Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: past_zonk    06/04/2014    0 recensioni
"Signor Holmes, la sua vita è una bugia."
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Quando Sherlock si volta a guardarlo, per vedere che espressione ha dipinta sul volto, è il terrore che gli si dispiega davanti.
Non c'è nulla.
Nulla, sul volto di John Watson. Un volto indistinto, come pixellato, un'immagine sfocata e spaventosa.
E, "John!" urla, perché non può sopportare che stia penetrando anche nel suo bozzolo felice, non può sopportare che dopo aver espugnato il suo Mind Palace stia passando anche a conquistare John, lui e John, Sherlock e John, quello che hanno. Non può sopportarlo, quindi chiude gli occhi e inizia a pregare. Non sa cosa, non sa come, non conosce nessuna preghiera, sono solo silenziosi susseguirsi di "John, John, John" e tanti, tanti respiri, più del normale, più del concesso.
Quando si risveglia da quest'incubo, è John che lo sta scuotendo, che cerca una scintilla di razionalità negli occhi di Sherlock, che lo abbraccia e gli dice che tutto va bene.
Per la prima volta, nonostante le braccia di John, Sherlock sente chiaramente che non va bene, no, che niente andrà bene, che non servirà a molto pregare.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ok, questo ritardo è inscusabile. Però ecco qui il nuovo piccolo nuovo capitolo :)
Mi piace il personaggio di Gregory: è anacronistico, del tutto al di fuori del tempo della narrazione. Come vuoi ci siano ancora navi in legno, nell'età moderna? Ed esplorazioni, e morti del genere?
Eppure mi piaceva, come idea. Anche se, come al solito, il risultato non mi sembra soddisfacente. Qualcosa di molto sospeso e più simile ad un'elucubrazione, che ad un capitolo vero e proprio. Spero nei vostri pareri,
eveyzonk.





Tredici Febbraio – parte due. Spin off: Ritratti di genere.
Capitolo due di quattro. Gregory Lestrade.
 
Nessuno osava chiedergli cosa fosse successo in mare. Era una delle poche costanti dell’ospedale St. Petyr. Ci avevano provato, senza ombra di dubbio, per anni ed anni, ma nessuno era riuscito a cavare una parola al comandante di nave Greg Lestrade. Si diceva fosse stato al comando di una nave d’esplorazione chiamata Missouri, in onore della flotta da guerra americana. Si dicevano tante cose sui viaggi di quella nave, situazioni orribili che il capitano aveva vissuto, avventure al limite del possibile.
Si diceva – ed era l’ipotesi più pittoresca di tutte – che era stato costretto a mangiare i suoi sottoposti per vivere, e che, una volta tornato a Londra, aveva smesso di punto in bianco di parlare e si fosse consegnato all’istituto di cure psichiatriche.
Quello che la gente non sapeva, era che Greg parlava continuamente.
Molti dottori si chiedevano perché si fosse ritirato di propria volontà in ospedale, altri capivano perfettamente la sua condizione di auto-esilio dalla società. Evidentemente per Greg era tutto troppo da sopportare, dopo il lungo isolamento del viaggio. Ripartire sarebbe stato un suicidio, cercare di rifarsi una vita un pericolo, così aveva deciso di chiudersi in un bozzolo di protezione e passare in tal modo il resto dei suoi giorni.

Quello che la gente non sapeva, era che Greg parlava con-ti-nua-men-te.
 
Il mattino andava declinando lentamente verso una luce più calda, ed era quello il momento della giornata in cui Gregory s’alzava, osservando ogni giorno la finestra al lato opposto della stanza, e mettendosi a sedere sul letto, meditabondo. Le sue azioni avevano un non so ché di abitudinario, come se fossero tutte parte di una lunga catena; tolto un anello, quello che restava non si reggeva più correttamente.
Era estremamente importante, il saluto alla finestra. Greg guardava prima la distesa di alberi alla sinistra, poi il campo verde alla destra. Chinava il capo al pioppo che si ergeva sul primo piano di questo dipinto, e poi passava a concentrarsi sui più piccoli rumori. La sua giornata non poteva iniziare, altrimenti. Nella sua mente, ogni fruscio di foglie ed ogni lucertola che, impacciata, trascinava la lunga coda fra le frasche, era essenziale. Il rumore dell’acqua corrente nella stanza affianco, i primi pazienti svegli e irrequieti. I passerotti. Cinguettii pulsanti e forti.
Gregory parlava continuamente. Alzava il capo al Sole, lo guardava senza distogliere lo sguardo, la pelle ancora indurita dai lunghi giorni in mare, chiedeva in qualche modo perdono.
Si era reso conto che le parole, a un certo punto dell’esperienza umana, non avevano più un senso; perché quando si riesce a vedere un significato superiore, inizia anche a delinearsi una sottile linea di separazione fra l’umano e il divino, fra le convenzioni che l’uomo ha inventato per intrappolare come una mosca il momento presente, e ciò che semplicemente è. Gregory Lestrade, muto nella sua stanza di manicomio, riusciva a vedere ciò che era, ed eppure rimaneva in silenzio, conscio di non poterlo trasmettere, conscio di doverlo stipare in se stesso fino alla fine dei suoi giorni.
Parlava, parlava, parlava, eccome se parlava. Nella sua mente non fluivano altro che parole, ed ogni volta non erano abbastanza, non riuscivano ad intrappolare ciò che sentiva, né ciò che aveva sentito in passato: il nero mare rigonfiarsi come un lenzuolo, la schiuma rosicare il legno lercio della sua Missouri, i gabbiani scheletrici improvvisarsi avvoltoi, il calore che secca le labbra fino a spaccarle.
Diceva a se stesso che avrebbe parlato, se avesse trovato una sola parola che sembrasse perlomeno adatta.
(Aveva detto Addio a Sherlock Holmes quando aveva lasciato l’ospedale. La gola aveva continuato a bruciargli per una settimana, costringendolo a fare ammenda alla Luna, osservandola senza battere ciglio per una notte intera, parlandole, raccontandole tutto, in silenzio, com’era giusto che fosse).
 
Perché, vedi, Luna, dovevo aprire bocca.
Perché ho capito che gli addii sono necessari, e qualcuno deve pur sempre dirlo, ad alta voce, “addio”. O non ci si distacca mai. Non so neanche se Sherlock Holmes mi abbia sentito, forse vuole convincersi di no, così che alla prima paura ritorni qui a proteggersi, come me.
Invece no, non dev’essere così. Ho messo un punto alla sua permanenza qui.
Le parole sono futili, leggere, stupide; sei stata tu la mia maestra, tu ad insegnarmelo, nelle lunghe notti di secca. I miei compagni piangevano, e dondolavano fra le braccia i  corpi di altri miei compagni, e tu mi zittivi col tuo chiarore.
Shh, dicevi, non parlare. Ora ti guardo da un posto tutt’altro che pericoloso, e tu continui a zittirmi, a proteggermi dagli altri che non capirebbero. Ed hai ragione. Lo accetto.
Solo, non guardarmi così. Sherlock Holmes era uno di noi, Luna, meritava quell’addio quanto io merito d’essere zittito da te e di cogliere la tua luminescenza.
Non ricordarmi il passato. Non punirmi.
Se solo i poeti sapessero quanto sei meschina. Se solo la smettessero di dipingerti come una dolce madre, se solo mi stessero più vicini nel dolore e più lontani nella gioia!
Se solo.
Mi lasciassero solo.
O mi dicessero addio.

 
E chiudeva gli occhi, Gregory Lestrade. Forse per sempre, forse per una notte. Cosa avrebbe tolto al mondo, con la sua assenza?
Dopotutto, la Luna gli aveva detto addio da ormai molti anni, ed ora l’aveva lasciato dormire, libero, e gli aveva persino concesso di dire “Addio” a se stesso, con un sorriso placido, ed un lenzuolo asciutto color del mare a coprirlo.


 
   
 
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