6.
Someone’s walked over
my Grave
Il
dottor Carew aveva visitato miss Radcliffe soltanto il giorno prima,
eppure già
sembrava di intravedere nella povera donna qualche lieve miglioramento:
il
colorito della carnagione era meno pallido, il respiro meno affaticato,
la
fronte più tiepida; e per fare ciò era bastato
assicurarsi che i cibi non
fossero alterati, fingendo di assaggiarli di fronte alla signora
Duncan. Quest’ultima
non aveva battuto ciglio, Emma aveva assaggiato le pietanze senza
subire
conseguenze e tutto pareva essersi risolto per il meglio.
Ciò nonostante la
giovane non riusciva a darsi pace – l’apparente
sangue freddo della governante
bastava forse a sollevarla da tutte le accuse, non ultima la faccenda
del libro
di Barbablù e del messaggio che aveva trovato nella sua
camera da letto? Prima
di trasferirsi a Pemberley Manor non avrebbe mai avuto simili pensieri
– di domestici
che ordivano complotti se ne leggeva soltanto nelle novelle gotiche
– ma adesso
essi parevano essere diventati parte della sua quotidianità.
Forse la
solitudine la stava facendo impazzire, chi poteva dirlo? Bramava la
compagnia
di un altro essere umano, una persona qualunque che non fosse
intossicata
dall’aria malsana di Pemberley Manor e del villaggio
circostante, e sebbene sir
Arthur avrebbe potuto rappresentare tale figura, Emma non poteva fare
affidamento su di lui per il semplice fatto che abitava troppo distante
e aveva
di sicuro i suoi affari a cui badare.
In
quel momento, mentre osservava miss Radcliffe dormire finalmente un
sonno
sereno grazie alle medicine e alle cure combinate sue e del dottor
Carew, Emma accantonò
quei pensieri e riportò alla mente il fatto
della notte prima. Non avrebbe dovuto
bruciare quel biglietto, rifletté ora con maggiore
lucidità, dandosi
mentalmente della sciocca. Avrebbe dovuto conservarlo, farlo vedere a
qualcuno,
utilizzarlo come prova – di che cosa, poi, ancora non lo
sapeva – nel caso la
situazione fosse diventata più ingestibile;
chissà, si sarebbe potuto risalire
tramite la calligrafia a chi la stava importunando… Non
aveva mai veduto una
sola parola vergata dal pugno di uno dei signori Duncan, dunque aveva
deciso
che essi sarebbero stati considerati colpevoli fino a prova contraria.
Non
poteva fidarsi di loro – anzi, aveva iniziato a sentirsi a
disagio quando si
trovava in loro compagnia, e aveva preso l’abitudine di farsi
servire la cena
nella propria camera da letto – e neppure di Lydia, che con
il suo silenzio era
forse più inquietante dei suoi compagni di lavoro.
Il
suo Aramis, invece, aveva iniziato stranamente ad abituarsi alla nuova
dimora e
passava ormai più tempo ad esplorarla che non a coccolare la
sua padrona. Emma
non aveva idea se questo atteggiamento significasse qualcosa
– per esempio, che
le mura di Pemberley in fondo non celavano alcun pericolo –
pertanto, nel
dubbio, continuava a nutrire la propria preoccupazione.
Grazie
alle brevi visite del dottore, Emma aveva scoperto alcune cose riguardo
il
villaggio. Innanzitutto, non vi era nessun rappresentante della legge
– sia il
giudice che la prima stazione di polizia disponibili si trovavano a
circa venti
miglia di distanza, nel paese di Alnwick, ossia a quasi mezza giornata
di
viaggio in carrozza – ed era più che altro il
pastore, insieme all’ufficio
postale, a gestire le faccende amministrative. Insomma, più
il tempo passava e
più Emma cadeva preda dello sconforto, a causa della
terribile sensazione di
essere lasciata a se’ stessa in un luogo estraneo e
circondata da persone a dir
poco sospette e inospitali. Se solo miss Radcliffe fosse stata meglio,
non ci
avrebbe pensato due volte a preparare le valigie e tornarsene
immediatamente a
casa. Persino vedere le imposte listate a lutto di Hambleton Abbey
sarebbe
stato preferibile a quella solitudine.
A
tutto questo, come peraltro si sarebbe dovuta aspettare, si andava
aggiungendo
il gelido e inconscio terrore del buio che in genere è
prerogativa dei bambini
nella nursery. Personalmente, Emma si era sempre vantata della sua
freddezza
nei confronti di leggende e superstizioni – amava i romanzi
gotici e le storie
dell’orrido, sì, ma miss Radcliffe si era da
sempre fatta il puntiglio di
metterle in testa che nulla di ciò che leggeva in tali libri
o che le veniva
raccontato dalla sorella doveva spaventarla – e dunque aveva
smesso di dormire
con una candela accesa accanto al letto già dalla tenera
età di cinque anni.
Eppure, da quando era andata ad abitare a Pemberley Manor, pareva che
tutte le
sue certezze fossero scomparse, sostituite dalla vergognosa
capacità di
sussultare e tremare per ogni rumore e scricchiolio improvviso che
udiva nel
silenzio.
Aveva
costantemente l’inquietante sensazione di essere osservata
– si guardava alle
spalle più spesso di quanto volesse, e neppure la sua forza
di volontà riusciva
a impedirle di comportarsi in quel modo – e quando si
aggirava per i corridoi,
anche durante il giorno, le sembrava persino di essere seguita. Non
credeva che
fosse solo un’inspiegabile mania, visto che anche Aramis in
quei momenti
tornava ad essere nervoso e agitato, in special modo se si trovava
dentro o nei
pressi della biblioteca – per poi calmarsi inspiegabilmente
una volta raggiunta
la sua camera da letto o la sala da pranzo.
Ed
era allora che le tornavano in mente le parole di sir Arthur. Nella
biblioteca scoppiò l’incendio, e i
corpi dei Rochester vennero orribilmente divorati dalle fiamme.
Dunque era
stato il fuoco a ucciderli, oppure chiunque l’avesse
appiccato – giacché era
fuori discussione che un incendio di quella portata potesse essere
esploso da
solo – li aveva uccisi prima? Era macabro e morboso
continuare a pensarci, Emma
lo sapeva bene, eppure era allo stesso tempo inevitabile: come faceva a
distogliere la sua mente da quel fatto se ogni cosa glielo faceva
rammentare, dai
lampadari della biblioteca ancora anneriti, alle travi bruciacchiate
del
pavimento che Mrs. Duncan si ostinava a nascondere con spessi tappeti?
Ad
ogni modo, non le mancava la buona volontà. E la breve
visita del castello che
aveva fatto la settimana precedente – i giorni scorrevano via
senza che lei
riuscisse a tenerne il conto – l’aveva stuzzicata
al punto da volerla
replicare, cosa che se non altro l’avrebbe distratta da ogni
genere di teorie
complottiste che la sua mente partoriva in continuazione. Solo,
stavolta voleva
evitare di perdersi; e fu per questo motivo che domandò a
una perplessa e
contrariata Mrs. Duncan di procurarle i vecchi progetti del maniero, in
modo da
poter studiare la disposizione di tutte le stanze e i corridoi.
Caledon
aveva letto e riletto la lettera di Emma fino a impararla a memoria, da
quando
l’aveva ricevuta nel suo appartamento londinese cinque giorni
prima; gli era
sembrata una curiosa coincidenza, considerando che aveva incontrato
lord
Grantham al White’s soltanto la sera precedente. Rammentava
alla perfezione la
fitta piacevole che aveva provato all’altezza del petto nel
riconoscere
l’elegante calligrafia della sua futura moglie, mentre suo
padre lo fissava
dall’altro capo del tavolo con un mezzo sorriso di
condiscendenza sul volto.
«Buone
notizie?» Era stato il suo commento disinteressato. Cal lo
sperava: sinceramente,
aveva il timore che la lontananza e quella sorta di esilio a cui il
padre
l’aveva obbligata non avrebbe portato nulla di buono, in un
rapporto che già di
per sé andava avanti in un’atmosfera di costante
tensione. Tensione che
continuava a non spiegarsi, benché avesse trascorso
parecchie notti insonni a
rimuginarci, cercando risposte sul fondo di un bicchiere di cristallo:
da
quando la compianta lady Grantham si era ammalata, lui ed Emma non
avevano
fatto che allontanarsi, e l’idea di perderla ancora prima di
averla avuta non
gli dava pace. E adesso non poteva neanche andare a trovarla,
maledizione.
«Lo
sapremo presto, giusto?» Sospirò lui, aprendo la
lettera con il coltello da
burro e tirandone fuori un foglio piegato con cura e privo di profumi o
inutili
svolazzi. Dovevano essere davvero poche le fanciulle, in Inghilterra,
che non
riempivano le proprie carte personali di una o due gocce
d’essenza prima di
spedirle al proprio fidanzato, e ancora dopo tutti quegli anni Caledon
non
aveva ben compreso se la cosa lo infastidisse o lo lasciasse del tutto
indifferente. D’altronde, l’importante era il
contenuto.
«Non
essere irritato con lei, Caledon: hai sentito cos’ha detto
lord Grantham,
l’altra sera. Nulla di tutto questo è dipeso dalla
tua fidanzata», fu il pacato
e probabilmente saggio consiglio che gli diede il duca tra un sorso e
l’altro
del suo caffè mattutino. «Se vuoi puoi usare il
mio studio per leggere la
lettera in tranquillità…»
«Grazie,
sì», fece il figlio, alzandosi come se non stesse
aspettando altro. «Archer,
per favore. Porta il mio tè nello studio»,
aggiunse poi rivolto al cameriere.
Nell’osservarlo
uscire frettolosamente dalla sala da pranzo, neanche gli andasse a
fuoco la
sedia, lord Suffolk rilasciò un breve e irritato sospiro.
Sembrava essere
rimasto l’unico, nella famiglia, a non ritenere che quel
matrimonio fosse in
pericolo: persino la fiducia di sua moglie aveva iniziato a vacillare,
dopo la
morte di lady Grantham e l’inevitabile raffreddamento dei
sentimenti della
fanciulla.
«Si
sposeranno, si sposeranno…» Mormorò
tranquillo, con la cieca sicurezza che
deriva da anni e anni di esercizio del potere. Avrebbe voluto che anche
suo
figlio vivesse quella situazione con maggiore serenità, ma
il duca sapeva bene
che il cuore di un giovane era preda dei dubbi e dei dilemmi
più atroci.
Biasimando quel comportamento così middle-class,
il duca tornò a immergersi nella lettura del giornale
dimenticando presto le
angosce ingiustificate del figlio.
Quando
la porta dello studio si chiuse con un tonfo leggero alle sue spalle,
il
giovane in questione riprese a respirare. Aveva l’impressione
che la lettera
pesasse come un macigno nel suo pugno, e quasi temeva di abbassare gli
occhi e
leggerla, nel caso contenesse qualcosa che non fosse di suo gusto: se
l’avesse
ignorata, poteva fingere che qualsiasi brutta notizia vi fosse giunta
non lo
riguardasse… Ma ancora prima di concludere tale pensiero si
dette dell’idiota,
maledicendosi. Che sciocchezze! Era un uomo fatto e finito, era
l’erede di un
duca, e aveva Londra ai suoi piedi… non poteva struggersi a
quel modo per una
lettera giunta dalla campagna!
«Una
lettera di Emma», sussurrò inconsciamente, come a
volersi tuttavia contraddire.
Attraversò la stanza e si diresse verso la vecchia poltrona
in pelle accanto al
camino, alla ricerca di una posizione comoda; quel continuo posticipare
l’inevitabile lettura stava iniziando a dargli sui nervi,
così si sedette e, in
un gesto che conteneva rabbia, timore e determinazione insieme,
dispiegò il
foglio e cominciò a leggere.
Non
era nulla di che, scoprì poi con un certo disappunto e
un’inevitabile punta di
delusione. Emma usava parole gentili e modi impeccabili, come sempre,
ma non
una tenerezza, un’effusione, né un pensiero
affettuoso per l’uomo che avrebbe
dovuto sposare. Chissà che cosa si era aspettato? A
metà lettera provò
l’impulso di appallottolare la carta e gettarla nel fuoco,
tant’era forte la
sua frustrazione. Eppure proseguì, andando avanti con la
caparbietà che lo
contraddistingueva.
E
fu un bene, perché verso la fine della lettera il tono
cambiava
impercettibilmente, facendosi appena più intimo, con una
delicatezza che non
sarebbe stata colta da un occhio inesperto.
Benché
indubbiamente più breve di una lettera che una fidanzata
amorevole avrebbe
dovuto scrivere, a Caledon sembrò di scorgervi per la prima
volta uno spiraglio
attraverso il quale poter fare breccia. Emma descriveva la sua
proprietà di
campagna come un castello così antico e
immenso da farmi mancare l’aria, e aggiungeva poi,
non come se avesse
voluto scriverlo ma come se le parole fossero fuggite dalla penna prima
che
potesse impedirlo, che l’idea di papà,
per quanto nobile e sicuramente dettata da buone intenzioni, si
è rivelata
avere l’effetto opposto, e mi capita di sentire la mancanza
di cose che prima
degnavo di scarsa attenzione.
Caledon
si lasciò sfuggire un gemito di trionfo, e un accenno di
sorriso si fece largo
sulla sua espressione accigliata. Ed ecco
che la solitudine inizia a farla cedere, pensò,
compiaciuto più di quanto
la galanteria permettesse. Un altro mese in quella contea sperduta ed
Emma
sarebbe stata sua prima di Natale… Ma non sarebbe mai
successo se non avesse
trovato un modo per stuzzicarla, magari con una visita a sorpresa.
Sì, era
un’ottima idea, suo padre avrebbe di sicuro approvato! Si
dava il caso che
alcuni suoi compagni di college lo avessero invitato a trascorrere del
tempo
insieme a Inverness, e che Pemberley Manor si trovasse in una posizione
ideale
del tragitto tra Londra e la Scozia; la vacanza sarebbe durata due
settimane,
durante le quali avevano già progettato gare di caccia e
pesca, passeggiate a
cavallo e persino delle escursioni in barca per ammirare la scogliera
dal mare,
qualora il tempo fosse stato favorevole. In tutto questo, Cal era
più che
sicuro di riuscire a ritagliarsi del tempo per andare a trovare la sua
fidanzata, ed era anche piuttosto convinto di trovarla bendisposta nei
suoi
confronti, visto l’isolamento nel quale si trovava.
In
tutta coscienza, sapeva di non poter completamente incolpare Emma per
la sua freddezza:
la realtà era che Caledon avrebbe dovuto sposare Elizabeth,
sua sorella, se la
sua morte improvvisa non avesse bruscamente cambiato i piani delle due
famiglie. Ricordava il funerale della piccola Lizzie come se fosse
accaduto il
giorno prima: è sempre tragica la morte di una ragazza di
sedici anni, in special
modo se era la primogenita di un conte e se i genitori contavano di
vederla
unita in matrimonio con un duca. Rammentava che il corteo funebre, per
quanto
affollato, era stato stranamente silenzioso: subito dopo il prete e i
sagrestani c’erano il conte e la contessa di Grantham,
seguiti da una piccola
Emma che cercava di stare al passo della sua istitutrice, poi lui e la
sua
famiglia, e infine il resto dei parenti e dei famigliari dei Grantham.
Nessuno piangeva.
Eppure, anche dopo tutti gli anni trascorsi, ciò che
più gli era rimasto
impresso era stata la sensazione di fastidio e turbamento al pensiero
che,
adesso, la sua promessa sposa sarebbe stata quella fanciullina di nove
anni che
non aveva nemmeno l’ombra della bellezza di sua sorella. Col
senno di poi
riconobbe di essere stato meschino a covare simili pensieri, ma
dopotutto all’epoca
non aveva ancora vent’anni – la sua preoccupazione
di doversi considerare
legato a una bambina era più che comprensibile, no?
Lizzie
era tanto bionda quanto Emma era scura, con boccoli corvini
accuratamente
acconciati e coperti da un cappellino nero a lutto; entrambe avevano la
pelle
più bianca del latte, ma mentre quella di una aveva delle
graziose sfumature
rosee, quella dell’altra tendeva ad un pallore che rammentava
il gesso –
persino distesa nella sua piccola bara bianca, il colorito di Lizzie
sembrava
ancora più vivace di quello di sua sorella. Chi non le
avesse conosciute
avrebbe potuto rifiutarsi di credere che le due erano imparentate, e
che nelle
loro vene scorresse il medesimo sangue. Non solo: il loro legame era
talmente
solido, talmente affettuoso, da avergli fatto più volte
rimpiangere il suo
essere figlio unico.
Eppure
Emma non era una bambina triste, né solitaria: era soltanto
molto timida,
specialmente quando la sorella la portava con sé durante le
loro passeggiate, a
mo’ di chaperon. Erano davvero una bizzarra compagnia in
quelle occasioni: con
una mano Caledon reggeva il cestino da picnic, con l’altra
teneva Lizzie
sottobraccio, e lei a sua volta prendeva la mano della sorella con la
sua
libera. E il capo deliziosamente dorato di Elizabeth spiccava come oro
sul
carbone quando, tutti sdraiati sotto a un albero dopo aver mangiato, i
loro
capelli si mischiavano sulla coperta in un ammasso disordinato di
riccioli.
Cal
aveva imparato a voler bene a quella bambina che portava con
sé uno o più libri
dovunque andasse – persino durante quei picnic, arrivava il
momento in cui Emma
si stufava di prestare attenzione ai giochi dei grandi e si isolava con
il naso
sepolto tra le pagine di chissà quale favola –
però, accecato com’era dalla
bellezza ancora acerba di Lizzie, non aveva mai neanche pensato di
prendere in
considerazione l’idea che Emma potesse, un giorno, diventare
altrettanto bella
e desiderabile, quanto se non più della povera sorella. Suo
padre aveva preso
il discorso qualche settimana dopo la morte di Lizzie: gli aveva detto,
senza
tanti giri di parole, che comprendeva il suo dolore per la perdita di
colei
che, oltre ad essere, sulla carta, la sua promessa sposa, era anche una
cara
amica, ma che ciò non avrebbe impedito le due famiglie di
continuare a sperare
di potersi, un giorno, unire.
In
un primo momento Caledon non aveva compreso, o forse aveva solo fatto
finta: ma
alla fine il duca gli aveva chiarito che quando Emma avrebbe raggiunto
l’età
adulta sarebbe stata lei la giovane Moore che avrebbe condotto
all’altare, e
che pertanto avrebbe fatto meglio a venire a patti con
quell’idea il prima
possibile. Se poi voleva prendersi del tempo per rifletterci e
rassegnarsi, il
padre glielo avrebbe concesso: ed era stato così che
Caledon, dopo aver
trascorso altri tre anni nell’università di
Cambridge, aveva deciso di partire
insieme al suo precettore per un lungo viaggio in Europa e nel Nuovo
Mondo.
Era
ritornato in Inghilterra solo nell’autunno del 1899, per
trascorrere gli ultimi
mesi del diciannovesimo secolo insieme alla sua famiglia; e in tutto
questo
tempo non si era degnato una sola volta di chiedere notizie di Emma, e
se la
madre gliene accennava in una delle sue lunghe lettere tendeva a
ignorare
quelle parti alla stregua di un bambino capriccioso. Ciò che
tuttavia non
immaginava e che gli era stato riferito solo all’ultimo
momento era che i duchi
di Suffolk erano stati invitati a passare le festività
natalizie presso la
residenza dei Grantham, e che lui sarebbe stato per la prima volta
presentato
ufficialmente – seppur comunque in un ambiente intimo e
privato – a Emma come
suo fidanzato.
Probabilmente
non avrebbe mai dimenticato quel momento: aveva varcato la soglia di
Hambleton
Abbey con l’aria del condannato a morte, infuriato con i suoi
genitori e
intenzionato a non rivolgere la parola a nessuno a meno che non fosse
stato
interrogato personalmente, ma tale proposito si era infranto non appena
il suo
sguardo rabbioso ebbe incontrato la graziosa fanciulla che, ritta al
fianco
della madre in attesa di porgere loro il benvenuto, gli aveva sorriso
con
timida e fredda gentilezza come se, in fondo, neppure lei fosse tanto
lieta di
quell’incontro.
Malgrado
tutti i suoi propositi, Caledon non era riuscito a staccarle gli occhi
di dosso
per tutta la sera, ammaliato come un qualunque ragazzino:
l’aveva osservata
rispondere alle domande di lady Suffolk con una pacata e inusuale
eleganza in
una giovane della sua età, aveva ammirato da lontano la sua
bellezza ancora in
sboccio ma assai promettente – nulla a che vedere con la
sorella, certo, ma lui
ormai Elizabeth non la rammentava più – aveva
colto l’arguzia e lo spirito
della sua conversazione e aveva, per la prima volta da che la
conosceva,
desiderato di poter rimanere da solo con lei per godere della sua
compagnia.
Quando
ebbero lasciato Hambleton alla fine di quella vacanza, senza che lui ed
Emma si
fossero scambiati in realtà che poche parole di circostanza,
Caledon era
decisamente più bendisposto nei confronti di quel matrimonio
di quanto non lo
fosse al momento del suo arrivo.
Eppure
Emma non aveva mai dimostrato neppure una parte del suo stesso
entusiasmo. Per
quanto Caledon si fosse sforzato di conquistarla, di farsi apprezzare
da lei,
di fare breccia nel suo cuore o perlomeno di guadagnarsi un briciolo di
affetto, non vi era mai riuscito. Aveva addirittura pensato che il
cuore della
sua nuova fidanzata potesse appartenere a qualcun altro, ma poi aveva
scoperto
che i suoi genitori l’avevano sempre tenuta lontano da altri
eventuali
spasimanti – il tutto al solo scopo di agevolare
quell’unione. La giovane Emma Moore
era semplicemente irraggiungibile, come una piccola regina di ghiaccio,
ed era
una cosa che lo faceva impazzire.
Fu
il rumore della porta che si apriva e si richiudeva, subito seguito
dalla voce
di suo padre, che lo fece riemergere dal limbo dei ricordi.
«Allora, queste
novità?» Domandò il duca con un mezzo
sorriso, andando a sedersi di fronte a
lui. «Sei chiuso qui dentro da oltre mezz’ora,
iniziavo a preoccuparmi.»
«Sai,
papà, credo che non ci sia nulla di cui
preoccuparsi», replicò Caledon,
ricambiando il sorriso. «Penso che andrò a trovare
Emma prima di proseguire per
Inverness, la sua tenuta è di passaggio. Tu
approvi?»
«Non
è a me che devi chiederlo. Senti lord Grantham, piuttosto,
dovrebbe essere
ancora in città», fece lord Suffolk, accendendo un
sigaro. «Hai intenzione di
mandarle un telegramma? Non credo che una lettera di risposta riesca ad
arrivare
prima di te.»
«In
realtà contavo di farle una sorpresa. Dopotutto è
lì con la sua istitutrice e
io sono il suo fidanzato, non c’è nulla di
sconveniente, giusto?» Chiese per
scrupolo, aggrottando la fronte.
Il
padre inarcò un sopracciglio, improvvisamente malizioso.
«Sarebbe sconveniente
solo se tu ti fermassi a dormire…»
Caledon
liquidò l’idea, per quanto considerandola
intrigante, con una mezza risata. «Credimi,
Emma non me lo permetterebbe mai. Piuttosto mi caccerebbe via di
persona!»
Rispose, sperando di celare la delusione dietro un debole umorismo.
Se
anche lord Suffolk vi aveva fatto caso, non ne fece mostra.
«È un bene che
almeno uno di voi abbia la testa sulle spalle»,
decretò, aspirando una profonda
boccata del suo sigaro. Tuttavia gli fu impossibile continuare a
ignorare il
repentino malumore del figlio, e si sporse verso di lui per battergli
gentilmente una mano sul ginocchio. «Su, figliolo, avrete
tutto il tempo del
mondo per stare insieme, dopo il matrimonio.»
«E
tu pensi che mi sposerebbe lo stesso, se la sua famiglia non la
obbligasse a
farlo?» Ribatté l’altro con un astio
improvviso, fissando il padre di
sottecchi.
Il
duca sospirò, scuotendo piano il capo. «Certo che
no. Nessuna donna perbene
dovrebbe accettare di sua spontanea volontà una proposta di
matrimonio, è una
cosa volgare e adatta ai contadini.»
«Per
l’amor di Dio, papà, hai capito benissimo cosa
intendevo.»
«No,
invece. Cal, le unioni tra nobili non contemplano chissà
quale sentimento, se
non il rispetto, quando si è fortunati. Se cerchi
dell’altro, ebbene, non
dovrei essere io a dirti che esistono altre… soluzioni.
Tutta la stima che nutro nei confronti di lord Grantham
non sopprime la mia convinzione che l’unico ruolo della tua
fidanzata è quello
di darti un erede e una compagna elegante da mostrare agli eventi
ufficiali,
insieme naturalmente ai suoi possedimenti.»
Un’altra boccata dal sigaro. «Sinceramente
non so che cosa vuoi sentirti dire. Speravi che si innamorasse di te, o
che già
lo fosse? Cal, hai trent’anni e sei l’unico erede
di un impero che ci invidiano
persino i membri della famiglia reale. Non puoi cullarti in questi
sogni di
bambino. Credevo che ormai avessi compreso che il matrimonio
è solo un affare.»
«Perdonami,
papà, per aver desiderato che la mia fidanzata mi volesse
almeno la metà di
quanto io voglia lei», sibilò Caledon alzandosi in
piedi con uno scatto
rabbioso, per niente disposto ad ascoltare una sola parola di
più. «Credo che
sia meglio concludere qui la discussione. Manderò un
messaggio a lord Grantham
per avvisarlo della mia idea, sempre che tu non abbia da ridire anche
su
quella.»
«Questo
tuo atteggiamento è ridicolo, e non ti porterà
nulla di buono», lo riprese
freddamente il duca, senza più tanta voglia di scherzare.
Per un attimo Caledon
rivide l’uomo che tanti anni prima usava ordinare al vecchio
stalliere di
batterlo per poi osservare impassibile mentre il servo obbediva, forse
con
troppo fervore, e fu talmente turbato da quel ricordo
d’infanzia da distogliere
lo sguardo. «Francamente, figliolo, ti credevo fatto di
tutt’altra pasta.»
Se
avesse potuto, probabilmente l’avrebbe fatto frustare ancora
una volta. «Mi
dispiace aver deluso le tue aspettative, padre»,
ribatté Caledon prima di
uscire dallo studio senza aggiungere una sola parola, talmente in
fretta come
se ciò potesse farlo scappare da quel tempo che credeva
d’essersi ormai
lasciato alle spalle. Si trattenne a stento dallo sbattere la porta con
furia
dietro di sé, e solo perché non voleva avvalorare
la convinzione di lord
Suffolk di avere a che fare con un figlio dal comportamento infantile.
«Milady,
avete… avete una visita.»
Emma
sollevò lo sguardo dalle carte che stava studiando e
ricopiando accuratamente
da qualche ora – vecchi progetti e planimetrie della casa,
così ingialliti e
macchiati di umidità da rendere a dir poco ardua la lettura
– per posarlo sulla
governante che appariva titubante e preoccupata mentre se ne stava
sulla soglia
della porta come un’anima in pena. «Non aspettavo
nessuno. È il signor
Carlisle?» Si informò, mettendo da una parte suo
malgrado le piantine del
castello.
«No,
milady. Un certo Caledon Hardy, dice di essere… ecco, il
vostro fidanzato?»
Buon Dio, non è
possibile. Emma
sbatté le palpebre, accigliata, metabolizzando quanto aveva
appena sentito.
Caledon era davvero lì, a Pemberley? Per quale motivo era
arrivato senza farsi
annunciare, senza avvisarla? Forse un telegramma l’avrebbe
ucciso, se si fosse
dato pena di spedirlo in tempo, o era successo qualcosa? E
non sarebbe stato inappropriato riceverlo da sola, senza uno chaperon
a mitigare la sua irruenza? Cercò di tenere a bada
l’irritazione mentre si
ricomponeva, prima di rispondere a Mrs. Duncan.
«Sì, signora Duncan, è il mio
fidanzato. Dov’è adesso?»
«Sta
attendendo nell’ingresso», fece la donna,
palesemente incuriosita.
«Fatelo
accomodare qui in biblioteca, per cortesia. E vi dispiacerebbe portarci
anche
qualcosa da bere? Il tè, e qualcosa di forte, magari
– lord Caledon deve aver
fatto molta strada e sarà stanco»,
ordinò, alzandosi in piedi. La donna la
lasciò sola, ed Emma ne approfittò per darsi
sbrigativamente una sistemata;
anche senza specchio sapeva che il suo aspetto era trascurato
– la gonna
sgualcita per la prolungata posizione seduta, la treccia che lasciava
sfuggire
sottili ciocche di capelli, gli occhi stanchi per le notti insonni e un
colorito così pallido da far invidia a una statua
– ma a quel punto non poteva
sparire nella sua stanza per cambiarsi d’abito o pettinarsi
meglio. La sua era
infine soltanto una sciocca e istintiva vanità, dato che non
poteva essere meno
interessata di così dal fare una buona impressione sul suo
fidanzato.
Riuscì
solo a riabbottonarsi il colletto e a pizzicarsi le guance per farvi
tornare un
po’ di colore, prima che la porta della biblioteca si aprisse
una seconda volta
e la voce di Mrs. Duncan annunciasse l’ospite.
«Mia
cara Emma», esclamò l’uomo con un
sorriso, interrompendo a metà l’annuncio della
governante. Entrò nella biblioteca come un fulmine a ciel
sereno, sfilandosi con
un gesto elegante guanti e cappello.
Emma
non vedeva Caledon dal funerale di lady Grantham – il che
significava che era
trascorso più di un mese da quando i due promessi sposi si
erano ritrovati
insieme nella stessa stanza. Non sapeva se ciò fosse un bene
o un male, ma il
giovane le sembrò pressoché identico a come lo
aveva lasciato – lei, d’altra
parte, si sentiva profondamente cambiata, come se il lutto
l’avesse trasformata
in un’altra persona.
Avvolto
in un elegante completo di sartoria color tan, con un doppiopetto
marrone e i
bottoni d’oro, Caledon era l’immagine perfetta e
poetica dello spensierato
nobiluomo inglese in gita in campagna. Era bello, di quella bellezza
mascolina
che fa nascondere dietro a un ventaglio il viso arrossato delle
fanciulle, e
che provoca invidia negli altri uomini: questo Emma poteva dirlo senza
vergogna
né desiderio, perché non era nulla più
che la semplice verità. I capelli erano
di un castano indefinito che parevano cambiar colore a seconda della
luce che
li colpiva, corti e tirati indietro con l’umile cura del
gentiluomo che non
vuole apparire né disordinato né troppo dandy; il
volto possedeva dei tratti
greci, un mento forte, una bocca che sorrideva volentieri, e degli
occhi che a
loro volta potevano sembrare grigi o azzurri, circondati da ciglia
folte che
stonavano con il colore chiaro dei capelli e della leggera peluria che
gli
ombreggiava i lineamenti del viso.
Pareva
non avere altra occupazione se non cacciare volpi e correre dietro alle
gonne
delle fanciulle – si accorse del pensiero
poco delicato che aveva avuto nei suoi confronti solo dopo averlo ormai
concepito.
Fu
per farsi perdonare che avanzò di qualche passo verso di
lui, incontrandolo al
centro della stanza e porgendogli una mano – quando si
accorse che aveva le
dita indecentemente macchiate d’inchiostro, era troppo tardi
per ritirarla
senza apparire oltremodo scortese. «Caledon, questa
sì che è una visita
inaspettata», lo salutò, cercando di sorridere nel
modo più gentile possibile. «Se
mi aveste avvisata in tempo, vi avrei preparato
un’accoglienza diversa. Mi
dispiace che dobbiate vedermi in queste condizioni.»
«Siete
incantevole come sempre, mia cara», ribatté lui
con fare galante, prendendole
la mano e sfiorandola con un bacio fugace. «E avvisarvi in
tempo sarebbe stato
davvero impossibile, giacché la mia partenza è
stata pressoché improvvisa;
neanche un telegramma sarebbe riuscito ad arrivare prima di
me.»
«Ah,
siete in viaggio per affari, dunque?» Gli domandò,
facendogli cenno di seguirla
presso il camino che scoppiettava allegramente. Come voleva
l’educazione,
Caledon attese che lei prendesse posto su una poltrona prima di sedersi
a sua
volta su un divanetto di fronte, lasciando poi il cappello sul cuscino
al suo
fianco.
Mrs.
Duncan li raggiunse subito dopo seguita da una silenziosa Lydia, che
spingeva
con lo sguardo basso un carrellino in legno e ottone sul quale faceva
bella
mostra di sé un distinto servizio di porcellana.
«Non
esattamente. Alcuni amici di Cambridge mi hanno invitato a trascorrere
un paio
di settimane a Inverness, e non ho resistito alla tentazione di deviare
il
percorso per venirvi a trovare.»
«Oh,
avete avuto un pensiero gentile. Ve ne sono grata»,
annuì lei educatamente,
accennando un sorriso ma senza minimamente arrossire come avrebbe di
certo
fatto qualsiasi altra fanciulla. Prima di proseguire con la loro
chiacchierata,
Emma si scusò e si voltò verso le due domestiche
che attendevano un suo cenno
per versare il tè.
Caledon
doveva ammettere di essersi immaginato in modo diverso
quell’incontro. Durante
il lungo viaggio in treno, mentre alternava l’ennesima
lettura della lettera di
Emma a quella più prosaica del giornale, diversi scenari
avevano preso forma
nella sua mente: assai poeticamente si era figurato la sua fidanzata
mollemente
semi-distesa su una chaise-longue, circondata da profumati vasi di
fiori e con
il delizioso nasino sepolto tra le pagine di un libro, magari proposto
dalla
sua istitutrice, mentre leggeva poesie di Coleridge o Wordsworth. Aveva
sperato, forte dell’elemento sorpresa, di coglierla in un
momento d’intimità,
con la guardia abbassata, come mai gli era capitato di trovarla; si era
persino
immaginato mentre sollevava i suoi begli occhi dal libro, sorpresa e
persino
lieta di vederlo – almeno tra sé e sé
poteva sperare – per poi sollevare un
braccio e invitarlo ad avvicinarsi, dolcemente, come si
confà a una fanciulla
innamorata.
Era
rimasto dunque un poco deluso quando l’incontro era
effettivamente avvenuto.
Certo, non gli era mai capitato di vederla scarmigliata e vestita come
una dama
di campagna – non aveva alcun gioiello addosso, neppure
l’anello che le aveva
regalato per il fidanzamento, segno che, contrariamente alle usanze,
non lo indossava
sempre… lui dovette persino fingere che ciò non
l’avesse offeso – e dunque
questo poteva in parte soddisfare il suo desiderio di
intimità… Ma il muro che
l’avvolgeva era sempre ritto e indistruttibile, forse
più di prima, ed era ben
visibile anche attraverso il sorriso di cortesia che gli aveva rivolto.
E
adesso, mentre lei era impegnata a dare disposizioni alla governante
circa il
tè da servire a entrambi – «Oppure
gradite qualcos’altro, Caledon?» No, lui
avrebbe preso quello che prendeva lei – non poteva fare a
meno di osservarla di
sottecchi, pensieroso, con le sferzanti parole di suo padre che ancora
gli
rimbombavano nel cranio. Il vecchio duca era sicuro – no,
anzi: sapeva con certezza – che il
matrimonio ci
sarebbe stato; era un evento che veniva programmato sin da quando
Caledon
poteva rammentare, e sinceramente non ricordava che ci fosse stato un
solo
giorno nella sua vita in cui lui non era stato promesso a una fanciulla
Moore.
Anche solo pensare che potesse andare diversamente, dunque, era fuori
discussione.
Caledon
poteva quindi cullarsi su tale sicurezza, diavolo, poteva persino
smettere di
cercare disperatamente di conquistare la ragazza – sarebbe
stata sua in ogni
caso! Eppure la sua mente non aveva neanche finito di formulare quel
pensiero
che lui già se ne era pentito. In quel caso non sarebbe
stata, forse, una
vittoria gretta e vuota? Che cosa avrebbe guadagnato, se non la
prospettiva di
una vita da trascorrere insieme a una donna che non voleva avere nulla
a che
fare con lui, e che non si ribellava solo per quieto vivere e spirito
di
martirio? Si era sempre vantato di non essere cinico come suo padre, e
voleva
continuare a credere di essere fatto di una pasta diversa.
Ma
si rivelava ogni giorno più difficile. Emma, per
chissà quale strano motivo,
aveva uno strano modo di apparire circospetta ogniqualvolta si trovava
accanto
a lui. Ogni sua parola pareva venire misurata e pesata con attenzione,
gli
sguardi centellinati, i piccoli sorrisi rari e per questo motivo sempre
meravigliosamente apprezzati quando lui ne era il destinatario. Forse
bisognava
biasimare l’educazione che aveva ricevuto – era
poco più che una bambina quando
le era caduto sulle spalle il fardello di quel matrimonio, e senza
alcun dubbio
i suoi genitori l’avevano cresciuta da allora con
l’obiettivo di renderla una
candidata perfetta al suo futuro ruolo di duchessa. Era, in effetti,
pressoché
priva di qualsiasi difetto: era posata, educata, gentile, e aveva
quell’innata eleganza
che faceva sì che non sembrasse mai fuori luogo, a
prescindere dalla
situazione. Un vero peccato che fosse sempre così gelida nei
suoi confronti.
Quando
finalmente le due domestiche li ebbero lasciati soli, Caledon
tirò un breve
sospiro di sollievo e sollevò gli occhi per posarli su Emma.
Rimase per un
attimo spiazzato quando si accorse che anche lei lo stava osservando
con
un’aria assorta, ma il momento terminò fin troppo
rapidamente – quando si
accorse di essere stata scoperta Emma batté le palpebre,
arrossì leggermente e
riabbassò lo sguardo.
«Perdonatemi»,
disse, facendo ruotare il cucchiaino d’argento nella tazzina.
«È solo un po’
strano vedere un volto familiare tra queste mura.»
«Spero
che sia anche piacevole», la provocò con un
sorrisetto, osservandola
attentamente. Odiava il non essere capace di comprenderla, il non
riuscire a
capire che cosa le passasse per la mente solo guardandola: il suo unico
conforto era la speranza che questo sarebbe cambiato col tempo, una
volta
sposati.
Sorprendentemente,
le labbra di Emma si sollevarono in un piccolo sorriso. «Oh,
sì, lo è», fu la
sua gentile risposta. Chissà se lo intendeva davvero?
«Mi ero quasi rassegnata
a trascorrere da sola queste settimane prima dell’arrivo di
mio padre, sapete,
e come vedete non sono molto presentabile»,
continuò, un po’ imbarazzo; un
conto era raggiungere sir Carlisle con un’improvvisata e poco
ortodossa tenuta
da amazzone, e un altro era lasciare che il suo fidanzato –
che chissà cosa
poteva raccontare a suo padre il duca, per l’amor di Dio
– la vedesse in
condizioni che non fossero impeccabili. Aveva l’impressione
di essere
costantemente sotto una lente di ingrandimento quando si trattava di
doversi
rapportare con il suo fidanzato e la sua severa famiglia –
anche se doveva
ammettere che non aveva visto nulla nello sguardo di Caledon che non
fosse
affetto.
«Ad
ogni modo, non voglio tediarvi con noiosi racconti della mia vita in
campagna.
Raccontatemi voi qualcosa», propose, cambiando argomento.
«Stavate accennando a
un viaggio a Inverness?»
Il
pomeriggio trascorse malgrado tutto in modo piacevole; entrambi
sapevano
maneggiare la sottile arte della conversazione, sicché non
ci furono silenzi né
troppi imbarazzi tra i due fidanzati: la loro era comunque una
conoscenza di
lunga data, e il tempo crea una strana intimità anche tra i
nemici. Forse fu
l’assenza di uno chaperon, o forse fu il bisogno che Emma
aveva di sfogare
quelle settimane trascorse senza il beneficio della compagnia di
qualcuno con
cui chiacchierare – se almeno Lydia non fosse stata muta,
povera ragazza –
fatto sta che l’atmosfera tra loro si era fatta molto
più rilassata di quanto
non fosse all’inizio dell’incontro, o in tutti
quelli che avevano avuto luogo
tra le mura di Hambleton e alla presenza più o meno discreta
di miss Radcliffe.
In effetti, rifletterono entrambi, quella era la prima volta che si
ritrovavano
effettivamente da soli.
Il
cielo andava scurendosi rapidamente al di là delle grandi
vetrate della
biblioteca, e questo fu il segnale per Mrs. Duncan di tornare a
cambiare le
candele e attizzare il fuoco del camino. Poi, benché
sembrasse disapprovare
l’idea, non poté astenersi dal domandare se lord
Caledon aveva intenzione di
fermarsi a cena.
Più
tardi Emma si sarebbe domandata da dove fosse uscita la sua risposta.
«Certo,
signora Duncan. Lord Caledon sarà nostro ospite»,
disse, con una spontanea
sicurezza che di solito non le apparteneva – perlomeno non in
situazioni
simili. Con un mezzo sorriso, poi, si voltò verso di lui e,
quasi compiaciuta
nel notare la sua espressione sorpresa, aggiunse: «Anzi, non
sarebbe meglio se
trascorreste la notte al maniero? L’ultimo treno parte alle
nove, e da qui non
arriverete mai in tempo alla stazione.»
«Non
vorrei essere di troppo disturbo», replicò
incerto, spostando lo sguardo da
Emma alla governante e viceversa; non si aspettava quel genere di
invito da
parte della sua fidanzata, anche se sicuramente era stato fatto in
completa
buonafede e senza alcuna malizia.
«Nessun
disturbo. Con che coraggio potrei lasciarvi andare via a
quest’ora, poi?» Lo
tranquillizzò lei prima di voltarsi verso la domestica.
«Mrs. Duncan, preparate
la camera Luigi Filippo al primo piano.»
«Come
desiderate, milady», mormorò la donna, accennando
un inchino prima di lasciarli
nuovamente soli.
A
Emma non era sfuggita l’espressione contrariata della signora
Duncan – per un
momento aveva temuto che la donna potesse persino arrivare a
contraddirla
davanti a Caledon; per fortuna, la governante doveva avere ancora
qualche
rimasuglio di buona educazione, perché si limitò
ad annuire e sparire
velocemente oltre le porte della biblioteca. Ora iniziava a comprendere
per
quale motivo sua madre, la compianta lady Grantham, avesse puntualmente
degli
scatti di nervosismo che talvolta sfociavano in risposte brusche e
gelide; non
le si poteva dar torto, se gestire la servitù di Hambleton
era difficile e
snervante tanto quanto quella di Pemberley.
Il
suo breve momento di distrazione venne interrotto dalla voce, ora
quanto mai
piacevole, del suo ospite. «Siete una perfetta padrona di
casa, Emma», fu la
sua gentile osservazione. Qualcosa nel suo tono le rese chiaro verso
quale
direzione stessero vertendo in quel momento i pensieri di Caledon, e
non poté
fare a meno di arrossire leggermente. Un giorno, probabilmente neanche
troppo
lontano, sarebbe stata davvero la signora e padrona di una magione
– avrebbe
avuto uno stuolo di domestici che avrebbero risposto a lei, e avrebbe
dovuto
gestire la corrispondenza, e organizzare gli eventi, e persino
approvare i menù
dei pasti: compiti per i quali era stata preparata alla perfezione,
certo, ma
che, e al riguardo non nutriva alcun dubbio, sua sorella avrebbe svolto
assai
meglio e con maggior grazia.
«Credo
che anche questo rientrasse nei piani di mio padre»,
replicò con una breve
scrollata di spalle. «Ama mettermi alla prova, e di certo
sapeva che gestire
una simile magione, per quanto non ci sia da fare poi un
granché, avrebbe
richiesto degli sforzi. Non ho mai avuto modo di prendere le redini di
Hambleton, sapete, neanche quando… quando mia madre era
impossibilitata a
farlo.»
La
sua voce si incrinò nell’ultima frase –
le faceva ancora uno strano effetto
nominare sua madre ad alta voce all’interno di un discorso,
quasi come se
temesse di disturbarne il ricordo in quel modo –
così tacque, e nascose il suo
disagio versandosi un’altra tazza di tè.
Quasi
sussultò quando la mano priva di guanti di Caledon si
posò sopra la sua
altrettanto spoglia, e una strana sensazione la prese alla bocca dello
stomaco
nel sentire il calore della sua pelle contro la propria.
Sollevò gli occhi su
di lui, e trattenere le lacrime fu terribilmente difficile nel notare
lo
sguardo che le stava rivolgendo.
Perché si
comportava così? Perché era così
comprensivo, con lei, quando lei non lo
trattava che in modo disinteressato? Tale
dato di fatto le procurò un’inattesa fitta di
rimorso, che per la prima volta
la fece vergognare del suo atteggiamento nei confronti di Caledon.
Sospirò,
abbassando lo sguardo e fissando le proprie dita che permettevano a
quelle di
lui di intrecciarsi ad esse. «Sono lieta che siate
qui», ammise piano, prima
che la ragione potesse farle cambiare idea.
Fingendo
che quella confessione non facesse parte di un evento terribilmente
straordinario, Caledon si limitò a sorriderle, e ad
apprezzare quel raro
momento di confidenze con la mesta consapevolezza che avrebbero potuto
non
essercene altri per parecchio tempo. «Lo sono
anch’io.»
La
visita di Caledon aveva riportato in superficie, tra le altre cose, la
nostalgia per sua sorella, la povera Lizzie. Prima di coricarsi, Emma
fece
qualcosa che aveva trascurato per parecchio tempo: accese una candela
per lei e
mormorò qualche preghiera, chiedendole perdono per
l’ennesima volta per averla
sostituita come fidanzata del futuro lord Suffolk.
Benché
all’epoca fosse stata solo una bambina, Emma rammentava
ciò che Lizzie usava
raccontarle ogniqualvolta Cal andava a far loro visita –
l’entusiasmo della
ragazza, i suoi occhi luminosi, il sorriso in cui si apriva quando
immaginava
la sua vita da duchessa al fianco del giovane di cui era pazzamente
innamorata
– e anche se il suo raziocinio le ripeteva che sentirsi in
colpa era sciocco,
che non era colpa sua e che non aveva tecnicamente rubato lo sposo alla
sorella, Emma non poteva fare a meno di provare un forte disagio.
Naturalmente
riusciva a ben mascherarlo, anche se la facilità con cui
Caledon pareva essersi
dimenticato di Elizabeth talvolta le dava sui nervi; eppure era certa
che, per
quanto la riguardava, l’ombra di Lizzie avrebbe oscurato il
suo matrimonio per
tutti gli anni a venire.
«Un
giorno ti sposerai anche tu, Emma, con un conte o un duca, o persino un
marchese! Sarà giovane e bello, e tu te ne innamorerai
follemente, e allora
capirai ciò che io provo adesso», le ripeteva
Lizzie fino alla nausea, quando
si bisbigliavano segreti sotto le coltri del letto che di tanto in
tanto
condividevano. All’epoca Emma non sapeva che non avrebbe
avuto nessuna voce in
capitolo nella scelta del proprio sposo, così come
d’altronde non l’aveva avuta
neppure Lizzie; ed entrambe erano così giovani, ingenue e
spensierate, che
pareva non poterci essere nulla capace di turbare il loro piccolo mondo
dorato.
Rammentare quel periodo della sua vita era come rammentare un
bellissimo sogno,
che si era bruscamente interrotto il giorno in cui Lizzie era caduta da
cavallo:
ogni cosa era stata spazzata via da un uragano di disperazione e i
sogni delle
due sorelle erano crollati come un fragile castello di carte. Niente
più
passeggiate nel parco, né picnic, né leggere
insieme favole e poesie o
sgattaiolare di nascosto in cucina per trafugare qualche dolcetto prima
di
andare a letto… La vita di Lizzie era stata distrutta e
l’infanzia di Emma
interrotta bruscamente, e per questo non vi era alcun rimedio.
Tuttavia,
se davvero doveva essere del tutto sincera con sé stessa
– e se doveva prendere
in attento esame i suoi sentimenti – non poteva negare che ci
fosse stato un
momento, quando era più piccola, in cui l’idea di
dover sposare Caledon non le
era risultata particolarmente spiacevole. Per un breve periodo aveva
provato
l’infantile eccitazione che deriva dal sapere di possedere il
futuro di un uomo
– un uomo nel fiore della giovinezza, di
bell’aspetto, di nobili natali per il
quale un giorno non troppo lontano sarebbe stata la terra intorno alla
quale
ruotare; allora era troppo piccola per intenderla in termini diversi da
quelli
delle favole, ovviamente, ma adesso sapeva perfettamente che cosa aveva
osato
sognare.
Questa
sensazione era svanita non appena era stata abbastanza matura da
comprendere
che tale lama possedeva un doppio taglio, giacché se lui
sarebbe appartenuto a
lei, lei sarebbe stata sua di conseguenza. E questa idea non le piaceva
minimamente. Se pensava che aveva avuto persino l’ardire di
discutere con suo
padre a tal proposito, e di minacciarlo che se non avesse sciolto quel
ridicolo
fidanzamento – aveva solo undici anni, per l’amor
di Dio! – avrebbe trovato un
modo per fuggire di casa e mandare tutto all’aria…
Non sapeva se ridere o
piangere al ricordo. Che ingenua era stata, e che sciocca; ma ci
avevano ben
pensato sua madre e miss Radcliffe a riportarla con i piedi per terra,
e a
spiegarle in tutti i modi che era una donna, e che come tale non
avrebbe mai
avuto una vita facile – soprattutto, che non avrebbe mai
avuto pieno controllo
su di essa.
Eppure,
guardatela adesso! Avrebbe forse osato invitare il suo fidanzato a
passare la
notte sotto il suo stesso tetto, se davvero fosse stata impotente come
volevano
farle credere? Avrebbe forse discusso con i domestici e osato uscire da
sola
per una passeggiata attraverso la brughiera, se fosse stata
così fragile?
Forse però non avrebbe
dovuto invitare Caledon a trascorrere la notte al maniero. Che cosa
avrebbero
pensato miss Radcliffe e suo padre? Era
stata una decisione dettata più dal buonsenso che dal
desiderio di averlo
accanto, lo ammetteva – con che cuore avrebbe potuto mandarlo
a prendere il
treno con la tempesta che imperversava fuori, e il buio pesto che
avvolgeva il
castello? – ma forse avrebbe dovuto rifletterci meglio, visto
che non era una
cosa molto ortodossa da fare. Come se non bastasse, quando si erano
ritirati in
salotto dopo cena, per trascorrere un po’ di tempo accanto al
fuoco prima di
ritirarsi per la notte, era stata tormentata dall’orrenda
sensazione di essere
osservata da ogni angolo – da ogni muro, da dietro ogni
tenda, da ogni quadro.
Era come se qualcosa stesse cercando di farle capire che aveva fatto un
terribile errore a invitare Caledon a dormire a Pemberley – e
lei lo sapeva, oh
sì, ma era troppo tardi per tornare sui suoi passi. Che male
poteva mai fare,
dopotutto? Caledon era un gentiluomo, e la stanza che gli aveva fatto
preparare
era nell’ala opposta del corridoio rispetto a dove si trovava
la sua.
Il
pensiero che presto non ci sarebbe stato nessun corridoio tra le loro
stanze la
metteva in agitazione. Presto avrebbe dovuto condividere con lui
un’intimità
per la quale non si sentiva ancora pronta – e la cosa
peggiore era che non
poteva più fare affidamento su parole confortanti e
rassicuranti di sua madre
al riguardo. Non avrebbe affrontato quel momento in totale ignoranza,
certo –
miss Radcliffe le aveva accennato qualcosa, e nella biblioteca di
Hambleton si
potevano trovare volumi che trattavano davvero qualunque argomento
– ma proprio
per questo l’angoscia era tale da impedirle persino di
rilassarsi quando era in
sua compagnia.
Sospirò,
seppellendo il volto sul cuscino. Era un
incubo. Non ci sarebbe dovuta essere lei in quella situazione
– se solo
Lizzie avesse dato retta alla loro madre quando le veniva detto di non
fare
acrobazie particolari con il suo cavallo… Di solito non lo
dava a vedere, si era
sempre comportata come una signorina a modo, ma in cuor suo Lizzie
aveva avuto
un animo ribelle, avventuroso: in questo si somigliavano. Dio, non
trascorreva
giorno in cui non sentisse la sua mancanza, in cui non si immaginasse
come
sarebbe stata la loro vita se Lizzie fosse sopravvissuta, e soprattutto
se lei
non avesse preso il suo posto come fidanzata dell’erede dei
duchi di Suffolk.
Quando vi rifletteva, come se non bastasse, c’erano persino
dei momenti in cui
arrivava a odiare il povero ricordo di sua sorella, che
l’aveva lasciata a far
fronte a quella maledetta situazione. Uno sciocco risentimento si
mischiava
alla nostalgia, e le rendeva arida la bocca e dolorante il cuore.
Si
addormentò a fatica, come ogni notte, con la mente invasa
dalle immagini
confuse di amari ricordi e l’oscurità della stanza
che pareva essersi fatta
d’un tratto più densa.
Margareth
Duncan non godeva di un sonno decente dal giorno in cui la giovane lady
Emma e
la sua istitutrice erano giunte al castello. Aveva immaginato che
sarebbe stata
una cattiva idea far entrare degli estranei a Pemberley, poco importava
che
fossero trascorsi tre lustri dall’ultima tragedia –
il signor Duncan aveva
imprecato ad alta voce, quando lo aveva saputo, e aveva borbottato che una
ragazza a Pemberley Manor non avrebbe
portato altro che guai – e malgrado ciò
non era stato in suo potere
impedire che ciò accadesse. Il nuovo proprietario aveva
infine deciso di
entrarne materialmente in possesso, mandando la sua unica figlia in
avanscoperta; non che gliene potesse fare una colpa – chi
avrebbe creduto alla
storia di una casa maledetta? Erano nel ventesimo secolo, per
l’amor del cielo,
e non si trovavano nel romanzetto d’appendice di un qualche
scrittore irlandese
– ma comunque, chi diavolo era l’uomo che mandava a
vivere la propria figlia da
sola in campagna?
Non
che lei non ne fosse sollevata, a voler essere sincera:
l’assenza di altri
estranei nella magione rendeva più semplice mantenere certi
segreti, e la loro
vita poteva grossomodo continuare come era stato negli ultimi quindici
anni –
l’idea che sarebbe potuta esistere la possibilità
di ospitare dell’altro
personale le risultava tanto raccapricciante da non fargliela nemmeno
prendere
in considerazione. Come spiegare a degli sconosciuti, infatti, che il
castello
a suo modo era vivo, e che come ogni creatura infernale pareva voler
esigere
come pegno il sangue di qualche innocente? Loro, ormai, avevano avuto
modo di
venire a patti con quella terribile verità durante il loro
lungo periodo di impiego
nella magione – Margareth rammentava ancora il giorno in cui
era arrivata a
Pemberley, quarantaquattro anni prima, come se fosse stato il giorno
precedente. Aveva quattordici anni, ed era alla ricerca di un lavoro
– uno
qualsiasi, avrebbe accettato di fare persino la sguattera, se
necessario – in
modo da non pesare più sulle spalle di una madre che, fresca
di vedovanza,
doveva crescere altri due figli.
Tutto
sommato era stata fortunata: era stata assunta come cameriera semplice
e ricopriva
ogni genere di mansione, ma era obbediente e volenterosa, e ben presto
queste
sue caratteristiche l’avevano resa cara all’allora
governante, Mrs. Griffiths,
che in poco meno di due anni l’aveva promossa a cameriera
d’alto livello –
ovverosia, le aveva fatto abbandonare i lavori sfiancanti in modo da
farle
assistere la sorella zitella di lady Rochester, che in quel periodo
abitava al
castello per aiutare la contessa a badare ai figli piccoli.
Più
il tempo passava, più la sua esperienza cresceva, e
Margareth si trovava sempre
più immersa nel ristretto e ambito mondo degli eccentrici
conti di Rochester.
Avendo dimostrato di essere discreta e degna di fiducia, Mrs. Griffiths
aveva
iniziato a renderla partecipe delle chiacchiere che venivano sussurrate
tra le
sale dei domestici, dietro le pareti, su una stretta scala a chiocciola
che
collegava le cucine ai piani superiori. La sua memoria era eccezionale,
e
l’aiutava a rammentare ogni cosa che le veniva detta: a
partire dai più
vergognosi pettegolezzi fino alle mezze verità e ai veri e
propri segreti.
Lavorava
a Pemberley Manor da più di due anni, ormai, quando
udì il primo accenno al
fatto che il maniero fosse maledetto. Poteva sembrare strano che non
fosse al
corrente di quelle voci, visto che gli abitanti del villaggio amavano
parlare –
e parlar male – dei ricchi aristocratici che abitavano nel
castello, ma forse
la sua età e la sua ingenuità l’avevano
tenuta lontana da quel genere di
discorsi. Poiché era stata una delle sguattere a prendere
l’argomento, mentre
trascorrevano la loro mezz’ora libera durante la cena dei
padroni in una
piccola anticamera, Margareth aveva pensato si trattasse di uno scherzo
per
indispettirla, giacché in pochi vedevano di buon occhio la
ragazza del
villaggio che aveva fatto carriera tutto ad un tratto; ma poi, la
curiosità
aveva avuto la meglio sul buonsenso, e si era ritrovata a voler sapere
di più
sull’argomento. Le sguattere e le cameriere erano state le
più propense a
chiacchierare, e a raccontare tutto ciò che sapevano, o che
credevano di
sapere, al riguardo; i camerieri invece le avevano detto di non essere
ridicola,
i valletti le avevano intimato di lasciar perdere, e la cuoca aveva
cambiato
bruscamente argomento. Non aveva osato domandare nulla a Mr. Weber, il
maggiordomo, perché l’uomo la intimoriva; con Mrs.
Griffiths, d’altra parte,
aveva un rapporto più confidenziale, e raccogliere il
coraggio per sollevare il
discorso con lei non era stato troppo difficile.
A
onor del vero, bisognava dire che Mrs. Griffiths non ebbe mai davvero
confermato
qualcosa riguardo la casa: chi può dire se fu la paura o la
cieca fedeltà verso
i padroni a farle tenere la bocca chiusa. Ma non le ebbe mai neppure
smentite,
cosa che portò la giovane Margareth a dormire con un occhio
aperto e a
trascorrere le giornate a guardarsi intorno con aria vigile, alla
disperata
ricerca di un qualche dettaglio fuori posto che confermasse o sfatasse
le
storie assurde delle sguattere. Probabilmente si era lasciata
suggestionare un
po’ troppo da quei racconti mormorati alla luce di una
candela – i giovani
tendono sempre a tenere in grande considerazione qualsiasi cosa esca
dalla
bocca dei più grandi – e tra sé e
sé si dava della stupida per esserci cascata
come un’ingenua qualunque. Eppure, quando andava al villaggio
in visita alla
sua famiglia, non poteva fare a meno di riflettere che l’aria
che respirava
lontano dalle mura di Pemberley era decisamente più leggera
e salubre. Si
accorgeva solo in quei momenti che qualcosa di malsano si annidava
negli angoli
più nascosti del maniero – c’era
qualcosa che trasudava dalle pietre e
circondava l’edificio, aggrappandosi a ogni appiglio e
nutrendosi della salute
mentale e fisica dei suoi abitanti, privandoli della sanità,
trascinandoli
verso lo squilibrio e rendendo paranoico ciascuno di loro. Era come un
cancro
che si nutriva incessantemente della loro linfa vitale, ed evitare di
parlarne
non serviva purtroppo a scacciare quell’orrenda sensazione.
Margareth
si era accorta presto che parlare di simili argomenti con i suoi
compaesani era
inutile e sciocco, giacché finiva per venire tacciata come
una piccola serva
maligna e ingrata che metteva in giro brutte voci sui suoi datori di
lavoro.
Persino sua madre l’aveva rimproverata di essere infantile
– «Mai mordere la
mano che ti nutre, Meg!» – e, neanche a
dirlo, non le aveva creduto. E come biasimarla? Lei stessa, adesso che
si
trovava al di fuori dell’influenza del maniero, stentava a
credere di essersi
fatta condizionare da quei racconti.
E
adesso quasi rimpiangeva quei tempi di innocente inconsapevolezza,
quando i
rumori notturni potevano essere facilmente attribuiti alle sguattere
che si
svegliavano ore prima dell’alba e camminavano frettolosamente
da una parte
all’altra del sottotetto, facendo ticchettare le scarpe sul
legno grezzo del
pavimento.
Povera lady Emma, pensò stancamente la
governante. Avrebbe tanto voluto dirle la verità –
malgrado le loro inevitabili
incomprensioni, in un certo senso la donna si era affezionata alla sua
giovane
padrona – ma non osava: temeva la vendetta della casa, e
temeva soprattutto la
vendetta di colui che l’abitava. Aveva vissuto abbastanza a
lungo nella magione
per sapere con terribile certezza che cosa essa faceva alle persone
– in
particolar modo ai proprietari.
Sospirò
ancora, sola nella grande cucina della magione, con l’unica
compagnia di un
candelabro e di panni da rammendare. Udì il rimbombo
dell’orologio a pendolo
del pianterreno, e seppe che erano le tre del mattino: fra un paio
d’ore Lydia
si sarebbe svegliata, e ogni cosa si sarebbe ripetuta esattamente come
il
giorno prima e quello prima ancora – e lei, come al solito,
non aveva chiuso
occhio.
Stava
per riprendere il suo lavoro di rammendo quando, nel silenzio,
udì un flebile
fruscio – l’aria parve addensarsi, le fiamme delle
candele tremolare, il buio
incupirsi – e d’un tratto seppe di non essere
più sola.
«Lui
la vuole.»
La
voce sgorgò dalle tenebre dietro di lei, una voce delicata,
un timbro elegante,
un tono quieto; la sorpresa la fece sussultare e l’ago le
punse il dito,
facendole macchiare di sangue la stoffa. Margareth conosceva bene
quella voce, benché
non la udisse da anni, e gli occhi le si inumidirono di lacrime non
versate.
«Lui
la vuole, Mrs. Duncan», riprese la voce con un accento
più deciso, ora
leggermente più vicina. «E la vuole anche la casa.
Bisogna impedirlo.»
Mrs.
Duncan serrò gli occhi, e rispose senza osare voltarsi.
«E in che modo? La
ragazza sta già cedendo alla seduzione
dell’oscurità, l’ho vista, me ne sono
accorta. Sta perdendo il contatto con il reale.»
«La
colpa è vostra, Mrs. Duncan», fu la brusca e
spietata replica. «Avete
assecondato gli ordini del mostro, e finirete per pagare amare
conseguenze se
non modificherete il vostro comportamento. Siete una donna saggia: so
che
troverete un modo.»
Malgrado
il velato complimento, le parole erano astiose e la donna non
trovò di che
ribattere, per cui si limitò ad un cenno positivo del capo.
«Erano anni che non
vi udivo», mormorò poi, quasi timorosa.
«Posso chiedervi che cosa vi ha spinto
a parlarmi ancora?»
Il
silenzio che seguì fu talmente lungo e pesante che la
signora Duncan temette
che non sarebbe giunta risposta; invece, contro le sue aspettative,
essa
arrivò. «In questo momento mi è
più a cuore il benessere della ragazza,
piuttosto che il rancore che nutro nei vostri confronti»,
rispose. «Per me non
esiste salvezza, ma per lei sì. Ho ritenuto opportuno
intervenire prima che
fosse troppo tardi.»
Benché
trovasse quella conversazione a dir poco curiosa, per non dire
incomprensibile,
Mrs. Duncan non osò manifestare le sue
perplessità. Si limitò a prenderne atto,
come si fa con le indiscutibili verità religiose, e a
comportarsi di
conseguenza. «Potrò contare sul vostro aiuto,
dunque?»
«Sì.»
Un’affermazione rapida, decisa, priva di un qualsivoglia
tentennamento. «Sappiate
che non sareste sola ad opporvi a lui, che avreste me e gli altri al
vostro
fianco.»
La
governante trattenne il fiato, sorpresa. «Anche gli
altri?» Mormorò con
riverenza.
«Ve l’ho
detto, Mrs. Duncan. La
casa è affamata, brama nuove anime… E tutti noi
siamo stanchi di vederla mietere
vittime in continuazione. Voglio sperare che concordiamo sul fatto di
voler
evitare che si ripeta il dramma dell’incendio,
sì?»
«Oh
sì, certo, Dio ce ne scampi», sussurrò
la donna, facendosi un rapido segno
della croce.
«Temo
che Dio non dimori più tra le mura di Pemberley»,
ribatté aspramente la voce. «È
tempo che vada, ora. Vi lascio al vostro lavoro… e
verrò io da voi, quando sarà
il momento.»
Mrs.
Duncan annuì, rassegnata. «Attenderò la
vostra visita, allora», acconsentì
piano. Non udendo tuttavia giungere alcuna risposta, la donna
finalmente posò
ago e filo sul tavolo e si voltò verso il punto dal quale
era giunta la voce –
ma ormai era di nuovo sola: la debole luce delle tre candele non
illuminò altro
se non le suppellettili della cucina e l’angolo vuoto accanto
all’enorme
camino.
«Grazie,
lady Nora», sussurrò, prima di tornare mestamente
al suo lavoro.
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Angolo Autrice.
Ehilà! E' trascorso parecchio tempo dall'ultimo capitolo - spero che vi ricordiate ancora la trama. xD Qui abbiamo persino un colpo di scena finale... e chi se lo aspettava? (Io no, devo ammetterlo - è stata una sorta di illuminazione improvvisa, spero che la Musa non sparisca :D E per questo devo dare la colpa/ringraziare la mia nuova ossessione per American Horror Story, di cui ho divorato tutte e tre le stagioni - Dio benedica lo streaming - in qualcosa come una settimana o poco più... come avevo fatto a vivere senza, finora? Comunque, bando a queste ciance.)
Stavolta non mi dilungherò molto, voglio limitarmi ai ringraziamenti. Indi per cui, un grazie enorme a Sylphs, Berserksgangr, Figlia di una guerriera, Jolly J, savy85 e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo, e una menzione particolare per Christine23 che mi ha spronato a scrivere e concludere anche questo sesto chapter in un tempo decisamente inferiore a quello che ci avrei messo se avessi dato retta alla mia demoralizzazione :D E, ovviamente, tantissimi grazie anche a tutti voi che continuate a leggere, silenziosi, e ad aggiungere questa storia tra i Preferiti e le Seguite!
Detto ciò, vi lascio! Se avete domande e curiosità potete trovarmi su Facebook, ask.fm e twitter - basta visitare la mia pagina "autore" per recuperare i link - e niente, mi fa piacere sentirvi e chiacchierare con voi ma vi lovverò lo stesso anche se resterete silenziosi. ù__ù
Baci e abbracci come al solito, non mi stancherò mai di ringraziarvi per essere giunti fin qui a leggere - buon proseguimento di serata!
La vostra
Niglia.
Angolo Autrice.
Ehilà! E' trascorso parecchio tempo dall'ultimo capitolo - spero che vi ricordiate ancora la trama. xD Qui abbiamo persino un colpo di scena finale... e chi se lo aspettava? (Io no, devo ammetterlo - è stata una sorta di illuminazione improvvisa, spero che la Musa non sparisca :D E per questo devo dare la colpa/ringraziare la mia nuova ossessione per American Horror Story, di cui ho divorato tutte e tre le stagioni - Dio benedica lo streaming - in qualcosa come una settimana o poco più... come avevo fatto a vivere senza, finora? Comunque, bando a queste ciance.)
Stavolta non mi dilungherò molto, voglio limitarmi ai ringraziamenti. Indi per cui, un grazie enorme a Sylphs, Berserksgangr, Figlia di una guerriera, Jolly J, savy85 e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo, e una menzione particolare per Christine23 che mi ha spronato a scrivere e concludere anche questo sesto chapter in un tempo decisamente inferiore a quello che ci avrei messo se avessi dato retta alla mia demoralizzazione :D E, ovviamente, tantissimi grazie anche a tutti voi che continuate a leggere, silenziosi, e ad aggiungere questa storia tra i Preferiti e le Seguite!
Detto ciò, vi lascio! Se avete domande e curiosità potete trovarmi su Facebook, ask.fm e twitter - basta visitare la mia pagina "autore" per recuperare i link - e niente, mi fa piacere sentirvi e chiacchierare con voi ma vi lovverò lo stesso anche se resterete silenziosi. ù__ù
Baci e abbracci come al solito, non mi stancherò mai di ringraziarvi per essere giunti fin qui a leggere - buon proseguimento di serata!
La vostra
Niglia.