I tranquillanti non sembravano fare più alcun effetto.
Era ormai da giorni che Felix si sentiva normale: le sue
palpebre non erano pesanti e non faceva fatica a pensare.
Bisognava però dire che in quei giorni Felix pensava
soltanto alle mattonelle del soffitto, ormai ultima cosa che vedeva prima di
cadere in uno stato di angosciosa confusione e la prima quando riprendeva
conoscenza.
Non reagiva quando gli facevano le consuete iniezioni, come
non reagiva agli insistenti tentativi della bambina (che non si mostrava più orribilmente
ferita) di farlo parlare con lei.
Felix continuava a ripetersi che era un sogno. Quando lei
ridacchiava, quando giocava con la palla (dove diavolo l’aveva trovata?),
persino quando rimaneva ferma a fissarlo per ore, lui continuava a ripetersi
che era solo un’allucinazione, che era solo un tentativo di farlo impazzire e
che doveva ignorarla.
Non sussultò nemmeno quando la porta della cella si aprì per
la prima volta nella giornata. O serata- non che Felix sapesse davvero se era mattina o sera o che altro.
Il rumore di patatine che scricchiolano l’una contro l’altra
all’interno di un sacchetto gli fece capire, senza neanche doversi girare, che
quello era uno dei primi due scienziati che aveva sognato: probabilmente il
maschio, visto che di solito la ragazza si limitava a tenere dei biscotti nelle
tasche.
“Ciao, occhietti
d’ambra!”
La voce era sicuramente maschile e quell’allegro saluto poteva appartenere solo al tizio con gli occhiali che mangiava ciambelle. Qualsiasi fosse il suo nome.
“Come vanno le piaghe
da decubito?”
Felix poté sentire la bambina, in un angolo della stanza, ridacchiare alla battutina dello scienziato: probabilmente ciò che l’aveva fatta ridere era il tono scherzoso dell’uomo, piuttosto che le parole in se.
“Andrebbero meglio se
tu mi dessi una ciambella!”
Quando la bambina sentì lo scienziato imitare la voce di Felix (con risultati piuttosto scadenti, a dire il vero) non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere, probabilmente presa alla sprovvista per darsi un minimo di autocontrollo- o forse perché, alla fine, non le importava. Lo scienziato non la vedeva ne la sentiva: quella era un’allucinazione solo sua, a quanto pareva.
“Aww, vuoi ciambella
piccolino? Ishi? Ishi? Gnammy gnammy!”
Felix trovò in un qualche modo consolante constatare che persino in un sogno dove vedeva bambine fantasma c’era sempre qualcuno più pazzo di lui.
Lo scienziato sospirò, decidendo di smettere con il suo
siparietto e di prendere, con la mano libera, una siringa dal camice. “Sai, occhietti d’ambra, dovresti ridere di
più. E, bhè, dovresti mangiare.”
Era sorprendente come lo scienziato sentisse il bisogno di parlare di qualcosa ogni volta che entrava nella sua cella- come d’altronde era sorprendente la sua costanza nel mangiare cibo spazzatura. Era probabile che fosse qualcosa che faceva con tutti gli altri pazienti, vista l’allegria che aveva dimostrato con la collega il giorno in cui erano venuti a prenderlo.
Come si poteva fare un lavoro del genere ed essere di buon umore?
“Non che mi lamenti,
ma almeno non rischieresti la disidratazione. Andiamo, non è meglio bere acqua
piuttosto della flebo?”
Lo scienziato scosse leggermente la testa, fra se e se,
quindi riprese il solito sorriso e si sedette accanto al letto, poggiando il sacchettino
di dolci a terra per poi prendere il braccio di Felix. “Comunque, per adesso stai bene. Tristezza e apatia a parte. La siringa
contiene glucosio: è accaduto un piccolo incidente che ci ha messo leggermente
a corto di flebo, ma tutto si risolverà per domani.”
Non che quel fiume di parole avessero davvero un senso, per
Felix. Per quanto i suoi voti dimostrassero il contrario, non aveva mai capito
nulla di chimica e non aveva la minima idea di cosa fosse il glucosio: per
quello che ne sapeva poteva essere anche una droga confezionata.
“Felix.”
Felix s’irrigidì, preso alla sprovvista dalla voce della
bambina: non solo non si aspettava che parlasse, almeno in quel momento, ma
anche quel suo tono di voce. Era come se fosse in allarme per qualcosa.
Lo scienziato diede dei leggeri colpetti alla siringa,
cercando di far fuoriuscire l’aria. “Rilassati, occhietti d’ambra. Non fa
male.”
“Felix, non
ascoltarlo!” La bambina stava gridando. Felix aggrottò la fronte,
perplesso: la bambina non aveva mai gridato prima. “Ti vuole avvelenare! Lui e l’uomo alto, loro ti stanno avvelenando!”
L’ago entrò nella carne del braccio: di solito Felix
l’avrebbe appena notato, ma in quel momento il dolore gli sembrava persino
insostenibile.
Lo stavano avvelenando? No, impossibile. Non era possibile
che lui, un Carlyle, potesse credere anche solo per un secondo ad una
allucinazione.
Di che uomo alto parlava?
“Felix,” la
bambina saltò sul letto di Felix, alzando poi un pugnetto in aria in un
disperato tentativo di farsi ascoltare, “fermalo!!”
Lei abbassò il pugno quanto più violentemente le era possibile e Felix strillò, portando istintivamente la braccia alla testa, senza ragionare nemmeno un momento sul fatto che la bambina era solo un’allucinazione, che quello era un sogno, e che comunque il pugno di una ragazzina di neanche dieci anni non poteva fare troppo male.
A riportarlo alla realtà fu un secondo grido. Quando Felix,
ancora leggermente spaventato, si fidò ed abbassò le braccia, si trovò di
fronte allo scienziato che lo fissava con un’espressione terrorizzata,
massaggiandosi spasmodicamente il cuore.
Felix aprì e richiuse la bocca, senza sapere cosa dire.
“L-l’ago ha f-fatto m-male?” chiese infine lo scienziato, dicendo la prima cosa che gli semrbava vagamente sensata.
Felix, con gli occhi spalancati e senza sapere cosa fare, si
limitò a fare la prima cosa che gli veniva in mente: annuire, non troppo
convinto.
Lo scienziato accettò tale risposta senza fare ulteriori
domande.
“O… Ok. Uh, tenterò
di, uh, essere meno-” cominciò lo scienziato, fermandosi appena l’occhio
gli cadde sulla siringa che teneva in mano: l’ago era ridotto ad un quarto della sua normale
lunghezza e la punta era fin troppo irregolare. Si voltò di nuovo verso Felix,
con una mezza idea di chiedergli se sapesse se il modello di base era
progettato in quel modo, ma le parole gli morirono nuovamente in gola, mentre
il suo volto veniva trasfigurato da una smorfia di orrore.
“Eeew!” fu tutto
ciò che riuscì a dire.
Felix abbassò lo sguardo verso il suo braccio, comprendendo
perché lo scienziato fosse così disgustato: li dove prima aveva tentato di
iniettargli… qualcosa era conficcato ciò che rimaneva dell’ago. Senza pensarci
troppo lo tolse, maledicendosi subito dopo per il dolore.
Si bloccò, comprendendo in quel momento che stava sentendo
dolore.
Era un incubo. Si era ripetuto per… non sapeva neanche quanto tempo che era un incubo. Com’era possibile che sentisse dolore?
“Ngh… ok.” Lo
scienziato inspirò profondamente, evitando accuratamente di fissare l’ago. “Prendo un’altra siringa. Torno subito.
Vuoi qualcosa da mangiare…?”
Tentò di sorridere, riuscendo a fare solo una debole
smorfia: era evidente che non avesse ancora superato lo spavento. Felix scosse
la testa e lo scienziato non aggiunse altro, prendendo la porta di fretta.
“Blocca la porta
prima che si chiuda, Felix.”
Felix si voltò verso la bambina, spaventato: per un qualche motivo era convinto che fosse scomparsa, dopo il suo strillo.
“La porta, Felix!”
La porta si stava per chiudere, si. Che importanza aveva?
Non doveva essere un sogno quello? Eppure il dolore, riusciva a sentire il
dolore- che cosa significava? Non poteva essere.
Non poteva essere.
Ma se fosse stato…?
“Blocca la porta!”
Il grido lo riportò in se, facendolo scattare verso la
porta, fermandola appena in tempo.
La aprì leggermente, spiando il corridoio, cercando se ci
fosse qualcuno. Nessuno: lo scienziato doveva essersene andato, anche se
probabilmente sarebbe tornato presto.
Quello era un buon momento per cercare di fuggire, ma Felix
preferì fissare il corridoio per qualche altro secondo. Forse non doveva
fuggire. Forse faceva meglio a rimanere nella stanza e chiudere la porta. Se
l’avessero ripreso? Le cose sarebbero sicuramente andate peggio e-
“Ehi!” esclamò Felix appena si rese conto che la bambina era scivolata fuori dalla stanza e che stava correndo per i corridoi, schiamazzando allegramente.
Uscì dalla camera per andare a prenderla e prima che se ne
potesse accorgere la porta si era chiusa alle sue spalle: in quel momento non
gli importava. La bambina faceva troppo rumore, avrebbe potuto richiamare
l’attenzione di qualcuno e- e allora cosa avrebbe fatto?
La rincorse, sorprendendosi nel constatare che non aveva
problemi a fare simili sforzi dopo tutto quel tempo che non si muoveva e non
mangiava- quanto tempo? Tre giorni? Una settimana? Due mesi?
Si maledì per l’ennesima volta, inseguendo la ragazzina in
quel dedalo di corridoi. Gli sarebbe bastato fermarsi, rimanere in camera ed
aspettare che sua sorella lo venisse a prendere.
Quante possibilità aveva di fuggire in un edificio pieno di
gente? Senza neanche sapere a che piano era?
Il suo flusso di pensieri fu interrotto da un improvviso, insolito rumore- un qualcosa come un ‘beep beep’ meccanico. Felix si morse il labbro inferiore, tentando di pensare ad un piano: perché se c’era un rumore, allora dovevano per forza esserci delle persone.
La prima cosa che gli venne in mente fu di nascondersi. Il
posto ideale era quello che sembrava una specie di sgabuzzino: non ne era
sicuro, ma la porta era sicuramente meno massiccia di quelle degli altri
prigionieri (Dannazione, c’è n’erano
persino degli altri) e meno elegante di quella delle altre stanze che aveva
notato durante la corsa.
Deciso che quello era il migliore, nonché unico, piano, Felix
scattò in avanti prendendo la bambina con una mano (lei strillò come se
qualcuno volesse ucciderla: se avesse potuto, Felix avrebbe volentieri ragionato
su quell’ipotesi tanto era il fastidio che tale urlo gli procurò) e si
catapultò all’interno dello sgabuzzino.
Nello stanzino la ragazzina sembrò calmarsi. Felix fu grato
di quella breve pace e si mise in ascolto dei rumori che provenivano dal
corridoio.
Dapprima nulla. Felix non si tranquillizzava, rimaneva
immobile contro la porta.
Poi dei passi. Due persone, forse tre. Parlottavano fra
loro, ma non riusciva a sentire che poche sillabe.
Infine, di nuovo, il silenzio. Il rumore dei passi si era
affievolito fino a scomparire, quel suono meccanico cessato.
Felix si ricordò finalmente di respirare e buttò fuori
l’aria, facendo poi cadere la testa contro il petto, mollemente. Quello era vero. Era
inutile pensare che fosse un incubo, inutile sperare: non poteva risvegliarsi.
Eppure tentare di scappare sembrava ancora un suicidio. Sua
sorella stava sicuramente lavorando per recuperarlo, ed entro poco lo
scienziato strano avrebbe scoperto che era uscito e avrebbe dato l’allarme.
Quante speranze aveva?
Senza armi non poteva sperare molto. Poteva stenderne
qualcuno, certo: poteva pure minacciare di prendere qualcuno in ostaggio. Ma
non sapeva dove si trovava, non sapeva dove fosse l’uscita. E poi era da solo
contro quanti?
Non poteva fuggire. Non poteva fare nulla. Forse, se tornava
indietro, non l’avrebbero ucciso.
Sospirò, portando le mani alla testa. Doveva tentare di
scappare… anche se non c’era alcuna possibilità di vittoria.
Alzò lo sguardo, ricordandosi in quel momento della bambina
che, seduta sul pavimento, in quel momento stava cantando qualcosa. Felix
gemette al pensiero che qualcuno nel corridoio potesse sentirla e trovarlo.
Lei era un altro problema. Lei era un elemento di disturbo.
Lei-
“Bambina?”
Lei alzò il viso, sorridendogli. “Ciao, Felix!”
Felix la guardò, rendendosi improvvisamente conto che la
bambina sapeva il suo nome. Come faceva a saperlo?
Bhè, era una sua allucinazione, era ovvio che sapesse il suo
nome.
Però... però prima l’aveva trascinata nello sgabuzzino: le sue mani avevano
davvero sentito il calore della sua pelle, aveva davvero affondato la presa
nella carne del suo collo. Che razza di allucinazione faceva provare simili sensazioni?
“Cosa… Chi sei tu?” chiese infine Felix, tentando di convincersi che la sua voce stava tremando perché non la usava più da tempo e non per la paura.
La bambina batté le mani l’una contro l’altra, ridacchiando.
“Non ti ricordi di me? Herzeleid Thompson?”
Lui aggrottò la fronte, perplesso. Quel nome era familiare. Lo aveva già sentito da qualche parte, lo sapeva, ma dove?
Herzeleid si mise in piedi, sporgendosi verso di lui con
un’espressione di disappunto esageratamente marcata sul viso. “Non ti ricordi
di me, Felix?”
Felix digrignò i denti, cercando nella sua memoria. Non
aveva mai conosciuto nessuno con quel nome durante la sua adolescenza, quello
era certo. Era troppo piccola per essere della mafia.
Quante volte nella sua vita era entrato in contatto con una
bambina? Mai. Ne era sicuro, non aveva mai incontrato prima una bambina.
O forse…
Lo stomaco gli si rivoltò al solo pensiero. Ma certo che era entrato in contatto con una bambina…
Lei fece un sorriso da un orecchio all’altro, mutando
improvvisamente nella forma che aveva la prima volta che si era mostrata. “Lo
sapevo che ti ricordavi di me, Felix!”
Ciò che avvenne dopo fu così veloce da non arrivare nemmeno
ad un minuto.
Felix era rimasto scioccato. Non poteva essere stato lui a
fare del male in quel modo a quella bambina. Quella bambina non poteva essere
un fantasma. Erano cose che non capitavano nella vita reale, e non potevano
essere capitate a lui.
Herzeleid provò ad avvicinarsi, ridacchiando, e la
reazione istintiva di Felix fu quella di avere paura: d’altronde che altro
poteva volere da lui, oltre che ucciderlo?
Impugnò la prima arma che gli capitò sotto mano, presa da
uno degli scaffali accanto alla porta: il momento dopo stava scavando nella
carne della bambina, accoltellandola più e più volte, fin troppo terrorizzato
per pensare seriamente a cosa stesse facendo.
Stava accoltellando solo una poltiglia informe di carne e
ossa quando decise finalmente di fermarsi.
Tentò di rallentare il battito del proprio cuore,
continuando a stringere spasmodicamente il bisturi. Respirava affannosamente,
eppure non si sentiva male: non gli mancava ossigeno, non era stanco.
C’era qualcosa di strano, ne era certo. Ma prima che potesse
seriamente pensare a cosa questo fosse, la porta dello sgabuzzino si aprì, facendo
girare Felix di scatto.
La stanza doveva essere un disastro. Gli schizzi di sangue
della bambina dovevano aver raggiunto il soffitto.
Eppure lo scienziato - era ovvio lo fosse, visto il camice -
non sembrava particolarmente colpito. Fissava Felix, con un occhio socchiuso e
l’altro aperto, in un espressione perplessa: non era spaventato, solo
sconcertato.
Sebbene molto alto (doveva superarlo di dieci centimetri
come minimo) dava l’impressione di non essere forte: pallido, gracile e
magrolino, Felix avrebbe potuto stenderlo benissimo se solo non fosse così
terrorizzato dall’idea di essere stato scoperto.
Aveva i capelli biondo chiaro (una rarità, di quei tempi),
corti, e gli occhi azzurri.
L’attenzione di Felix andò interamente sugli occhi dello
scienziato. Dove li aveva già visti?
“Bisturi. Per favore.”
Disse lo scienziato, interrompendo il filo di pensieri di Felix.
Ci mise un po’ per capire che lo scienziato non aveva detto
una parola a caso ma stava attualmente chiedendo di passargli un bisturi: non
si fermò quindi a pensare che, forse, avrebbe dovuto semplicemente eliminarlo
ed evitare il rischio, ma bensì, in un moto istintivo, gli passò l’arma che
aveva usato con Herzeleid pochi secondi prima.
Lo scienziato prese il bisturi, facendo un cenno con la
testa che Felix prese per un ‘grazie’, poi richiuse la porta.
Erano strani i pensieri che quella situazione altamente
ridicola creavano. La cosa ancora più strana era che Felix li prendeva come
seri.
Forse, se rimaneva
lì dentro, avrebbe potuto sopravvivere.
Forse, se non si
muoveva, non l’avrebbero ucciso.
Forse avrebbe
potuto rimanere lì.
Forse…
Il suono di una sirena fendette l’aria, propagandosi con forza per tutto l’edificio.