che la
prese e la baciò
dopo essersi esibito in un teatrale inchino. -Io sarò il tuo
Allen, mia
signora- la corresse.
Lei s’aprì in un radioso sorriso. -Solo...- fece
dopo un
istante. -Non morire mai per me, ok?-
Aka sorrise a sua volta, ma era più un
sorriso mesto. -Se sarà necessario, mia signora,
morirò.- dichiarò.
-Non dire
idiozie!- esclamò Aki dandogli una spinta.
Il bambino studiò l’espressione
sconvolta e terrorizzata della sorella. Si costrinse a ridere.
-Scherzavo, Aki!
Scherzavo- mentì.
Lei parve tranquillizzarsi, e il sorriso tornò sulle sue
labbra. -E, soprattutto, non innamorarti di nessuna senza la mia
autorizzazione!- esclamò.
-Certo, mia signora! Le farò firmare un permesso
scritto quando deciderà che sua fratello è
abbastanza cresciuto da potersi
interessare alle ragazze!- la prese in giro Aka.
Inaspettatamente, sua sorella
gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò.
Stretto, come se non volesse mai
lasciarlo andare.
-Promettimi che non te ne andrai mai- mormorò. -Che rimarrai
sempre con me-
Il bambino si sorprese per l’ennesima volta di quanto Aki
potesse essere fragile. La strinse a sua volta, con ancor
più decisione di lei.
-Promesso- disse. -Staremo sempre insieme-
Non sapeva da quanto era lì.
Il bisogno umano di mangiare e bere non la toccava
neppure lontanamente, ed erano giorni che era immobile in quella
posizione. La
stanza era disastrata, ovunque erano sparsi i pezzi degli oggetti che
la
ragazza aveva scagliato contro le pareti in preda ad un attacco
d'isteria e
disperazione.
All'inizio aveva pianto, certo, si era disperata a lungo,
crogiolandosi nel dolore per la perdita incolmabile che aveva subito.
Ma ormai
non aveva più lacrime, e si limitava a starsene
lì immobile, non del tutto
cosciente, indecisa sul metodo più infallibile per
uccidersi.
Prima aveva perso
suo padre, ora anche suo fratello. Non poteva credere che Aka non ci
fosse
davvero più. Non era possibile, semplicemente non era
possibile. Doveva esserci
stato un errore, doveva essere così. Aka non poteva
essere... Riusciva a
malapena a pensarci. Non poteva essere morto!
Non era giusto. Non era affatto giusto.
In quel momento uno squillo insistente
riempì il silenzio pressante in cui era immersa la stanza.
Era il telefono di
Aka. Probabilmente a chiamarlo era l’uomo che aveva
commissionato loro quell’incarico.
Certo, lui non poteva sapere. Non poteva sapere a cosa aveva portato
tutto
quello. Dopo appena un minuto il cellulare tornò a
tacere.
La ragazza si mise
seduta quasi di scatto al centro del letto, le gambe incrociate tra
loro. Si
dondolò in avanti e indietro, in avanti e indietro, gli
occhi spalancati e i
denti tanto stretti tra loro da ferire la gengiva. Un rivoletto di
sangue scarlatto
le colò dal labbro sino al mento, ma lei non lo
asciugò. Una goccia cadde a
sporcarle la maglia, subito seguita da una seconda e da una
terza. Ripensò al
sangue che Aka aveva tossito quella sera, a come lei era stata troppo
cieca per
notarlo e per rendersi conto delle reali condizioni di suo fratello.
Magari
avrebbe potuto trovare una soluzione, magari avrebbe potuto salvarlo.
Ma sapeva
benissimo che era già troppo tardi. Era colpa sua. Colpa sua
sua sua sua...
Aki
strofinò freneticamente la pelle del mento e del labbro,
cancellando inorridita
quella minima traccia di sangue. Poi si portò le mani alle
orecchie, come se
volesse soffocare un qualche suono insopportabile proveniente
dall'esterno.
E
gridò.
Gridò sino a rovinarsi le corde vocali, fino a perdere la
voce.
Gridò
per sovrastare il rumore incessante dei suoi pensieri, troppo confusi
per
essere ascoltati e compresi.
Gridò per sovrastare il dolore che la divorava da
giorni interi.
Era certa di voler morire, era certa che si sarebbe uccisa
all'istante se solo avesse avuto la forza di alzarsi di farlo.
La voce le si
spense in gola, senza più fiato ad alimentarla, e lei si
scaraventò con forza
giù dal letto, barcollando e appoggiandosi alla parete per
non franare a terra.
Fece per un paio di volte il giro della stanza, gli occhi che fissavano
il
soffitto senza realmente vederlo. Poi si diresse verso un mobile ancora
miracolosamente
intatto e vi si appoggiò contro. Frugò in uno dei
cassetti, sino a che trovò un
pezzo di carta ancora immacolato. Si lasciò cadere sul
pavimento cosparso di
cocci e pezzi di vetro; prese un frammento abbastanza grosso e stette a
fissarlo per almeno cinque minuti, rigirandoselo nella mano con aria
assorta.
Poi, senza preavviso, lo strinse più forte e lo
conficcò nel palmo sinistro.
Subito il sangue iniziò a gocciolare dalla ferita.
Era scarlatto, come gli
occhi del ragazzo che aveva ucciso suo fratello. Anche lui era alla
ricerca
della sua vendetta.
Vendetta.
Il Ragno.
Intinse la punta dell'indice destro nel
proprio sangue e lo portò sopra la carta, di un bianco
immacolato. Poi tracciò
un nome.
Aka.
Rosso.
Sangue.
Prima suo padre.
Poi suo fratello.
Ora aveva un
motivo in più per vendicarsi della Genei.
La ragazza sorrise.
Pazza.
Aka salì di corsa la scalinata dell’ingresso,
chiamando a gran voce sua
sorella. Senza ricevere risposta.
-Su principessa! Non fare questo genere di
scherzi! Dove ti sei cacciata, Aki?- gridò.
Infine giunse nel salotto, e lì si
pietrificò: a terra vi era un lago di sangue. E sua sorella
sedeva nel mezzo,
le ginocchia contro il petto e il corpo scosso da singulti.
Solo dopo un
istante Aka capì che non stava affatto piangendo, ma
ridendo. Non era la sua
solita risata, però. Era lugubre, inquietante.
Malvagia.
Terrorizzato, il
ragazzino s’avvicinò. Aki sollevò la
testa, guardandolo in volto. I suoi occhi
azzurrissimi erano incrinati. Il sorriso folle che le increspava le
labbra
sottili divenne una smorfia di dolore. Le lacrime iniziarono a
scenderle lungo
le guance.
-L’ha lasciato morire- sussurrò con un filo di
voce. Aka non capì
cosa intendesse, non subito almeno, ma aveva visto la marionetta
seviziata
accanto alla ragazzina.
Aki non aveva mai dato prova di poter controllare il
potere del padre.
Non capiva, forse, ma prese sua sorella e la strinse a sé.
-Sarai con me, Allen?- mormorò lei, lo sguardo
vacuo.
Suo fratello allora
sciolse l’abbraccio, la guardò negli occhi e le
prese la mano destra - quasi
completamente ricoperta di sangue - e la baciò
delicatamente.
-Certo, mia
signora- rispose, costringendosi a mantenere ferma la voce.
-Sempre-
Aki annuì.
-Andiamo via di qui, allora-
Aka l’aiutò ad alzarsi, poi recuperò
una giacca e
gliela mise sulle spalle. -Andiamo- disse.
Quando uscirono da quella casa
maledetta, nevicava.
Anche se, a pensarci bene, non sapeva cosa ci sarebbe stato di
più
spiacevole di così.
Si trovava ancora nel Ryuseigai, non voleva allontanarsi
troppo da lì. Dopo la morte delle ragazze il Ragno - quel
poco che ne rimaneva
- si era semplicemente sfaldato: Shalnark era andato a morire; di
Phinks non
aveva notizie e Kuroro non si faceva sentire da giorni e giorni. La
Genei aveva
subito troppe ferite e troppo profonde per potersi riassemblare, per
riuscire a
far ricrescere le zampe mozzate. E quella ragazza non si trovava.
Sapeva che
era stata lei.
Una parte della sua mente l’aveva sempre saputo, a voler
essere
sinceri. Ma molto probabilmente non aveva voluto accettarlo. In ogni
caso, non
aveva neppure più la volontà di vendicarsi. Era
tutto troppo pesante da
sopportare, per lui. Molto più semplice lasciar
perdere.
Comunque continuava ad
avere quel pessimo presentimento. Svoltò l’angolo,
nervoso, e quello che vide
lo fece fermare di botto.
Avrebbe riconosciuto quella figura ovunque.
La
ragazza era accucciata su qualcosa che nel primo momento non
visualizzò, troppo
occupato ad analizzare i capelli intrecciati, sporchi, le occhiaie e lo
sguardo
allucinato; il sorriso macabro sul suo volto. E poi scese sulla maglia,
leggera
nonostante il freddo, scivolò lungo le braccia ed
arrivò alle mani. Registrò le
unghie spezzate, i polpastrelli sporchi di sangue.
Sangue?
Feitan era un tipo
pallido, ma non appena vide il cadavere sbiancò ancora di
più, se possibile.
Capelli castani, occhi marrone scuro spalancati, fronte ampia,
sopracciglia
rasate. Phinks. Il ragazzo strinse i pugni, e d’istinto fece
per scattare in
avanti. Qualcuno l’afferrò per un braccio e lo
trattenne: Kuroro.
La ragazza
sollevò la testa e li vide. Con un movimento rapido estrasse
il pugnale dal
corpo dell’uomo e osservò ammaliata il riflesso
vermiglio della lama.
-Lasciami-
sibilò Feitan.
L’altro scosse la testa. -È così che
deve andare- replicò.
Il
moro sgranò gli occhi, guardandolo scandalizzato. -Cosa?!-
fece. -Tu eri qui
sin dall’inizio e non hai fatto niente!? Non hai fatto
NIENTE!?-
Colui che un
tempo era stato la testa del Ragno scosse di nuovo il capo.
Feitan si liberò con uno
strattone, aprì bocca per gridargli ancora contro e...
capì.
Si ricordò di
qualcosa che una volta Akito gli aveva detto.
La ragazza gli rivolse un lungo
sguardo, uno sguardo pieno di parole che non avevano bisogno di essere
pronunciate. Poi si voltò e corse via.
Senza ragionarci neppure un istante,
Feitan l’inseguì.